Frauke Hunfeld, D, la Repubblica 15/10/2016, 15 ottobre 2016
LA PRIGIONIERA– [Natascha Kampusch] Ogni tanto Natascha taglia il prato sul retro della casa di Strasshof
LA PRIGIONIERA– [Natascha Kampusch] Ogni tanto Natascha taglia il prato sul retro della casa di Strasshof. Siamo nella periferia di Vienna e le pareti dell’edificio davanti al quale ci troviamo sono di un colore indefinito tra il grigio e il marrone, scolorite dal sole. La casa sembra trasandata e le persiane sono chiuse giorno e notte. Proprio come allora. Una siepe protegge l’edificio da sguardi indiscreti. Molti anni fa, quando era prigioniera in questa casa – per essere precisi, “sotto” questa casa, nel carcere sotterraneo costruito dal suo rapitore – Natascha strappò un paio di foglie dalla siepe, di notte, quando le era concesso lasciare brevemente la sua cella. Quella notte Natascha portò le foglie con sé nel seminterrato e le ripose in una scatola per custodirle. Erano seccate quasi subito, ma non importava. Quelle foglie le avrebbero permesso di non dimenticare l’esistenza delle piante, della terra, del cielo e dell’aria. Natascha aveva dieci anni il giorno in cui, all’uscita da scuola, venne trascinata da un uomo in un furgone e portata via. La forza per sopravvivere a quegli otto anni e mezzo di reclusione seppe trovarla immaginando, giorno dopo giorno, come sarebbe stata la sua vita in libertà, una libertà fatta di luce e di colori, e preparandosi al momento in cui avrebbe avuto la possibilità, il coraggio e la forza di scappare. Sono trascorsi dieci anni da quel giorno. Dieci anni durante i quali Natascha è stata considerata, inizialmente, come la vittima da compatire, e poi, almeno per alcuni, un personaggio scomodo, una bugiarda, una complice, addirittura un’assassina. L’abitazione in cui venne tenuta prigioniera ora le appartiene. Quantomeno questo è quello che risulta dal catasto. Due terzi della casa che era del suo aguzzino li ha ottenuti come indennizzo dal tribunale. L’ultimo terzo l’ha acquistato direttamente dalla madre del rapitore, che l’aveva ereditata da lui. Natascha attraversa il cancelletto del giardino, si dirige verso l’ingresso della casa e apre la porta. La lascerà spalancata per tutto il tempo che resteremo qui. Dall’interno arrivano zaffate di aria umida e calda. Spiega che tempo fa ci sono state delle infiltrazioni e che ha fatto sistemare soltanto le cose più urgenti. Sul cancello del giardino c’è un bigliettino lasciato dal vicino: la signora è pregata di farsi viva al più presto. Alcuni rami delle due betulle che si trovano sul confine tra le proprietà hanno ceduto. È prevista tempesta. Pericolo imminente. Sono già stati chiamati i vigili del fuoco. Loro l’indirizzo lo conoscono, ma in fondo chiunque a Vienna lo sa. I pompieri arrivano e bloccano l’intera strada. Nessuno dei vicini si fa vedere. I pompieri fanno del loro meglio, tagliano i rami delle betulle e li sistemano al bordo della strada, anche se in realtà questo non sarebbe compito loro. I loro sguardi tradiscono da un lato compassione per quella povera ragazza, dall’altro stupore: cosa ci fa lei di nuovo qui? Signora Kampusch, per quale motivo ha deciso di tenere la casa in cui ha sofferto così tanto? «Proprio perché qui ho sofferto così tanto. È la mia piccola vittoria. E poi per evitare che qualcuno facesse sciocchezze, come organizzare “gite” nella prigione di Natascha Kampusch, trasformando questo posto in luogo di culto per menti perverse». La cella nel seminterrato dov’è stata prigioniera durante la sua infanzia e la sua adolescenza, però, l’ha fatta murare. «Ho dovuto farlo. Mi è stato notificato dalle autorità che c’era un ambiente non agibile». E chi, meglio di lei, poteva esserne al corrente? «Sono rimasta sorpresa