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 2016  ottobre 15 Sabato calendario

TOH, È RINATO IL PCI. E INTANTO BERTINOTTI SI GODE UN’EREDITÀ DA 500.000 EURO


In principio era il Pci. E il Pci era il comunismo. E il comunismo era il Pci. Poi arrivarono il Pds, i Ds e infine il Partito democratico. E tutto fini. Perché con il comunismo i dem non vogliono avere nulla a che fare. Ma i comunisti che fine hanno fatto? Spariti, dissolti, sciolti nell’acido, evaporati? No, seppur in clandestinità, a guardare stampa e tv – di regime, direbbero loro – ci sono, sono vivi: il comunista è vivo e lotta insieme a noi. Anche se non si vede. E ha rifatto il Pci.
Ebbene sì. È rinato il Partito comunista italiano. Notizia vera. Non è una cosa per Il Male, Cuore o Tango. È una cosa seria. Il 26 giugno 2016 a San Lazzaro di Savena (Bologna) è rinato il Partito comunista italiano, figlio del Partito comunista d’Italia. Proprio come nel 1921 a Livorno, quando nacque appunto il Partito comunista d’Italia che resistette fino al 1926, per poi entrare in clandestinità e tornare nel 1943 come Partito comunista italiano. Ed è successo di nuovo: il Partito comunista d’Italia, nato sulle ceneri del Partito dei comunisti italiani di Oliviero Diliberto (che nel frattempo è stato chiamato a insegnare all’università in Cina e che è sempre più lontano dalla politica), si è trasformato in Partito comunista italiano, con tanto di falce e martello e simbolo uguale a quello del vecchio Pci dissoltosi dopo la svolta della Bolognina di Achille Occhetto.

IL PD NON É COMUNISTA
Il Partito comunista italiano è nato partendo dall’assunto che ormai l’erede naturale del Pci, e cioè il Pd, comunista non lo è affatto. E l’operazione politica ha sciolto le vele in barba a ogni norma sulla proprietà del nome e soprattutto sfidando Ugo Sposetti, il «guardiano» del Pci, di quello vero, che ancora non si è fatto vivo. I maligni sostengono che, da custode della storia oltre che dei cimeli e della «roba» messa al riparo nelle varie fondazioni create ad hoc in cui è stato conferito il patrimonio immobiliare del fu Pci, Sposetti non tarderà a farsi vivo. Ma dalle parti della nuova falce e martello sostengono essere in una botte di ferro: «La legge parla di confondibilità del simbolo e il nostro non ha nulla a che vedere con quello del Partito democratico».

LA MORTE DEL COMUNISMO
La morte del comunismo in Italia è opera dell’uno-due che Walter Veltroni e Pier Luigi Bersani assestarono a distanza di qualche anno agli eredi del fu Pci. Sterminandoli. Sono loro i due giustizieri che prima hanno stretto il cappio al collo dei comunisti, blandendoli con promesse e alleanze, e poi hanno tirato la corda, a qualche giorno dal deposito delle liste, negando quanto promesso, spezzando di schianto l’osso del collo delle formazioni con falce e martello.
Ovviamente – manco a dirlo – la rinascita del Pci è un’operazione politica mirata a riunire tutti i comunisti. Per adesso l’operazione è riuscita solo in parte. Oltre ai reduci del Pdci e del Partito comunista d’Italia, all’operazione ha aderito una frazione scissionista di Rifondazione comunista che non si riconosce più in Paolo Ferrero ed è riparata sotto la nuova-vecchia falce e martello.

