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 2016  ottobre 21 Venerdì calendario

SUA MAESTÀ CERCA 1000 SPIE E SOLO DONNE


LONDRA. Cercasi nuovi 007. Il più diversi possibile da James Bond. Non dice proprio così, l’annuncio sul sito dell’Mi6, acronimo di Military Intelligence, section 6, come era originariamente chiamato, anche se non fa più parte delle forze armate. Ma la sostanza è questa. Il servizio di spionaggio britannico, celebrato e reso famoso dai romanzi di Ian Fleming e dai film tratti o ispirati dal suo personaggio, ha lanciato la più grande ricerca di personale della sua storia: vuole assumere mille nuove spie entro il 2020, aumentando l’organico del 40 per cento, in modo da avere, prima della fine del decennio, 2.500 agenti e 3.500 analisti. L’obiettivo è combattere più efficacemente il terrorismo. E per farlo non basta soltanto ingrandire l’organico, occorre cambiarlo, diversificarlo, spiega Alex Younger, il direttore dell’Mi6, in gergo conosciuto soltanto con un’iniziale, “C” (per Chief – capo), come nei thriller di Fleming o Le Carrè, anche se al giorno d’oggi è caduto il divieto di identificarlo per nome e cognome: i giornali pubblicano perfino la sua foto.
Dunque, si cambia: gli 007 devono essere donne, non uomini; appartenenti a minoranze etniche, non bianchi; più bravi a muoversi nei social network, su Facebook e Twitter, che a sorseggiare Martini, “agitato, non mescolato”, secondo la classica formula del Bond letterario/cinematografico, o a seminare avversari al volante di un’Aston Martin. Devono essere, per l’appunto, il più diversi possibile dagli 007 del passato, quelli reali come quelli di libri e film. Perché? Perché le sfide del 21esimo secolo, dal terrorismo internazionale alla minaccia dello spionaggio cibernetico di Russia e Cina, necessitano un mutamento di tecnica e strategia. «La rivoluzione digitale ha profondamente modificato il nostro mestiere» ha detto “C”, alias Alex Younger, in un raro pubblico intervento a un convegno di intelligence internazionale a Washington nei giorni scorsi. «Mi sento di dire che fra cinque anni ci saranno due tipi di servizi segreti su questo pianeta: quelli che hanno capito la rivoluzione digitale e vi si sono adattati e quelli che non l’hanno compresa e sono rimasti indietro. Io sono determinato a fare in modo che l’Mi6 rientri nella prima categoria».
Non era solo James Bond a dare ai servizi segreti britannici la reputazione di essere i migliori del mondo, o fra i migliori, insieme alla Cia americana, al Mossad israeliano e all’Fsb russo, erede del Kgb sovietico. Fino alla seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna costitutiva, con le sue vaste colonie, il più grande impero della storia e la prima superpotenza della terra: nessuno aveva le stesse risorse, umane, finanziarie, tecnologiche, nel campo dello spionaggio. Sebbene il Regno Unito dal 1945 in avanti non abbia più la stessa influenza e le stesse aspirazioni a livello globale, non ha lesinato fondi ai suoi servizi di intelligence. Li ha moltiplicati dopo l’attacco terroristico all’America dell’11 settembre 2001 e ancora di più dopo l’attentato del 2005 nel metrò di Londra, che fece 60 morti e 500 feriti, uno dei più gravi nell’epoca di al Qaida e dei suoi epigoni.
«Non è sorprendente che ora si aumentino uomini e strutture nell’Mi6» commenta Raffaello Pantucci, italiano di origine, uno dei direttori del Royal United Services Institute, la think tank su questioni di sicurezza più antica del mondo (fondata nel 1831 nientemeno che dal duca di Wellington), autore del libro più documentato sui terroristi fatti in casa We Love Death as You Love Life (Amiamo la morte come voi amate la vita). «Dopo l’attentato a Londra del 2005, il governo britannico ha potenziato enormemente l’Mi5, il servizio di controspionaggio e antiterrorismo, e il Gchq, il servizio di spionaggio elettronico, l’equivalente della Nsa americana» spiega Pantucci. «Ora è il momento di rafforzare l’Mi6, riconoscendo che la vecchia immagine della spia, che frequenta ambasciate e party, gira il mondo sotto mentite spoglie, rischia la vita a ogni passo, è in gran parte obsoleta».