quando ho ricevuto la notifica. Avrebbero almeno potuto domandarmi cosa avevo intenzione di farne. Ma del resto, è così che funzionano gli enti pubblici». Senza l’intervento delle autorità, avrebbe lasciato la sua prigione così com’era? «Forse non per sempre. Inizialmente, però, sì. In fondo si tratta della mia vita, anche lì in quel seminterrato. E di vita avevo solo quella. Anche imprigionata lì sotto, ero fermamente determinata a farne il meglio». Ci sono stati anche dei momenti felici? (Natascha sembra riflettere per un momento, ndr). «Ci sono paesi in cui le persone muoiono di fame e di sete. Luoghi in cui non esiste la corrente elettrica. E anche in quelle condizioni le persone vivono momenti felici». Entriamo nel soggiorno. La polizia ha portato via alcuni oggetti. E così ha fatto la madre del rapitore. Per il resto, qui il tempo sembra essersi fermato. Tutto è rimasto come il giorno in cui Wolfgang Přiklopil uscì di casa, subito dopo la fuga di Natascha, per raggiungere le rotaie della ferrovia, sdraiarsi sui binari e lasciarsi travolgere da un treno. Ci sono un televisore e un impianto stereo degli anni 80. Un copridivano in pelle, un armadio a muro di colore scuro e diversi ninnoli: un elefante di legno, un omino di metallo che suona la chitarra, un vaso con dei fiori di plastica. Tutto è ricoperto di polvere. Tra i libri stipati sulla libreria, ce ne sono alcuni che il rapitore aveva concesso a Natascha di leggere. Curd Jürgens, 60 anni e per niente saggio; Theodor Kröger, Il villaggio dimenticato; un libro su L’ingresso negli Anni 2000; uno sul triangolo delle Bermude e un paio di volumi sulla Formula 1. Sul tavolo è poggiato un librino dal titolo Ordine deve essere. Il rapitore ha catalogato minuziosamente i cartoni animati che ha registrato per la sua vittima: Tremotino, Cappuccetto Rosso, Il Principe Ranocchio; così come alcune “Prime registrazioni”: di chi o cosa, non è dato sapere. Al piano di sopra, la polvere per rilevare le impronte digitali usata dalla polizia ha intaccato i mobili. Impossibile da togliere, non se ne andrà mai più. Qui la polizia, dopo la fuga di Natascha, aveva cercato eventuali complici. Durante la prigionia Natascha era costretta a partecipare ai lavori di ristrutturazione della casa. Posava piastrelle, dipingeva pareti, puliva. Anche la trasformazione della camera da adolescente di Přiklopil in una stanza da adulto, fu principalmente opera di Natascha. I mobili, però, erano stati scelti dalla madre di lui e rispecchiavano il gusto di un’anziana signora. In corridoio sono ancora appese le sue cose. Un ombrello, un set da volano. Sulla lavatrice c’è un bigliettino con le indicazioni sui lavaggi. Qui e là bottiglie di vino e di birra, vuote. Qualche scalino più in basso si trova il pozzetto che nascondeva la cella nel seminterrato. La vecchia cassaforte che Přiklopil aveva fatto montare nella parete che dava accesso alla stanza in cui era segregata Natascha è arrugginita. Alcuni oggetti che aveva con sé nel seminterrato ha voluto tenerli. Perché? «Lì dentro dovevo lottare per ogni cosa, anche per un vestito. Ogni oggetto che possedevo era prezioso. La madre del rapitore ha buttato via un sacco di cose appartenute al figlio. Forse credeva che così avrebbe potuto gettarsi tutta questa storia alle spalle». Ha mai incontrato la madre del suo aguzzino? «No, sfortunatamente». Lo avrebbe voluto? «All’inizio sì, ora però sempre meno. (Natascha gira la testa, fa un sospiro profondo e sussurra qualcosa come: “Oh Dio ”.) Tutto bene? Vuole fare una pausa? «No, tutto bene. Mi è solo venuta voglia di... di sospirare». Ci sta, visto l’argomento. Usciamo in giardino. Il prato è rigoglioso. Ci sono rose selvatiche e non mancano le spine. La casa dei vicini non si vede. Nella