I RITI DEI VECCHI TEMPI
I riti, le liturgie e il cerimoniale sono quelli dei vecchi tempi. Ci sono un segretario, Mauro Alboresi: un presidente, Manuela Palermi, una bella signora âge; una segreteria, non troppo snella; un Comitato centrale più contenuto rispetto agli standard dei partiti comunisti classici, visto che è composto «solo» da 182 membri. Infine è risorta anche la gloriosa Fgci, l’organizzazione giovanile da cui partirono Enrico Berlinguer, Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo per diventare leader nazionali.
Con solo qualche mese di vita, nel Pci rinato le polemiche già non mancano. Ultima, in ordine di tempo, quella sul segretario nazionale della Fgci, Francesco Valerio della Croce, laureato alla Luiss, l’università della Confindustria, cioè dei padroni, non propriamente una medaglia da ostentare per un comunista secondo alcuni militanti, adepti, tifosi o iscritti che siano. Che se ai bei tempi intervenivano nelle sezioni e negli organi deputati, ora si scatenano sui social. E le polemiche montano. E i post si sprecano.
Perché i comunisti sono attivissimi, in Rete. E, come nulla fosse accaduto, dispensano quotidianamente le loro pensosissime, cenotafiche e imperiture dichiarazioni e prese di posizione su tutto lo scibile umano: che sia la politica del Fondo monetario, il Trattato del commercio globale, o una piccola bega di paese, non fa differenza. Ci sono. Con le classiche specialità della casa: l’appello su cui mobilitarsi per raccogliere le firme e la dichiarazione di solidarietà. Con tutto e tutti (beh, proprio tutti no). Come se nulla fosse accaduto, come quando avevano 6 milioni di voti e 68 parlamentari.
A dire il vero il comunista, come aggettivo singolare maschile, colui cioè che rappresenta l’espressione e l’attuazione pratica del comunismo, non si vede più in giro. Nelle istituzioni nazionali ne è rimasto uno. Anzi una: siede al Parlamento europeo e si chiama Eleonora Forenza. Che se mai vedrà La Verità resterà sorpresa di essere finita su un giornale. Un giornale borghese, poi.
Cercare invece il comunista, come sostantivo singolare maschile, e cioè chi professa il comunismo, è impresa disperata. Sparite le sezioni, orpello novecentesco dei partiti, di tutti i partiti, non ha più un luogo dove «sì, il dibattito sì», tanto per citare Nanni Moretti al contrario.

IL MONOLITE
Ma se decliniamo comunista come aggettivo, da aggiungere alla parola partito o movimento. allora si torna ai bei tempi. O meglio, no, proprio ai bei tempi no. Allora di Partito comunista ce ne era uno e uno solo. Il monolite. Che organizzava le masse, controllava il frazionismo, riduceva al silenzio e metteva a tacere qualsiasi spinta «insurrezionalista». Con un rigido controllo dell’ortodossia attraverso probiviri e decisioni inappellabili. Ma la democrazia ebbe la meglio sull’ortodossia e sul centralismo democratico. E fu il caos. Infine, invece che in principio.


CAOS E MACERIE
Caos e macerie sulle quali ballano, come sul Titanic, decine di partiti comunisti rissosi oltremisura, ognuno dei quali si proclama il vero erede e il vero custode della dottrina e dell’ortodossia comunista. Ci fosse di mezzo «la roba», si potrebbe anche capire. Ma le liti sono su un’eredità immateriale fatta di utopie e proposte, spesso anche di buoni argomenti, cui nessuno presta più attenzione nella saga dell’autoreferenzialità assoluta. Insomma se la cantano e se la suonano fra loro.
Fra le decine di partiti che si definiscono comunisti, c’è la storica Rifondazione comunista alla cui guida c’è Paolo Ferrero. Re travicello, oggi, ma il vero vincitore della storia comunista. Chi se non lui può essere ritenuto il vincitore. Per uno che viene da Democrazia proletaria, gruppettaro sin dalla nascita, vedere oggi la polverizzazione e l’atomizzazione dell’universo comunista, e aver contribuito a gruppettizzare tutta la sinistra, l’un contro l’altro armato, che cos’è se non un trionfo?
Oggi fa il segretario di minoranza dopo un congresso che ha visto affermarsi quattro correnti, nessuna delle quali da sola ha la maggioranza e congelando così la situazione. Un classico di cui si può stupire solo qualche neofita. Ma quelli di Rifonda, il confidenziale nomignolo con cui si chiamano nella galassia comunista, sono coloro che stanno messi meglio. Hanno sì venduto il palazzetto di via del Policlinico a Roma, dov’era la sede nazionale, ma hanno ancora qualche bene al sole, leggasi qualche sede in giro per l’Italia, da poter vendere per pagare una struttura ormai ridotta all’osso.
Il leader Fausto Bertinotti si è eclissato. Scrive qualche volta sull’Hiffington Post, testata web, non proprio un giornale di area, e probabilmente è intento a godersi l’eredità di quell’uomo buono che fu Mario D’Urso, il quale, morendo, gli lasciò in eredità 500.000 euro, che i compagni sostengono essere la ricompensa delle tante comparsate nei salotti. Gli stessi compagni sostengono, perfidamente, che fra Bertinotti e il comunismo non ci sono mai state relazioni.
Poi c’è Sinistra italiana che non riesce a fare il congresso per il quale l’unto dal partito sarebbe Nicola Fratoianni, che però è insidiato da Stefano Fassina («Fassina chi?», direbbe Matteo Renzi), il quale è contemporaneamente parlamentare, consigliere comunale a Roma e ora anche leader animatore di una fondazione. Tutti uniti però, per sbarrare la strada al giovane Marco Furfaro, uscito con le ossa rotte dalla campagna d’Europa nella quale ha assaporato per qualche giorno la prospettiva di fare il parlamentare europeo.

