Maria Pia Fusco, il venerdì 14/10/2016, 14 ottobre 2016
A 80 ANNI NON SMETTO D’INFURIARMI
La Palma d’oro vinta a Cannes dal film Io, Daniel Blake può considerarsi uno dei regali di compleanno per Ken Loach che il 17 giugno ha compiuto ottant’anni. Ma il tempo sembra non sfiorarlo: nessun cedimento alla stanchezza, nessun segno di resa come ha dimostrato poche settimane fa in occasione del Raindance Film Festival, dove gli hanno dato un riconoscimento tutto britannico riservato agli autori. Loach, dopo aver scherzato sull’età («Un premio a un vecchio potrebbe sempre essere l’ultimo»), si è rivolto con forza ai colleghi: «Il cinema può farci conoscere il mondo, mondi diversi, anche esotici, ma non sempre ci mostra il mondo che ci circonda. Il problema è che troppo spesso i nostri registi sono incoraggiati a guardare oltre Oceano. Penso invece che noi dovremmo sostenere la nostra cultura e il cinema che esprime il nostro immaginario, il nostro humour, le nostre storie. Pensate che la nostra cultura non sia ricca abbastanza?». Con gli stessi accenti forti si era rivolto alla platea di Cannes nei ringraziamenti per la Palma d’oro: «Ricevere questo premio in questa situazione storica è molto importante. Non dobbiamo dimenticare le storie dei personaggi che hanno ispirato il film. Ci troviamo in un mondo pericoloso dove il neoliberismo rischia di ridurre in miseria migliaia di persone. Il cinema è portatore di tante tradizioni, e fra questa c’è la protesta del popolo contro i potenti». E aveva concluso con la speranza di «un mondo migliore possibile».
Non è facile trovare la speranza in Io, Daniel Blake, venticinquesimo film di Loach, in uscita in Italia (distribuito da Valerio De Paolis) il 26 ottobre. Daniel è un falegname sessantenne di New Castle costretto a chiedere un sussidio dopo una crisi cardiaca che gli impedisce di lavorare. Ma per una serie di vicissitudini assurde, quasi kafkiane, in attesa che venga accolta la sua richiesta deve trovare comunque un lavoro, pena una pesante sanzione. Loach ha scritto il film con l’immancabile Paul Laverty che dal 1996, a partire da La canzone di Carla in poi, è il suo prezioso sceneggiatore e amico. Una storia incredibile ma, dice il regista, «tutto quello che vediamo nel film è vero, documentato. Anzi non abbiamo scelto una storia estrema, ci sono casi anche peggiori, il sistema sanitario e la politica sociale sono un Far West. La burocrazia è soffocante e l’uso delle tecnologie, a cui le persone più anziane sono spesso impreparate, si può trasformare in un’arma terribile». E come per Daniel – interpretato da Dave Johns – anche per Katie (Hayley Squires), la madre single di due bambini, non sembra ci sia una via d’uscita, se non quella di vendersi.
«La burocrazia ha reso complicato anche il ricorso alla Banca del Cibo, un’associazione di volontari che dovrebbe distribuire pasti, ma per accedere sono necessari vari certificati sulla povertà e sulla salute» continua Loach. Il quale però non dimentica mai la leggerezza e l’ironia, che usa sfumando i momenti drammatici con un uso sapiente del linguaggio. E mostrando l’umanità e la tenerezza dei suoi piccoli personaggi comuni, sempre pronti alla generosità e alla solidarietà: la magia che suscitano è sempre stato un elemento vincente del suo cinema. «Non c’è nessuna magia, è solo il modo con cui Paul ed io guardiamo i nostri protagonisti. In più c’è la presenza dei non professionisti – sia i volontari della Banca del Cibo che gli impiegati del collocamento e della sanità nella realtà fanno esattamente quel lavoro – e questo crea un clima di verità che coinvolge anche tutti gli attori». Nella carriera di Loach il rapporto col cinema della verità viene da lontano. Il regista ricorda «con commozione la scoperta del neorealismo italiano. Per tanti di noi fu un’illuminazione, non pensavamo che i volti e quelle storie di comune vita quotidiana potessero arrivare sullo schermo, senza il glamour dei divi o la grandiosità degli eroi. In loro c’era la normalità di tanti piccoli eroi della sopravvivenza di ogni giorno». Poi ci fu l’esperienza del Free Cinema, il movimento a cui Loach aderì insieme a Lindsay Anderson,Tony Richardson e Joseph Losey con i suoi primi film, Poor Cow e Kes. Fondamentale, infine, la serie di dieci episodi per la Bbc The Wednesday Play, che intrecciando finzione e documentario raccontava storie della classe operaia e della piccola borghesia.