piscina crescono fiori. Un tempo il giardino era unito a quello dei vicini, finché il rapitore non ha piantato la siepe. Con i vicini il dialogo è ridotto all’osso. Sembrano mancare le parole. Si scambiano solo le informazioni strettamente necessarie. Natascha ha regalato loro la pompa per la piscina, dato che non ha intenzione di rimettere in funzione la sua. II rapitore a suo tempo l’aveva sistemata, ma si era rivelato troppo tirchio per riempirla d’acqua. Natascha non ha mai parlato con i vicini di ciò che accadde da questa parte della siepe. Non sa e non ha mai saputo che cosa loro, all’epoca, pensassero dello strano personaggio che teneva sempre chiuso il cancelletto del giardino e si barricava in casa con le persiane chiuse. I primi momenti di libertà se li ricorda? «Benissimo. Era tutto troppo. Troppa luce, troppo rumore, troppe emozioni in contrasto tra loro. Felicità, ma anche paura. Avevo problemi di equilibrio e camminare in discesa, lungo una scarpata o su un terreno scosceso, mi metteva a disagio. Non ero in grado di determinare le distanze. Il mio stomaco, per via della continua mancanza di cibo, era diventato ipersensibile. E poi c’erano persone che in continuazione venivano da me dicendomi che sapevano quanto la vita fosse perfetta e cosa avrei dovuto fare per viverla al meglio. Un medico mi sventolò sotto al naso un contratto che mi avrebbe obbligata a essere a completa disposizione della ricerca scientifica per dieci anni. Tutti non facevano che dirmi: “Devi firmare qui, devi firmare là. Devi solo fare quello che ti diciamo e, vedrai, tutto andrà bene”». I suoi genitori non potevano aiutarla? «I miei genitori sono separati e anche per loro tutto questo delirio era troppo. E poi, inizialmente, non li ho nemmeno incontrati spesso. Venivano tenuti lontani da me, per quanto possibile». I terapeuti, gli avvocati, non le davano supporto? Mi resi conto fin da subito che la maggior parte dei consulenti con cui avevo a che fare, o non sapevano come comportarsi o erano interessati solo al proprio tornaconto. Volevano accaparrarsi il pezzo più grande della torta». E la torta era lei? «Non io, ma la mia storia e tutto quello che se ne poteva ricavare. Non ero in grado di fare ordine nel caos. Gli avvocati mi strattonavano da una parte all’altra». In senso lato... «No, letteralmente. Uno degli avvocati un giorno diede persino una manata a un collega. Questo accadeva nella mia stanza d’ospedale, nel reparto di psichiatria infantile dove ho trascorso i primi tempi. Gli altri pazienti del reparto, al confronto, mi sembravano quelli più sani di mente». Qual era il problema? «Si accasavano l’un l’altro di imbrogliarmi. Uno voleva una cosa, l’altro un’altra e tutti vedevano le loro speranze andare in fumo». Quando le hanno chiesto la prima volta cosa desiderava lei? «Sono stata interpellata in diverse occasioni e su molti argomenti avevo una mia opinione. Poi, però, qualcuno mi diceva che avrei fatto meglio a fare così o cosà e io mi fidavo. Non volevo deludere nessuno». Mangiamo hamburger su una terrazza a Vienna. Natascha Kampusch non lascia nulla nel piatto: non ne è capace, dice. E la sensazione di fame la mette subito in allarme. Mangia un hamburger vegano. È vegetariana. Un piccione segnato dalla vita di città, mal ridotto e spelacchiato, accanto al nostro tavolo attira la sua attenzione. «È una creatura speciale», dice. Natascha non è timida. Si rivolge al cameriere, fa domande, sorride. Però si guarda costantemente intorno. Osserva tutto e registra le informazioni, un po’ come una guardia giurata a protezione di un furgone portavalori. La prima intervista tv l’ha rilasciata poco dopo la sua fuga. «All’epoca mi sentivo bene. Il profondo buco nero è arrivato più tardi. Sentivo di