Stefano Gulmanelli, D, la Repubblica 15/10/2016, 15 ottobre 2016
JFK CANADESE
«Justin Trudeau è il J.FK. del Canada?». La domanda, posta non senza nostalgia dalla rivista Christian Science Monitor in occasione della visita a Washington di Trudeau, dà la misura dell’infatuazione di opinione pubblica e media e per il Primo Ministro canadese: dal New York Times Magazine a Nouvel Observateur, fino a GQ e Vogue, tutti da mesi gli dedicano copertine e servizi. Il richiamo a Kennedy non è del tutto azzardato: giovane, di bellissima presenza e dotato di una retorica straordinaria, Trudeau può ricordare il presidente più amato della storia americana.
In patria però il figlio d’arte - il padre Pierre fu premier dal 1974 al 1979 e dal 1980 al 1984 - è guardato con più circospezione e un certo senso di attesa. C’è chi ne esalta l’autoironia (qualità più unica che rara in politica) ma c’è chi lo guarda perplesso quando incrocia i guantoni da boxe in una palestra di Brooklyn o quando finisce sulla copertina di Marvel Comics (non l’ha chiesto lui, ma la performance pugilistica ha stimolato la fantasia dei fumettisti della casa editrice americana). Il fatto è che un’immagine non convenzionale e accattivante è parte integrante del bagaglio politico del giovane Trudeau. E questa immagine è un misto di spontaneità e di accurata costruzione. Da un lato è un performer nato, con la capacità naturale di usare il giusto tono - e le relative pause - nel parlare e il giusto modo nel guardare gli interlocutori. Dall’altro il giovane primo ministro, come rilevato da due accademiche esperte di politica canadese, Mireille Lalancette e Patricia Cormack «usa la sua fama e la sua storia personale per conformarsi alle aspettative della politica mass-mediatizzata e d’intrattenimento». «Non a caso Justin», aggiunge Pierre Gossage, ex addetto stampa del padre Pierre, «non perde occasione per far sfilare moglie e figli al suo fianco nelle uscite pubbliche, conscio che una bella famiglia in prima pagina o che rimbalza sui vari social media può valere più di tanti annunci politici».
Ora che si avvicina il primo compleanno del nuovo governo (il 4 novembre), inevitabilmente l’attenzione si sposta dalla forma alla sostanza. Da un primo bilancio provvisorio emerge che Trudeau ha, per molti versi, mantenuto la sua promessa generale agli elettori: cancellare molte delle tracce lasciate dai dieci anni nei quali il suo nemico politico principale, il conservatore Stephen Harper, ha guidato il Canada. Un assalto, quello contro il potere dei conservatori, che Trudeau aveva simbolicamente lanciato sin dal 2012 quando affrontò in un incontro di boxe (a scopo benefico ma dall’inevitabile risonanza politica) il senatore tory Patrick Brazeau. La vittoria per KO tecnico che Trudeau ottenne quel giorno è stata premonitrice della dura sconfitta che questi avrebbe inflitto ad Harper tre anni dopo. Il Canada come lo immagina Justin non è dissimile da quello anni ’70 -’80 di suo padre: votato più al peacekeeping che all’interventismo militare, con un’identità nazionale fondata sull’inclusione quasi pregiudiziale della diversità socio-culturale e un sistema economico lontano dalla logica del profitto imperante nei vicini Stati Uniti. A questi tratti costitutivi Trudeau ha apportato aggiunte che sono il segno dei tempi: un governo che applica alla lettera la parità di genere (a chi gli chiese conto della scelta Trudeau rispose con il famoso: «Perché è il 2015!») e politiche sociali più permissive - come la liberalizzazione della cannabis (anche se la depenalizzazione dell’uso della marijuana, che molti si aspettavano, non c’è stata).
L’opera di smantellamento dell’era Harper è iniziata immediatamente con il ritiro dei caccia dispiegati dal predecessore sul fronte iracheno (cosa che non ha fatto piacere all’amico Obama) e la riconversione della missione anti-ISIS, oggi non più fondata sui bombardamenti ma sull’addestramento delle forze irachene. Il passo successivo verso il “nuovo-vecchio” Canada è stato ripristinare un’idea di nazione più inclusiva e non modellata su quelli che Harper definì «old stock Canadians», i canadesi del vecchio ceppo. Ha quindi innanzitutto dato centralità politica alla questione indigena. First Nations, Métis e Inuit sono a tutt’oggi vittime di emarginazione economica e sociale e ancora oggi pagano gli effetti delle scuole residenziali, attive fino agli anni ’70. È stato in queste istituzioni gestite dalla chiesa e finanziate dallo stato che è avvenuta, anche a prezzo di violenze e abusi, la “riconversione culturale” dei figli delle famiglie indigene. L’aver definito cruciale per il Canada il rapporto con le comunità indigene e l’aver dato nuovo impulso al processo di riconciliazione è un cambiamento radicale nella storia recente del Paese.
