Stefano Lorenzetto, LaVerità 18/10/2016, 18 ottobre 2016
FISIOGNOMICA DEL BOMBA, IL PREMIER BAMBINO CHE NON DIVENTERÀ MAI GIGANTE
Ormai tutto viene trangugiato, metabolizzato, accettato, tollerato, perdonato, osannato in questa Italia di nani e ballerine dove non conta più nulla l’execution, come sostiene Riccardo Ruggeri, un ex operaio dell’officina 5 di Mirafiori che per anni ha tenuto a galla i bilanci della famiglia Agnelli. L’importante è solo lo storytelling, oscena parola subito fatta propria da Matteo Renzi, cioè la narrazione dei fatti, non la loro verità, non la loro consistenza. Bastano le favole della buonanotte per mettere a letto felici gli italiani. [...]
Lo storytelling è stato eretto a forma di governo da un giovanotto dalla lingua lunga e dalle ambizioni smisurate, divenuto presidente del Consiglio senza passare dalle urne, solo per aver radunato, in una stazione ferroviaria dismessa, un po’ di compagni di partito talmente ammaliati dalla sua parlantina sciolta da non accorgersi che il loro idolo era teleguidato via telefonino e via cuffie auricolari, come una qualsiasi Ambra Angiolini, da Giorgio Gori, marito della giornalista tv Cristina Parodi. Il quale lì alla Leopolda gli suggeriva in diretta le frasi a effetto e le freddure – lo storytelling, appunto – più adatte per arruffianarsi la platea. Io non dico che Renzi, in quanto illegittimo erede di Palmiro Togliatti, avrebbe dovuto trovarsi un ghost-writer della levatura di Massimo Caprara, che del Migliore fu per 20 anni il segretario, un napoletano colto e garbato, già sindaco di Portici e deputato, poi eretico con il gruppo del Manifesto, saggista, direttore dell’Illustrazione italiana, chiamato a scrivere sul Politecnico da Elio Vittorini e sul Giornale da Indro Montanelli. Ma credo che, se ancora resiste un minimo di decenza, debba sussistere una qualche distinzione, vivaddio, fra un Caprara e un Gori, che Vittorio Feltri cacciò per manifesta incapacità dalla redazione di Bergamo Oggi. [...]
Se Alcide De Gasperi si era scelto come braccio destro Giulio Andreotti dopo averlo conosciuto nella Biblioteca Vaticana, Togliatti aveva puntato sull’intellettuale napoletano dopo aver discusso con lui per un mese intero – fu lo stesso Caprara a raccontarmelo – non di politica, non dell’Urss, non del proletariato, non delle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente, ma solo ed esclusivamente di scrittori italiani e francesi, in particolare di Jean-Jacques Rousseau, di Voltaire, di André Malraux, tanto da far concludere a Caprara: «Questo non è un partito, è un salotto letterario».
Renzi, cresciuto alla scuola di Mike Bongiorno come concorrente della Ruota della fortuna, sta a Gori, produttore dell’Isola dei famosi, come Togliatti stava a Caprara, che non entrò mai alla Leopolda di Firenze però aveva dato del tu alla Storia. Come quella volta che il suo capo lo introdusse al cospetto del compagno Giuseppe Bessarione, il «piccolo padre» nato da una lavandaia e da un ciabattino, il demone delle purghe e dei gulag che si mangiava vivi i propri figli: Iosif Vissarionovič Stalin. Nel vialetto della dacia che era appartenuta a Donskoj, principe di Mosca venerato dalla Chiesa ortodossa come San Dimitri di Russia, Baffone, onusto di medaglie e senza il berretto da generalissimo, i capelli sorprendentemente grigi, venne incontro a Caprara. «Era marzo, mulinelli di vento siberiano sollevavano la neve, e io», rievocava l’ex portavoce del Migliore, «ero uscito dalla dacia con addosso soltanto la giacca, un errore che non commise Nilde lotti, la quale indossava una sontuosa pelliccia di zibellino avuta in prestito dal Comitato centrale del Partito bolscevico. A un certo punto cominciarono a lacrimarmi gli occhi per il gelo. Stalin, credendo che mi fossi commosso alla sua vista, mi batté una mano sulla spalla, esclamando in francese: «Courage, camarade», coraggio, compagno. Dopodiché, saputo che ero napoletano, si mise a parlarmi dell’isola di Capri». [...] Poste queste premesse, è anche solo lontanamente immaginabile che Togliatti avrebbe tollerato di farsi chiamare «cazzaro» e «cazzone», come fa ogni giorno Roberto D’Agostino sul sito Dagospia con l’erede del Migliore che oggi siede alla guida dell’ex partito dei comunisti italiani in duplex con il governo?