prendere in mano la mia vita, e farlo in fretta. Volevo finalmente cominciare a decidere per me stessa. Volevo fare del bene, volevo aiutare le persone, come le donne scomparse in Messico, per fare un esempio. Ed ero convinta di potercela fare. Col senno di poi, mi rendo conto che era troppo presto. Prima dovevo aiutare me stessa». La gente restava colpita dalla scelta accurata delle parole che usava, dalla sua impassibilità, dalla sua forza. «Negli anni trascorsi in cella ascoltavo moltissimi programmi culturali alla radio e il mio registro linguistico era diventato quello. Poi la forza che mi aveva permesso di adattarmi a quella situazione surreale col tempo, per gli altri, si trasformò in difetto: si convinsero che, dato che in apparenza stavo bene, la mia reclusione non poteva essere stata così drammatica. La vittima deve comportarsi da vittima. Se non lo fa, c’è chi se la prende». Era cambiato il modo in cui le persone la percepivano. «Col passare del tempo cominciò a crescere l’odio nei miei confronti. In rete, per strada, sui giornali, in metropolitana. Mi accusavano di essere una bugiarda. La gente si fermava a fissarmi, in metropolitana venivo insultata e schernita». Come si spiega un simile atteggiamento? «Non mi è chiaro ancora oggi. Forse non si vuole credere che una cosa del genere possa realmente accadere. C’era sempre chi diceva che venivo da una condizione sociale disagiata e tentava, così, di spiegare l’accaduto. Ma il rapimento è avvenuto in una zona borghese, un quartiere tranquillo di villette con giardino. Forse è stato questo a spaventare: non si voleva ammettere che fosse possibile». Il rapitore si è tolto la vita il giorno stesso in cui lei è fuggita. Nonostante questo, le indagini sono proseguite. C’erano dubbi sulle sue deposizioni. «Sono stata interrogata moltissime volte. Sulla dinamica, sulla casa, sulla cella sotterranea, sui miei diari, su cosa diceva, faceva, pensava il rapitore, se c’erano stati contatti con altre persone. Ogni volta, gli interrogatori mi riportavano a quei giorni». Diversi personaggi di spicco dubitavano che il rapitore fosse da solo, dando continuamente vita a nuove indagini. Un giudice della Corte Costituzionale, un capo della polizia criminale del Land, una professoressa di Diritto penale, un dirigente del ministero dell’Interno. Alla fine, si erano interessati al caso anche l’Ufficio criminale federale e l’Fbi. «Non avevo pace. Dovevo sempre fare deposizioni, ero chiamata di continuo a rivangare tutto. E ho sempre detto le stesse cose: non ho mai visto altre persone oltre al mio rapitore, mia madre non mi ha venduta, non sto coprendo nessuno, non so niente di un’organizzazione di stampo pedopornografico. Non ho mentito». In Belgio c’è stato il caso di Marc Dutroux, che aveva rapito e ucciso delle ragazzine. Il fatto aveva avuto ripercussioni in ambienti molto abbienti e ci fu chi tentò di insabbiare tutto. «Io non ho nulla contro tutte queste domande. A un certo punto, però, bisogna occuparsi anche dei fatti. Agli inquirenti ho raccontato tutto ciò che sapevo, anche dettagli molto intimi. Il fatto che tutto questo finisse in pasto all’opinione pubblica ha distrutto la mia fiducia nel sistema». Nella cella sotterranea venne ritrovata una ciocca di capelli. E subito girò la voce che lei avesse avuto un bambino. «Esatto, e anche che l’avessi ucciso. La ciocca me l’ero tagliata da sola per avere un ricordo dei miei capelli prima che il rapitore mi rasasse a zero. Ovviamente la polizia la fece analizzare». Alcuni si domandavano perché lei non fosse fuggita prima. Qualche occasione sembrava l’avesse avuta. Ogni tanto saliva in macchina con Přiklopil, l’accompagnava a fare la spesa. Una volta incappò persino in un controllo di polizia. «Mi