Antonio D’Orrico, Sette 14/10/2016, 14 ottobre 2016
ATTENTI, LE CANZONI POSSONO FARE MOLTO MALE– [Paolo Conte] Si sarà già immaginato cosa diranno i miei colleghi giornalisti di questo suo nuovo disco, Amazing Game, tutta musica strumentale, senza voce, senza testi? Diranno che Paolo Conte, davanti al mondo d’oggi, non ha più parole, si ritira inorridito e si chiude nel silenzio, come faceva Eduardo in certe commedie
ATTENTI, LE CANZONI POSSONO FARE MOLTO MALE– [Paolo Conte] Si sarà già immaginato cosa diranno i miei colleghi giornalisti di questo suo nuovo disco, Amazing Game, tutta musica strumentale, senza voce, senza testi? Diranno che Paolo Conte, davanti al mondo d’oggi, non ha più parole, si ritira inorridito e si chiude nel silenzio, come faceva Eduardo in certe commedie. «È un po’ quello che ho pensato anche io. Si dirà che questo mio disco è un modo per dire: no comment. E poi qualcuno, penso precisamente al suo collega XY, punterà il dito dicendo: “Hai abiurato la canzone per passare a un altro genere”». Reato di alto tradimento, avvocato, c’è poco da scherzare. Cosa risponderà? «Cheno,nonècosì,ecisonoifattiadimostrarlo. I brani di Amazing Game sono degli anni Novanta. I primi dodici li ho scritti per Eugenio Montale e gli altri per spettacoli teatrali mai messi in scena». Cominciamo da Montale. «Mi consegnarono dodici poesie e mi chiesero di scrivere altrettanti pezzi per celebrare il centenario della nascita del poeta. Erano tutte poesie famose, La casa dei doganieri, Ballata scritta in una clinica che insomma...». Non le piaceva? «No, non è questo, m’intristiva la situazione. Però non c’era la mia poesia preferita». Che è? «Meriggiare pallido e assorto». Quella dove il poeta sente «con triste meraviglia» com’è il travaglio della vita mentre cammina lungo una muraglia «che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Perché le piace più di tutte le altre poesie di Montale? «Perché la vedo, vedo il muro dell’orto, i pruni e gli sterpi, vedo le formiche rosse e le cicale». Non essendoci le parole, uno come me si deve attaccare ai titoli. Il titolo del primo pezzo dell’album, Pomeriggio zenzero, mi ha ricordato che lei è stato il primo a usare la parola “pomeriggio” nella storia della canzone italiana. «Me lo disse Adriano Celentano la prima volta che provò Azzurro. Era il 1968 e fin lì nessuno aveva mai cantato quel momento della giornata. Non ho mai controllato però». A me viene in mente Pomeriggio ore 6 dell’Equipe 84, ma è dell’anno successivo. Nel disco, poi, c’è il titolo di un brano che da solo vale un testo. Parlo di P.U.B.S.A.G, ovvero: Passa Una Bionda Sugli Anni Grigi. Questa bionda è l’ultimo fantasma della bionda sagomata, amatissima da noi fan, della Topolino amaranto? «Potrebbe anche esserlo ma neanche troppo. Nasce da un fatto coloristico, mi piaceva questo biondo contro il grigio». La informo che questo pezzo reclama un testo. All’ascoltatore viene da dire alla bionda che passa: perché non parli? «E va bene, lo confesso. Qui un inizio di testo c’era. Diceva: “Guarda c’è ancora gente seduta che sta aspettando Totò o la silhouette di una soubrette...”». E come continua? «Non lo so, non sono andato più avanti». È un brano molto bello anche muto. «C’è, credo, una certa atmosfera». Mi avventuro, P.U.B.S.A.G è un bolero (come nella grande tradizione di Max)? «Non proprio. È un moderato swing la prima parte, poi diventa una rumba. Ma rumba e bolero sono sempre un po’ imparentati». Poi c’è F.F.F.F. (For Four Free Friends), che è musica pura, sorprendente, una musica che anche i suoi fan più accaniti non sospettavano. La suonava in segreto senza dirlo a nessuno? «Quella è una improvvisazione collettiva free ma, ci tengo a