Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 18 Martedì calendario

IL GENOCIDIO COMPIUTO DAI SAVOIA NEL SUD FU COME QUELLO DEGLI ARMENI: 458.000 SPARITI


Uso la parola «genocidio», per indicare la dimensione del massacro che fu compiuto al Sud dalle truppe sabaude, per unificare l’Italia (ma in Parlamento, nel 1866, il capo del governo disse: «Per allargare il Piemonte»). E al mio libro ho dato il titolo Carnefici. Esagero? Il reato di «genocidio» (discusso all’Onu quasi 70 anni fa) consiste nel distruggere istituzioni statali, culturali, religiose, economiche di un popolo, per cancellarne l’identità e imporne un’altra. Tutte cose che furono fatte, dal 1860-1861 e anni seguenti, al Sud, a opera delle truppe e dei politici sabaudi o filosabaudi. E diciamo che l’Italia poteva nascere meglio...
Nel 1863, Giovanni Manna, ministro da cui dipendeva la Direzione nazionale di statistica, nel rapporto sui risultati del censimento del 1861, scrive al re (riassumo): nelle province conquistate, la popolazione cresceva, sino al 1860, di tot all’anno; nel 1861, avremmo dovuto trovare «x» abitanti, invece di solo «y». La differenza è dovuta alle «gravi circostanze occorse durante il grande atto del nostro rinnovamento. La guerra, cioè». Mancavano all’appello 458.000 italiani.
Poi, i padri della statistica italiana, Pietro Maestri e Cesare Correnti, trovano che in un anno, nel Sud la popolazione smette di crescere e cala di 120.000 persone (stupiti che i dati peggiori non siano nelle zone dove maggiore è la resistenza in armi, spacciata per «Brigantaggio»). Due anni fa, lo studio di Delio Miotti, della Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno), svela che gli abitanti del Sud, nel 1867 (appena sei anni dopo l’Unità), invece di aumentare, diminuiscono, dopo essere tanto cresciuti nel secolo precedente, da raddoppiare di numero. Dai risultati del censimento del 1861, emergono 405.000 desaparecidos: si tratta di emigrati «perduti», diranno, perché all’estero da troppi anni. Ma 105.000 erano meridionali e non esisteva emigrazione, dal Sud: apparve circa 20 anni dopo l’Unità, per la miseria che ne derivò. E quei 105.000 erano tutti maschi: combattenti e morti?
Alcuni anni dopo si scoprono altri 110.000 desaparecidos: tutti giovani, maschi, renitenti alla leva: «morti»? ipotizza, fra l’altro, l’estensore della statistica.
E poi stragi di civili, interi paesi rasi al suolo, la popolazione fucilata, bruciata viva (lo denunciò pure Antonio Gramsci), donne stuprate, come quelle «di conforto» coreane dai giapponesi, per «saziare la libidine» dei soldati, scrisse Vincenzo Padula, prete, intellettuale cosentino, unitarista antiborbonico; in tutt’Italia si stese un immenso arcipelago Gulag, con 60-80.000 soldati borbonici e decine di migliaia di civili deportati, senza accusa, processo e condanna; centinaia di migliaia di incarcerati all’anno per poche ore (il tempo, spesso, di pagare un riscatto) o anni, in condizioni che portarono a morte sino a un recluso ogni cinque. Da rapporti dell’amministrazione carceraria e atti parlamentari si apprende (relazione del di Rudinì) che ancora nel 1871 si imprigionarono quasi 400.000 persone (la popolazione era poco più di un terzo dell’attuale).
In quegli anni, non solo l’Italia, l’Europa e il mondo cambiavano, con stragi immani, dagli Stati Uniti al Giappone. Altrove lo si racconta a scuola e lo si studia, da noi lo si nega: in Francia, la Biblioteca-Centro studi sul genocidio della Vandea compiuto dai rivoluzionari francesi, ha prodotto sinora 150 volumi.
Ancora oggi, per contestare i dati del mio libro Carnefici, c’è chi obietta che ci furono, sì, fucilazioni di massa, campi di concentramento (da qualcuno, senza vergogna, detti «di lavoro», che magari «rende liberi»...), deportazioni, ma non ci fu «l’intenzione» di compiere un genocidio, quindi avrei usato la parola a sproposito. Cioè: senza le intenzioni, i fatti sono smentiti? E un noto accademico critica la riscoperta dei massacri risorgimentali (taciuti nelle nostre scuole e università, salvo accenni poco più che criptici), con l’argomento: «Come se non si sapesse che la storia è violenta». Vero. Tutta. Ma non si tace di quel che fecero i nazisti, Stalin, i «soldati blu» agli indiani e gli spagnoli, i portoghesi, gli inglesi, i francesi, i belgi, gli italiani nelle colonie. Solo di quella ai danni dei terroni sarebbe sconveniente dire? La storia ora è fatta, si tratta solo di raccontare (come altrove), in che modo e a spese di chi è nato il Paese. O si evita di guardare indietro, per non scoprire che quel metodo, con altri mezzi, dura ancora oggi?
Le idee e le imprese del tempo furono affare di caste e di poco popolo, travolto, non coinvolto, partecipe e protagonista quasi solo nella ribellione, nell’illusione di non essere schiacciato.
I documenti, di fonte governativa, statale, ministeriale, che riporto in Carnefici mostrano che la violenza necessaria ad affermare il nuovo corso (mondo e futuro erano ridisegnati dalla rivoluzione industriale) fece centinaia di migliaia di vittime al Sud, come il genocidio degli armeni in Turchia. Quanti sapevano di paesi interi rasi al suolo fra stupri, saccheggi ed esecuzioni in massa, al Sud, dai bersaglieri anticipatori di metodi nazisti? Ora si vorrebbe limare il «quanto» (qualche stupro o massacro in meno cambierebbe le cose?) e contestare i termini per definire la mattanza nascosta.
«È un genocidio? È una deportazione? È una tragedia? È uno sterminio, è uno sterminio di massa? È un massacro? È un macello?», chiedeva Hrant Dink, giornalista e scrittore turco-armeno ucciso per aver chiesto che il suo Paese riconoscesse la strage.
Ed Etyen Mahçupyan, scrittore armeno, disse ai musulmani: «Dategli voi un nome!». Ecco, con Carnefici non chiedo niente di più. Ma siate onesti. Almeno con le parole. Quelle «non dette, escono in nevrosi», avvertiva Josip Brodskji, il più giovane premio Nobel per la Letteratura. Il che spiega, forse, la condizione italiana.