permetta di risponderle a mia volta con una domanda: perché le persone che odiano il proprio lavoro non lo mollano? Perché le persone che vivono all’interno di una relazione violenta, non abbandonano il partner? Quanto è difficile andare oltre la propria prigione interiore quando si ha paura? Quando qualcuno ti dice che non ce la farai mai? Přiklopil mi aveva raccontato che la casa era circondata da trappole esplosive e che lui portava sempre un’arma con sé, e che se fosse successo qualcosa, avrebbe sparato a chiunque si trovasse nei paraggi. Non avevo ragioni per non credergli». Temeva anche il mondo esterno? «In un certo senso forse sì. Ma questo non vale anche per moltissimi altri giovani? Era una questione legata all’età, ma certo anche al fatto che lui mi faceva paura. La situazione veniva dipinta come se io non dovessi fare altro che aprire la porta e andarmene. Ma le cose non stavano così. Alcuni particolari non li ho mai voluti rendere pubblici, proprio perché non volevo che venissero mal interpretati. Per esempio la questione dello sci. Sapevo bene che poi la gente avrebbe detto: “Ma come, va a sciare con il suo rapitore? Ma allora che prigionia è?”. Una sola cosa posso dire: per me quella non è certo stata una vacanza. Ci sarebbero tante cose da spiegare, alcune che non si vogliono e altre che non si possono spiegare». Doveva spiegare che tipo di persona era il suo rapitore. «E cosa avrei dovuto rispondere? Non sono uno psichiatra...». Ma era l’unica persona cui rivolgere domande sul suo conto. «Forse è proprio questa una parte del problema. Dato che il rapitore era morto, non esisteva più un caso Přiklopil. Restava solo il caso Kampusch. Agli occhi di molti la linea di demarcazione tra questi due casi risultava sfuocata, sino a far emergere una teoria per la quale avevo io stessa messo in scena il mio rapimento. Ma avevo dieci anni!». Lei ha mai avuto dubbi sul fatto che il suo rapitore avesse agito da solo? Ha mai pensato che potessero esserci complici o che ci fosse sotto dell’altro? «Negli anni di prigionia mi è capitato di sperare che qualcun altro fosse al corrente della situazione. Se fosse accaduto qualcosa al mio rapitore, io sarei rimasta lì per sempre. Ma che si sia trattato di un piano architettato da un singolo o da un gruppo, a me personalmente non cambia nulla. Io mi sono attenuta alla verità. Perché mai avrei dovuto proteggere qualcuno?». Sono entrati in scena anche investigatori privati, ex giudici, giornalisti... «E una serie infinita di teatranti, il cui unico scopo era quello di fare a pezzi questo caso. C’è stata perfino una campagna delle frange di destra contro la Vienna rossa. Dichiaravano di voler far luce sugli intrecci politici – reali o presunti – in nome del popolo o storie del genere. Sull’onda di tutto questo, mia sorella è stata accusata di aver abusato di me, mentre su mia madre aleggiava il sospetto che fosse stata complice del rapimento, dopo avermi venduta a un’organizzazione di stampo pedopornografico. La mia famiglia all’epoca ha vissuto l’inferno». Suo padre era tra coloro che dubitavano di sua madre. «Sì. Ero molto arrabbiata con lui. Una volta dissi che lo reputavo un immaturo. Oggi il mio giudizio è meno radicale. Si è lasciato abbindolare, non è stato molto cauto nella scelta dei suoi interlocutori e nemmeno in quella delle sue esternazioni. Ma che fosse tra coloro che alimentavano i sospetti su mia madre, quello sì, mi ha fatto veramente soffrire». Sua madre, poco dopo la sua fuga, pubblicò un libro: La vita senza Natascha. Che cosa significò per lei? «Ero all’oscuro di tutto. Era sempre in riunione con questa squadra di ghost writer, ma a me non aveva detto nulla. Aveva firmato un contratto per cui si impegnava a tenere segreto il progetto