dirlo, non free jazz. Più simile, invece, a certe cose di musica classica contemporanea, informale. Totalmente improvvisata. Un pezzo che mi è caro perché c’è stata un’intesa, uno stato di grazia oserei dire, tra me e i miei musicisti storici, Massimo Pitzianti, Jino Touche, Daniele Di Gregorio». Un’intesa che si ripete anche in Fuga nell’Amazzonia in Re Minore. «Mi fa piacere che lei lo dica. Lì siamo solo in due, io al piano e Pitzianti col bandoneon. Il suono del bandoneon è molto bello, più passa il tempo e più mi piace». Lei viene classificato normalmente come cantautore. Non mi sembra giusto. «Lo faccia sapere in giro, per favore. Sì, penso di essere un’altra cosa. La parola cantautore mi sta un po’ stretta, è un neologismo anche bruttino, sarebbe piuttosto “autore cantante”». Torno all’album. En Bleu Marine mi sembra un pezzo molto francese. «Il gusto è quello. La Francia dell’epoca tra Django Reinahrdt e Sidney Bechet». Sto leggendo una biografia di Edith Piaf. Sua nonna gestiva un bordello, suo padre era un saltimbanco, un giorno da bambina intonò per strada La Marsigliese, la sola canzone che conosceva, e la gente si fermò come presa da un incantamento. «La Piaf cantava con quel senso di povertà, di miseria, tipico dei quartieri bassi di Parigi. Aveva una grande maestria nel tirar su le canzoni. Questo è molto francese perché loro ci credono e, secondo me, in questo c’entra anche il loro nazionalismo. Tantissimi anni fa con mio fratello Giorgio eravamo andati a Parigi per proporre qualche canzone e avevamo ascoltato i provini di una cantante sconosciuta. Ma guarda, ci siamo detti, come le francesi con quattro parole d’amore sanno tenere in mano una fiamma, una fiaccola, come vibrano, quanta passionalità ci mettono. Non l’ho più sentita quella forza lì. A parte i napoletani antichi, ovviamente». Nella vita della Piaf c’è anche un giallo, fu accusata dell’omicidio di Louis Leplée, l’uomo che le fece incidere il primo disco, ucciso con un colpo di pistola. Il caso è ancora irrisolto, la polizia batté anche una pista legata all’omosessualità di Leplée. C’è spesso uno sfondo scuro nella vita dei cantanti francesi. «I francesi hanno sempre coltivato la figura dell’artista maudit. Anche Jacques Brel era un po’ strano. Adesso mi ha fatto tornare in mente una giornata di pioggia tanti anni fa a Parigi. C’era una banda e suonava solo le canzoni della Piaf e la gente le cantava sotto l’acquazzone, io stavo a sentire e, brr..., mi venivano i brividi. Canzoni bellissime, meravigliose, Hymne à l’amour...». Una cantante che le piaceva era Sophie Tucker. Lei pensava che fosse nera. «Sì, dalla voce l’avevo immaginata così, e invece era russa di origine. La ricordo non alta, bionda, con il cappellino, come una lady inglese, che firmava gli autografi. Lei si definiva “the last red hot mama”, che erano quelle cantanti un po’ da vaudeville. Un’altra che poi ho conosciuto, ma lei era nera davvero, si chiamava Evelyne Prear, pure lei era una red hot mama». La ascolterei per ore mentre parla di cantanti, di voci (soprattutto ora che ci ha negato la sua). Ma dobbiamo fare l’intervista. Lei sa che ascolto quotidianamente le sue canzoni. Vorrei ragguagliarla sulle ultime quotazioni alla mia personale borsa valori Paolo Conte. Bella di giorno diventa sempre più bella, in salita vertiginosa. Lei una volta ha detto che è una canzone di gusto tedesco. «Viennese. A proposito di Bella di giorno le racconto una cosa. Io ho sempre qualche perplessità sui testi. Avevo scritto il verso “nell’acqua fresca di un bagno” di Bella di giorno e dissi a Renzo Fantini, mio amico e storico manager, che mi sembrava una cosa un po’ troppo intima. Renzo mi disse: “No, vai che il bagno va sempre