Ci mancano gli uomini. Abbondano invece gli ometti. I diversamente uomini. È questa la tragedia del nostro tempo. Servirebbero Cesare Lombroso e Sergio Saviane in versione gemelli siamesi per decifrare con efficacia la proterva inconsistenza del «giovane caudillo», come Ferruccio de Bortoli, con sintesi mirabile, ebbe a definire Renzi sul Corriere della Sera nel suo editoriale di congedo, «un maleducato di talento» che costringe inevitabilmente i pochi ancora in grado di pensare con la propria testa «a diffidare fortemente del suo modo di interpretare il potere».
MALEDUCAZIONE
Ci sarà un motivo se de Bortoli, persona di garbo, pacata e diplomatica, che per esplodere ha bisogno di un detonatore elettrico essendogli insufficiente quello a miccia, ha sentito il dovere di rinnovare le medesime critiche a Renzi finanche dalle pagine di Linus, una rivista di fumetti: «Ha incarnato una grande novità», lisciata di pelo, «anche in termini di giovanilismo, maleducazione, arroganza», stoccata da tramortire un bue; «governare è un’altra cosa», lapidario. «Parla di sé in terza persona. È fantastico. Lui pensa che per governare basti raccontare una bella storia al Paese», e si torna sempre lì, alla perversione dello storytelling che maschera il vuoto d’idee e la conseguente incapacità di confrontarsi con quelle altrui. [...] Una pietra tombale su Renzi e sul renzismo come «prodotto di sintesi del berlusconismo di sinistra», che non ha saputo produrre nulla di meglio dell’Italicum, «circa un mostro, disegnato come un abito su misura per un premier con la tendenza alla pinguedine».
Passi per tutte le accuse politiche, ma il giovin presidente del Consiglio, così attento alla propria immagine, non poteva sopportare di essere descritto come un obeso latente. Così, all’indomani della scartavetrata (una fonte infedele del suo entourage a Palazzo Chigi assicura che abbia pianto, leggendo i rimproveri di de Bortoli), si era già emendato a modo suo, facendosi sagomare dal parrucchiere di fiducia un bel boccolo sulle ventitré, quello che un tempo chiamavano tirabaci, ma appena appena accennato, solo una leggera deviazione verso sinistra della fitta moquette nera che gli tappezza la volta cranica, giusto un tocco sbarazzino per valorizzare la sua giovanile prestanza.
CONTATTO FISICO
È nel contatto fisico con i Grandi del pianeta che la timida sudditanza di Renzi, mascherata da sicumera, si manifesta con gesti di stridente scompostezza. Dialoga con Barack Obama al vertice del G7 nel castello di Elmau in Germania e intanto con la mano destra muove su e giù la fede nuziale all’anulare della sinistra, un vezzo tipico dei prelati, simpaticamente bollato come «masturbazione episcopale». Si morde le labbra per soffocare un moto di riso e si dà una pacca sul ginocchio destro per meglio manifestare il proprio compiacimento a una battuta del presidente americano, senza curarsi di prevaricare con un braccio l’incolpevole Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, stretta fra i due. Punta l’indice verso l’infinito quasi a voler segnare la via da seguire, un atteggiamento infantile, reiterato in varie occasioni ufficiali, che condivide soltanto con le statue di Lenin abbattute dopo la caduta del Muro di Berlino e con il suo mentore Silvio Berlusconi, il quale riesce a esibirsi in quel gesto persino nelle foto ufficiali che la sua addetta all’immagine, Miti Simonetto, gli fa scattare nel salotto di Arcore, dove la meta da additare può essere tutt’al più Usmate Velate. Di suo, Renzi però ci aggiunge il coraggio di far postare su Youtube le immagini del suo mascherato disagio nel maniero bavarese, nientemeno che sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, seguite dal simbolo della Repubblica italiana inscritto nel logo della Presidenza del Consiglio dei ministri. Delirio di impotenza.