anche a me. Questo non mi piacque per niente. Anche i suoi consulenti non mi sembravano un granché. Alla fine, però, mi fece leggere il libro prima di mandarlo in stampa. Corressi alcuni errori. Ma nel libro vennero pubblicate cose che le avevo raccontato nell’intimità e che non erano destinate al pubblico». Per esempio? «Per esempio che ho preso commiato da Přiklopil davanti alla sua bara. Per chi vede le cose dall’esterno, questo è difficile da capire. Ma una persona che per anni ha avuto in mano la tua vita, non puoi semplicemente dimenticarla. Volente o nolente era una persona a me vicina. E no, non ho pianto. E non l’ho nemmeno visto un’ultima volta. La bara era sigillata: era stato investito da un treno». Perché sua madre decise di scrivere quel libro? «Per lei le cose stavano così: anche lei aveva sofferto, e quindi anche lei voleva guadagnare del denaro. Forse sarebbe anche stato un buon libro, se avesse raccontato la storia di quegli anni nel modo in cui l’aveva raccontata a me. Invece la versione che andò in stampa aveva il sapore dell’operetta. A ogni modo, oggi andiamo d’accordo». Lei è stata accusata di essersi sistemata economicamente per il futuro usando la sua notorietà e facendo fruttare i diritti dei libri e dei film che raccontano il suo dramma. «Sì, e mi dica, chi altri avrebbe dovuto farlo? Chi dovrebbe guadagnarci se non io? Forse la gente avrebbe preferito vedermi rintanata in casa a vivere con i sussidi. Non vorrei dovermi giustificare per questo. Una cosa, però, la vorrei sottolineare: le donazioni che ho ricevuto le ho devolute tutte a mia volta, non ho tenuto un centesimo per me. Ricevevo dei compensi per le interviste, per i diritti dei film e dei libri». Si è tutelata economicamente? «Per i prossimi anni, non per sempre. Ho una vita morigerata. Ho bisogno di questa sicurezza: io non so che cosa sarà di me in futuro». Riceve sovvenzioni statali o risarcimenti per le vittime? «No». Percorriamo la strada che esce da Strasshof in direzione di Vienna. Forse proprio la stessa che percorse, in senso opposto, il rapitore assieme alla piccola Natascha. Tutte le strade portano a Vienna, o almeno così pare e di solito il traffico causa lunghe code. Il cielo è coperto e nei momenti in cui il sole fa capolino tra le nuvole, la città appare serena e luminosa. La pioggia però sembra essere sempre in agguato e, senza preavviso, si scatena a turno su diverse parti della città. Quasi avesse l’intenzione di annientare quegli scampoli di serenità e di luce. Il caso Kampusch, che ancora non sembra concluso, racconta anche qualcosa dell’Austria, di un piccolo paese intrappolato tra centralismo e trascuratezza. Un paese dove quelli che contano si conoscono tutti tra loro, stimandosi o detestandosi, ma comunque restando tutti quanti intrecciati gli uni con gli altri. Natascha Kampusch i mezzi pubblici non li prende più, per muoversi nella sua città natale. Ha paura del giudizio della gente, delle domande indiscrete, dei pettegolezzi. Oggi come si sente quando esce di casa? «Tutto sommato, bene. Anche se spesso ancora mi capita di pensare che alcune cose siano riferite a me anche quando in realtà con me non hanno niente a che vedere. Avevo sottovalutato quanto a lungo il passato avrebbe occupato la mia vita. Avevo creduto sul serio di uscirne in tempi piuttosto brevi. Ci vorrà un po’, pensavo, poi il passato sarà veramente passato. A quel punto non sarò più quella Natascha Kampusch, ma una persona qualunque. Mi sentivo come un gatto di mille colori. Desideravo solo un manto di colore diverso, anonimo. Oggi ho degli amici e a volte esco. Ma sto anche molto bene da sola». Ha mai preso in considerazione di cambiare nome o di trasferirsi altrove? «Perché dovrei andarmene o rinunciare al