Perché dunque più donne e più minoranze? «Perché l’Mi6, in questo simile allo spionaggio dei film di James Bond, era uno degli ultimi baluardi maschili e bianchi, prevalentemente composto di agenti uomini anglosassoni, pur avendo avuto ben due donne, in anni recenti, come direttori (anche questa una somiglianza con il Bond del cinema: in cui “C” era interpretata da lady Judi Dench). Per stare nella realtà odierna senza dare nell’occhio, servono agenti più simili a quella realtà, dunque più 007 donne e di origini etniche differenti». Ma poi tutti, indifferentemente da sesso e aspetto, devono saper navigare il web meglio di qualunque altro ambiente.
In un certo senso è la contraddizione dell’intelligence tradizionale. «La segretezza» sosteneva sir Mansfield Smith-Cumming, primo capo dell’Mi6, «è il primo, ultimo e più necessario elemento della spia»: ma nell’era del software per i riconoscimenti visuali, delle analisi fatte con Big Data, degli smart phone potenti come un cervello elettronico, del Dna e dei passaporti biometrici, quel concetto non vale più. Primo: celare la propria identità è diventato maledettamente difficile. «I giorni in cui un agente poteva fingere di essere qualcun altro sono pressoché finiti» osserva Nigel Inkster, ex-direttore operativo dell’Mi6 e ora esperto di minacce transnazionali e rischi politici all’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra. Secondo: è impossibile fare l’agente segreto senza lasciare tracce online. Al contrario, è essenziale lasciarle: una persona che non usa l’email, non sta su Facebook eTwitter, non ha un iPhone, suscita immediatamente dei sospetti. Terzo: un tempo per raccogliere informazioni bisognava «lavorarsi un cocktail party» come dicevano le spie della letteratura, stringere mani, farsi conoscere, ottenere fiducia, ma adesso tutto questo si fa prima e meglio su internet. Inclusa la possibilità di intercettare dati compromettenti su eventuali contatti da ricattare. «Lo Smiley del 21esimo secolo» concorda il Financial Times, alludendo al personaggio di La spia che venne dal freddo, il classico di John Le Carrè, «passerebbe le giornate sui social network”.
È questo sforzo di rinnovamento la ragione per cui la Gran Bretagna, dopo l’attentato del 2005 nel metrò della capitale, non ha più sofferto grandi attacchi terroristici, diversamente da altri Paesi europei come Francia e Belgio? «Tutti i servizi segreti cercano di rinnovarsi e stare al passo con i tempi» risponde Pantucci, «e non è del tutto esatto che la Gran Bretagna non ha più subito attacchi, dopo il 2005 ce ne sono stati almeno tre, seppure facendo poche vittime, senza contare tutti quelli che i nostri servizi di intelligence hanno fermato sul nascere». Ma proprio questo è il punto, conclude lo specialista di antiterrorismo del Royal Institute: la capacità di intervenire prima che i terroristi si preparino a entrare in azione e diventino una ticking bomb, una bomba a orologeria.
«Intervenire troppo presto può essere controproducente, perché è poi più difficile dimostrare in tribunale le intenzioni dei terroristi. Ma è il sistema migliore per evitare stragi come quelle di Parigi e di Bruxelles. E il motivo per cui i servizi di spionaggio britannici ci riescono meglio di quelli francesi o belgi è che fra Mi6, Mi5 e Gchq c’è più dialogo, più scambio di informazioni, più connessione. I servizi segreti, come dice la parola, tendono a preferire di rimanere “segreti”, ovvero a parlare di quello che fanno meno che si può, con meno gente che si può. Invece nella lotta al terrorismo internazionale, al tempo della rivoluzione digitale, la comunicazione è decisiva». Quante cose dovrebbe imparare, James Bond, se entrasse in servizio nel 2016.
Enrico Franceschini