Contemporaneamente si è avviata la revisione totale di una legge-simbolo dell’era Harper, osteggiata da vasti settori della società canadese: la famigerata C-24, che ha inasprito i criteri di accesso alla cittadinanza canadese, prevedendone anche l’eventuale revoca per motivi di sicurezza nazionale. Eppure nella questione contigua dell’accoglienza ai rifugiati si è intravisto un Trudeau molto prudente e ambiguo. È vero che a cavallo fra il 2015 e 2016 il Canada ha accolto 25mila siriani, ma è anche vero che 25mila sono una goccia nel mare e la prosopopea governativa sull’accoglienza canadese - nutrita dalle immagini di Trudeau che accoglie i primi rifugiati all’aeroporto - ha fatto storcere il naso a parecchi. A commentatori ed esperti non è nemmeno sfuggito che i rifugiati accolti sono stati scelti con interviste mirate tenute all’estero, e con candidati la cui identificazione aveva come criterio primario l’esclusione dei maschi giovani senza famiglia. La motivazione governativa è stata che costoro non sono soggetti deboli quanto le famiglie, ma è diffusa l’idea che l’esclusione pregiudiziale sia legata alla presunta tendenza alla radicalizzazione dei maschi giovani. Da primo ministro, anche Trudeau non ha potuto ignorare le esigenze, vere o presunte, di sicurezza nazionale che Harper aveva posto al centro del dibattito politico. D’altronde ogni volta che gli è toccato commentare un atto terroristico con protagonista un canadese, come vittima (nelle Filippine lo scorso aprile) o come perpetratore (in Bangladesh a luglio nell’attacco fatale a nove italiani), ha dovuto prendere atto di come il clima politico-sociale su immigrazione e rifugiati sia rovente.
Una prudenza maggiore di quella preventivabile il primo ministro l’ha manifestata anche sulla questione ambientale, uno dei temi che aveva più sfruttato quando, dai banchi dell’opposizione, attaccava Harper per lo scetticismo mostrato nei confronti delle problematiche connesse al cambiamento climatico. Sul piano internazionale Trudeau ha sì impegnato il Canada a ridurre del 30% il livello 2005 di emissioni di gas serra entro il 2030 ma al contempo ha cercato di non entrare in conflitto con le Province che in maggioranza rigettano la tassazione delle emissioni CO2.
Il giovane premier si è mostrato più baldanzoso in materia economica, con un budget pensato per sostenere la classe media, la più colpita dalla crisi scoppiata nel 2008. Prima di essere eletto Trudeau aveva detto chiaro e tondo che, una volta al potere, avrebbe messo da parte il vincolo di pareggio di bilancio che ossessionava i governi precedenti. In campagna elettorale i conservatori lo attaccarono duramente per questo, sfruttando abilmente quello che fu effettivamente un infortunio retorico di Trudeau («Il budget andrà in pareggio da solo», gli scappò detto) ma i canadesi gli hanno dato credito e Trudeau ora li ripaga con politiche che spostano il peso fiscale sui più abbienti e distribuiscono aiuti soprattutto alle famiglie con figli.
A un anno dall’ascesa al potere, la luna di miele fra il primo ministro e la società canadese continua. Cominciano però a intravvedersi delle discrepanze fra ciò che Trudeau vorrebbe rappresentare e ciò che le contingenze gli permettono di fare. L’atmosfera d’instabilità globale alimenta il senso di insicurezza e il desiderio di chiusura anche nel canadese più votato al multiculturalismo. C’è poi la difficoltà in cui versa l’economia per il crollo del prezzo del greggio: il trimestre che si è appena concluso ha segnato una contrazione dell’1.6%, la peggiore dal 2009, cioè da quando si è toccato il picco della grande crisi finanziaria.
Il J.F.K canadese avrà il suo da fare per rimanere nell’immaginario collettivo l’accattivante idealista simbolo di speranza (il Washington Post l’ha definito l’anti-Trump) presentatosi al Canada e al mondo nell’ottobre scorso. I suoi stessi sostenitori sono i primi a sapere che certe aspettative possono finire per essere amaramente deluse: lo hanno già visto accadere a sud del confine in questi ultimi otto anni.