mio nome? Non sono una delinquente. Il rapitore mi aveva portato via il mio nome, mi chiamava Bibi. Questa cosa non sono mai riuscita a capirla». E in questo momento come vive la sua vita? «Ho un appartamento a Vienna. Ho amici e persone che mi sono vicine e, ogni tanto, vedo la mia famiglia. Due volte la settimana vado in terapia. Prendo lezioni di canto per sciogliere dei blocchi e anche perché mi piace cantare. Vado a cavallo e mi aiuta molto. Mi occupo dei miei progetti, delle pubblicazioni, dei video e di beneficenza. E vorrei tanto portare a termine un paio di cose, tra cui l’apprendistato come orafa e dare la maturità». Dal giorno del suo rapimento non ha mai più frequentato una scuola. «No, ma ho recuperato la licenza della Hauptschule (grossomodo le nostre scuole medie, ndt), vorrei arrivare alla maturità e forse, chissà, iscrivermi all’università. Ma non so ancora quando accadrà. E comunque, non sono cose che riguardano l’opinione pubblica, voglio farle per me, per nessun altro». E della casa di Strasshof cosa ne sarà? «Non lo so ancora. Avevo dei piani, ma nessuno di questi è andato in porto. Avevo pensato di farne un alloggio per rifugiati, ma i vicini non avrebbero visto di buon occhio l’arrivo di una famiglia afgana oppure ucraina. Stare in questa casa per me è complicato. In giardino va meglio. Ma preferirei non parlarne più». In 10 anni di libertà, il suo nuovo libro (in Italia per Bompiani nel 2017), si parla molto di reclusione, di non-libertà. Perché lo ha scritto? «In questi dieci anni sono successe molte cose, ma ora sento che molte di queste fanno parte del passato. Quella libertà che tante volte avevo immaginato così infinita e radiosa ha trovato a sua volta dei confini. Sto entrando in un nuovo capitolo della mia vita. Vorrei parlarne ora, perché tutte le impressioni sono ancora molto vivide nella mia mente. Era come se non fossi più un membro del branco. Sì, venivo annusata, diciamo così, ma non ne facevo più parte. Molte cose non riuscivo a comprenderle. Mi sentivo ferita anche perché le aspettative sulla mia vita “fuori” si erano rivelate totalmente diverse dalla realtà». Cosa significa la parola libertà per lei oggi? «Esiste solo una libertà soggettiva. Nessuno di noi è oggettivamente libero. Se conquisto la libertà nell’anima, posso ritrovarmi rinchiusa anche nella prigione più buia e, nonostante questo, essere veramente libera». Natascha non se la sente di parlare di quello che, a volte, le capita di sognare. Certo, ci sono i momenti bui, flashback e ricadute. Ma queste sono cose che preferisce tenere per sé. Appare ancora molto ferita. Troppo a lungo e troppo spesso, sino a oggi, la sua vita ha ruotato sempre intorno al suo passato, alla violenza subita. La libertà che tanto aveva sognato ancora non è arrivata, e questo lei lo avverte con dolorosa consapevolezza. Ora è esausta. Cerca di non mostrare il suo sconforto. E ancora una volta risulta quasi impossibile non stupirsi davanti alla sua capacità di autocontrollo e al suo coraggio. Prima di salutarci, vuole mostrarci la sua scuola, il complesso residenziale nel quale è cresciuta e il punto esatto in cui è stata rapita. A volte sembra voler fare più di quanto sia in grado di sostenere. Da quando Natascha Kampusch è riuscita a fuggire sono cambiate molte cose. Genitori di bambini scomparsi non perdono la speranza per anni, per decenni. Pensano al caso Kampusch. Non smettono di sperare nemmeno quando la polizia dice loro che non ci sono più motivi per sperare. Che cosa possono imparare gli altri dalla sua storia? «Che non bisogna mai perdere la speranza. Sopravvivere si può». E cosa si può imparare da questi dieci anni di libertà costellati di ricadute e ferite? «Che sopravvivere si può». Trad. Micaela Calabresi