6 PERSONE, 4 CORRENTI
Una storia quella del seggio europeo, o un’epopea per meglio dire, che meriterebbe un racconto a parte. La dimostrazione della balcanizzazione del mondo comunista, che ormai prevede che in un consesso di sei persone ci siano almeno quattro correnti.
A Strasburgo hanno saputo fare di meglio: tre eletti, con tre collocazioni politiche diverse e con Eleonora Forenza, l’unica rappresentante rimasta nel gruppo della sinistra europea con Alexis Tsipras, che però ha una posizione anti Tsipras.
In un’altra delle microscopiche formazioni comuniste, è in atto un epico scontro fra il Vecchio Patriarca e il Giovane Virgulto allevato con tanta cura. Crono che uccide il padre: anche questa una storia già sentita. Complici le ultime elezioni comunali, in cui Marco Rizzo, il patriarca, ha preso 3.192 preferenze a Torino, e Alessandro Mustillo, il virgulto, a Roma ben 10.280. Incurante delle proporzioni e della percentuale, lo 0,80 a Roma contro lo 0,89 a Torino, il giovane Mustillo sta cercando di scalzare il vecchio trombone comunista. Che mediaticamente campa di una rendita di posizione fatta di conoscenze e relazioni nel mondo dei media. La quale tre-quattro volte l’anno gli consente di incassare un certificato di esistenza in vita sotto forma di servizio in qualche tg o un microscopico «bollino» sul Corriere della Sera, ostentati poi sui siti e su Facebook come la conquista del Palazzo d’inverno.

LA TRAGEDIA E LA FARSA
Partiti e movimenti che nascono e muoiono, si fondono, si annettono, si incorporano. A volerne disegnare una mappa e tenerne un’anagrafe, è operazione velleitaria anche per il più solerte e preciso degli storici. Ma, come ebbe a dire Karl Marx, la storia si ripete sempre due volte: prima in tragedia e poi in farsa. E se la chiusura del Pci per i comunisti può essere stata la tragedia, aspettiamo che sia la storia a smentire Marx e a dimostrare che la nascita nel 2016 del Partito comunista italiano non è stata una farsa.
Se può essere indicativo di una deriva di un mondo, un’estate fa sul Manifesto, quotidiano comunista, tenne banco il dibattito «C’è vita a sinistra?». Quest’anno il tema è diventato «La morte della politica». Ma c’è da dire che quelli del Manifesto sono vivi e vegeti e, loro sì, lottano insieme a noi. Hanno attraversato tutti questi anni e continuano a essere l’unico quotidiano di riferimento di un popolo, unico organo di stampa nel desertificato mondo delle pubblicazioni comuniste che hanno tutte chiuso i battenti, da Liberazione a Rinascita. Una chiave per capire dove siano i comunisti la fornisce Matteo Bartocci, redattore capo del quotidiano, che dice di non sapere dove siano finiti i comunisti, ma che questo Papa piace ai comunisti, «perché ogni volta che parla riceviamo una valanga di lettere positive».
E a proposito di editoria non si può non ricordare Marco Ferrando, il barbuto leader del Partito comunista dei lavoratori e referente italiano del Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale, che ha appena dato alle stampe una monumentale Storia della Rivoluzione sovietica di più di 900 pagine. In anticipo su tutti visto che il prossimo anno ne ricorrerà il centenario. Per il bene della foresta amazzonica e del pianeta intero, c’è da augurarsi che non diventi un best seller.