bene”. Nel brano che dà il titolo al disco, Amazing Game, domina il vibrafono. «Suonato da Daniele Di Gregorio che è un grande vibrafonista. Lo ha suonato spento senza la macchinetta che lo accende, perché da un po’ di anni è di moda che il vibrafono si suoni spento». E perché mai? «Questo bisogna chiederlo a loro. Io lo suonerei acceso come facevano i miei prediletti Lionel Hampton o Michael Jackson. Invece i vibrafonisti nuovi, tipo Gary Barton che ha una tecnica bestiale, hanno deciso che bisogna suonarlo spento. Lo sentivano un po’ troppo suadente...». Nel senso di ruffiano? «Forse». È uno strumento un po’ per conto suo. È difficile per il vibrafonista resistere alla tentazione di andarsene per i fatti suoi. «Fortissima tentazione. Io, che l’ho suonato da dilettante, le dico che il problema grosso del vibrafonista è di non avere un pianista che lo surclassi. Il pianoforte vincerebbe sempre la partita, fonicamente parlando, con il vibrafono. Il pianista deve lasciare dei silenzi al vibrafonista, che ha bisogno dei vuoti. Daniele Di Gregorio, in segno di amicizia nei miei confronti, lo ha suonato nel gusto di Hampton». Ha sempre a casa quel bellissimo vibrafono da grande orchestra? «È ancora lì, e serve sempre alle donne di casa per poggiare le cose, è comodissimo come attaccapanni e altro». Non si capisce il motivo. «Non si capisce il motivo». Venendo in macchina qui ad Asti, ho riascoltato l’album in compagnia del suo ufficio stampa, Gaetano Petronio, diplomato in chitarra jazz con Franco Cerri. Siccome canticchiavo uno dei pezzi, Gaetano ha osservato che è un disco senza voce ma molto cantabile. La trovo una definizione perfetta. Il pezzo che, mi perdoni, canticchiavo è Zama. Perché si chiama così? «Mi ricorda la battaglia. Mi suonava bene così corto. E poi comincia con la zeta, la mia lettera preferita». Un altro brano è Serenata rustica. «È quello che ho scritto per La casa dei doganieri. Ma non c’è nessun collegamento diretto tra le poesie di Montale e le musiche che ho composto». Sì, però lei fa molto uso del corno francese e, se si tende l’orecchio, forse nelle poesie di Montale si sente il richiamo lontano di un corno francese. «Non l’ho usato pensando a questo, però sono d’accordo che nella colonna sonora fantasma delle poesie di Montale il corno francese c’è, è presente. È uno strumento straordinario, epico, ha un’emissione che travalica le montagne». La danse mi ha fatto pensare a Matisse. «Obiezione, è un pezzo spagnolo. Non la Spagna turistica, quella del flamenco e delle nacchere, ma una più nascosta». Lei è sempre attentissimo all’aspetto geografico, etnico. Mi pare che nella musica contemporanea, esclusi i presenti, non ci sia più un discorso etnico. «Ha ragione in pieno e i fenomeni di fusion hanno peggiorato le cose annullando le differenze. Se vado a Cuba voglio annusare, musicalmente parlando, il profumo cubano e non una cosa mezza argentina e mezza messicana. Se vado a Cuba cerco Ernesto Lecuona e non una pachanga latina generica. Così come a Vienna vorrei sentire un organino che mi suona quelle vecchie canzoni, vorrei annusare le tipicità, le specialità del luogo». Zinia (un’altra zeta) sembra una colonna sonora. Parlando di colonne sonore, lei andrebbe, per questioni felliniane, nella direzione di Nino Rota o in quella di Ennio Morricone? «Rispetto molto Morricone, ma io sono più rotiano. Perché ci sento molto Novecento in Rota, lo spirito di quel secolo». Non può non venire in mente uno dei suoi gioielli più recenti, L’orchestrina. Fellini puro, c’è perfino l’impagabile personaggio dell’odalisca che rompe le palle e uno s’immagina tutti i casini che ha creato ai poveri orchestrali. «Un po’ di esperienza di quel mondo ce l’ho. Da