BECCO DI UPUPA
Se Renzi deve indicare come sconfìggere il terrorismo dopo l’attentato di Bamako, lo fa stringendo in pugno, per tutto il tempo del discorso tenuto alla reggia di Venaria, un Iphone bianco ed esortando i presenti a restare «social, umani». (E come? «Taggando i potenziali soggetti pericolosi», suggerimento che avrà tranquillizzato parecchio i 224 morti dell’aereo russo fatto esplodere sul Sinai dall’Isis e i 130 innocenti accoppati fra teatro Bataclan e dintorni). Se incontra François Hollande, leva al cielo il suo nasino a becco di upupa per apparire più alto del brevilineo presidente francese – il Bullo toscano pensa che la statura faccia lo statista – e aggrotta contegnoso la fronte per darsi un’allure severa. Se gli altri assumono una posa formale, il nostro premier s’infila le mani in tasca per ostentare la sicurezza di sé che non ha, com’è accaduto al vertice del G20 convocato ad Antalya dopo la strage compiuta a Parigi dai terroristi di matrice islamica. Se nella sua Firenze deve improvvisarsi cicerone della cancelliera Angela Merkel invitata a PalazzoVecchio, le cammina due passi avanti, anziché darle la precedenza. Se va in visita ufficiale da Martin Schulz, arriva a Strasburgo in ritardo, costringe il presidente del Parlamento europeo a sorbirsi un caffè perché lui deve finire una telefonata, raggiunge lo spazientito collega apostrofandolo con un cameratesco «Maaartin!» e poi, durante la conferenza stampa, mentre il padrone di casa parla d’immigrazione e altri temi scottanti, inganna il tempo sfoderando tutte le smorfie del proprio sosia Mr Bean, interpretate al meglio: sbadiglia, si ravvia i capelli, si gratta la testa, s’ispeziona i padiglioni auricolari accartocciati, giocherella con il solito telefonino senza neppure curarsi di silenziarne la tastiera, si strofina le unghie e alla fine apostrofa il collega con uno sconcertante «finito qui?» Un siparietto mandato in onda solo da Canal+ in Francia, con uno Schulz che si sbellicava dalle risate rivedendo in studio il filmato delle prodezze compiute al suo cospetto dal fantolino venuto da Roma.
GIANNI PETTENATI
Il Granduca della chiacchiera è diventato il Gianni Pettenati della politica, l’uomo giusto che ci voleva per cantare agli italiani il più consolatorio dei ritornelli: «Ci sarà la rivoluzione/ nemmeno un cannone però tuonerà / ci sarà la rivoluzione / l’amore alla fine vedrai vincerà / e basteranno pochi anni / oppure poche ore / per fare un mondo migliore / un mondo dove tutti saranno perdonati / chi ha vinto e chi ha perduto / vedrai si abbraccerà». E infatti vissero tutti felici e contenti con «Prossima fermata: Italia», «Italia obiettivo comune», gli 80 euro, il Jobs act, la Buona scuola, il Senato delle Regioni e le altre esaltanti trovate di un ducetto che s’è «portato dietro» – così si dipinge nel proprio sito ufficiale – «la voglia di giocare e di “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (Baden Powell)». A tener buoni i connazionali bastano il candore che promana dalle sue camicie bianche d’ordinanza adottate per meglio mascherare gli aloni di sudore (dicono che arrivi a cambiarsene fino a 20 in una sola giornata) e i trionfali messaggi postati da mane a sera su Facce e bocche, che mi pare la traduzione più appropriata di Facebook, e soprattutto su Twitter, dove milioni di tweet – alla lettera «cinguettio», in inglese – condensati in 140 caratteri, non uno di più, vengono sparsi nell’etere da una moltitudine di garruli perdigiorno. [...]
INSONNE OTTIMISMO
Non capisco da dove Renzi tragga tanto insonne ottimismo. È vero, apparteniamo entrambi alle prime due generazioni che, grazie al coraggio dei nostri padri, non hanno più dovuto conoscere gli orrori della guerra e hanno potuto vivere di gran lunga meglio di tutte le precedenti. Ma saremo anche le prime due che consegneranno ai figli un futuro ben peggiore di quello che abbiamo avuto in eredità noi. E dovrei andare in giro a vantarmene?
A 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri, vedete quanto poco occorra per far felice questa serva Italia, di dolore ostello, oggi più che mai nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello. Matteo Renzi lo ha capito d’istinto, con quella baldanza che può derivargli solo dall’incoscienza e dalla scoutistica «voglia di giocare». Con il suo piffero magico, diciamo pure un’ocarina, suona agli abitanti dell’imbruttito Belpaese la musica che essi vogliono sentirsi suonare. Per questo piace molto anche agli industriali in genere, i quali a mezza bocca ti confidano che sì, tutto sommato non vale proprio un cazzo – ciacole a parte – questo premier «cazzaro» e «cazzone», ma, un nanosecondo appresso, s’interrogano smarriti: «D’altronde chi altro mettere al posto suo? In questo momento, è il meno peggio che abbiamo». [...]
La forza dello storytelling risiede proprio nell’inventare ogni mattina una suggestione, un obiettivo mirabolante, uno sbrigativo slogan a effetto privo di agganci con la realtà, quasi sempre fasullo, per abbindolare gli indecisi e rabbonire i recalcitranti. Ma quando nel rapporto fra potere e cittadini viene meno la premessa linguistica della verità, dell’onestà nei confronti dei destinatari del messaggio, qualsiasi discorso si svuota di significato e tutto diviene un indistinto e vacuo blablà. Le dichiarazioni a capocchia da cui siamo sommersi senza requie segnalano la stadiazione delle metastasi che hanno colonizzato le istituzioni.