Loach ricorda «con piacere quell’esperienza. Fu molto forte anche per le difficoltà che incontrammo: interventi della censura, critiche durissime da parte della stampa conservatrice, ritardo e scarsa attenzione nella messa in onda. Fu una scuola di resistenza. Continuavo ad avere proposte, lavoravo, ma poi i miei film sparivano per anni. Succedeva la stessa cosa con Channel Four: uno dei documentari era sullo sciopero dei minatori britannici, e fu censurato perché giudicato troppo a loro favore. Ma poi vinse un premio in un festival italiano e Channel Four fu costretto a mandarlo in onda» ricorda Ken Loach col suo consueto sorriso gentile e una punta di rivalsa quasi infantile.
La scuola di resistenza gli è stata decisamente utile negli anni di Margaret Thatcher, che non poteva certo simpatizzare con il socialismo dichiarato e le lotte sociali di Loach: per circa un decennio ha dovuto limitarsi a girare la pubblicità televisiva. Bisogna aspettare gli anni Novanta, prima con l’affermazione di L’agenda nascosta sui rapporti tra l’Ira e la polizia britannica negli anni Ottanta (premio della giuria a Cannes 1990), poi col ritorno al successo con film come Riff Raff, Piovono pietre, Terra e libertà, Il vento che accarezza l’erba (Palma d’oro 2006) o ai più recenti Il mio amico Eric, L’altra verità, La porta degli angeli.
Sugli anni della Thatcher il regista preferisce sorvolare. «Se ne è parlato fin troppo, nel bene e nel male. Oggi l’attualità è un’altra», dice. Per esempio c’è la premier britannica Theresa May: «Rappresenta la destra pura. Certo, è meno peggio della Thatcher, ma non mi piace, farà la politica del business». E poi c’è la Brexit: «Le persone di sinistra come me hanno votato comunque per restare. Era l’alternativa migliore, anche se la comunità europea è un’organizzazione liberista che per esempio tende ad affidare ai privati i servizi pubblici».
Tra i tanti mali del mondo, dalle guerre al terrorismo fino a Donald Trump («un pericolo non solo per l’America ma per tutti») Loach, sempre alla ricerca di un possibile leader giusto, parla di Jeremy Corbyn. «Forse per la prima volta nella loro storia i laburisti hanno trovato un leader sinceramente di sinistra. Lo hanno eletto a sorpresa, in fondo non credendoci, e appena si sono accorti dell’errore la destra del partito ha cominciato a boicottarlo sui media, anche con mezzi scorretti, tipo spiare in anticipo gli interventi per preparare le risposte. Ma Corbyn non è uno che si arrende, continua la sua politica a favore della casa, della scuola, della maternità, dei servizi sociali. E mi auguro che ce la faccia». Lui intanto sostiene la sua politica con video e interventi vari.
Malgrado tutto il suo impegno, Ken Loach precisa: «Io sono un regista, non un politico. Il cinema è un lavoro che amo perché mi permette totale libertà, anche quella di creare e di sbagliare. Chi fa politica non è libero, deve rendere conto alle istituzioni, a quelli del suo partito, agli avversari. E prima o poi sarà contretto al compromesso». Cosa per cui Loach non è tanto tagliato: una volta si è perfino scusato di una pubblicità incautamente girata per McDonalds. Dopodiché, anche lui confessa qualche intemperanza. In cucina per esempio. «È vero, quando mi metto ai fornelli non voglio essere disturbato da nessuno, mia moglie dice che svelo un lato da dittatore. Non solo, ma quando preparo un piatto – la mia specialità è la fricassea – se non proprio un applauso pretendo almeno che tutti siano soddisfatti e mi facciano i complimenti».
E sono molte le persone da accontentare, oltre a Lesley Ashton, sua moglie dal 1962, ci sono quattro figli (una morì adolescente in un incidente) e dieci nipoti. Abbastanza per una squadra di calcio? «Non è una cattiva idea, potrei diventare un buon allenatore». Il calcio (e chi ha visto Cantona in Il mio amico Eric lo sa) è una sua passione: tifoso del Bath City, insieme ad altri supporter contribuisce perfino a finanziarlo.
Già poco prima di girare Io, Daniel Blake Ken Loach aveva annunciato l’intenzione di ritirarsi. E adesso? Conferma? «Sinceramente non lo so, cosa farò. Mia moglie insiste, dice che devo riposarmi. Ma ci sono ancora un sacco di belle storie dure da raccontare».
Maria Pia Fusco