giovane andavo dietro alle orchestre e quindi capivo la mentalità, la tipologia dei vari orchestrali, gente splendida nella disperazione. Finito lo spettacolo, mi ricordo, si cambiavano e mettevano dei pullover, preferibilmente rossi, però i pantaloni non li cambiavano mai, restavano quelli neri dello smoking». The Bridge è un pezzo bellissimo, ma è come un’amputazione, a un certo punto finisce ed è troppo presto. «Per The Bridge, così come per Song in D flat, devo chiedere perdono ai musicisti di professione, perché sono brani che chiudono sulla dissolvenza e non sulla tonica, li ho lasciati lì, aperti, terminano con un accordo di armonia che prelude a una ripartenza, che non è conclusivo». È molto affascinante questo silenzio, e non parlo stavolta dell’assenza di parole, ma del silenzio che segue alla dissolvenza, questo silenzio della musica mentre uno si aspetta l’ultima carità di un altro ritornello. È affascinante oggi, nella situazione contemporanea. «Questo è vero e a me è piaciuto farlo. Mi sono detto: perché no? Chiudo con una sospensione, un punto interrogativo». Poi c’è Largo sonata per O.R., un pezzo di musica classica e basta. «Prima di registrarlo, Piergiorgio Rosso, il grande violinista, mi ha detto: “Senti, Paolo, adesso voglio trovare sul violino un suono di cipria”. È quello che sto cercando, gli ho risposto. E cipria è stata». Vediamo se ho orecchio, all’inizio di Sharon la frasi del sax sono quelle della mitica Hemingway? «Sentiamo. Tararà tarara. No, però c’è quel gusto». Giovanni Raboni, poeta e suo fan, scrisse che Hemingway sembra scritta da Fitzgerald. Quello tra Hemingway e Fitzgerald è stato un bivio fatale per molte generazioni. Lei chi sceglierebbe tra i due? «Mi mette in imbarazzo. Non saprei dirle. Intanto ho letto di Fitzgerald meno di quello che ho letto di Hemingway. La raffinatezza di Fitzgerald è tale... Però, forse, gli impedisce di arrivare al dunque. Mentre Hemingway è più pesante, se vuole, più sempliciotto, però arriva al dunque». Alla suite Montale segue, nel disco, la suite del Ballo dei manichini, colonna sonora di uno spettacolo mai andato in scena, fallito addirittura due volte, a Parigi e in Polonia (diceva proprio Fitzgerald: “Vi parlo con l’autorità del fallimento”). La suite dei manichini offre un catalogo di quello che offre la ditta musicale “Paolo Conte not limited”, una varietà di gusti e di ritmi, rumba, valzer, tango e, perfino, il novelty step, che non conoscevo. Cos’è? «Era un genere in voga in America fine anni Venti, di cui il maggiore artefice era Zez Confrey che suonava una musichetta molto piacevole, molto ritmica, un po’ imparentata con Gershwin». Musica senza veleni? «Senza veleni». Il capitolo musica & veleno meriterebbe un lungo discorso. Lei ha sempre detto che in Ma l’amore no, classico italiano degli anni Quaranta, si sente il veleno di quel tempo. «Grande canzone, avrei voluto scriverla io, una cosa meravigliosa, ha dentro tutta la sua epoca. L’hanno sempre considerata una canzone un po’ iettatoria». Ma non mi dica. «C’è una lista di canzoni che porterebbero male. Una lista a cui io sono legato per sentito dire, perché me l’hanno tramandata nell’ambiente, e a cui ho fatto delle aggiunte mie. In genere, sono canzoni bellissime ma perseguitate da questa fama sinistra. Non so se la brutta nomea derivi dal mondo degli orchestrali». Ma queste canzoni porterebbero sfortuna perché agli orchestrali erano occorsi incidenti mentre le eseguivano? «Forse, potrebbe essere, ma non c’è una spiegazione unica. La cosa strana è che sono tutte canzoni famose, celebri». Quindi si potrebbe fare un disco di canzoni maledette, l’album della lista nera e avrebbe un successo assicurato. «Un album, certo, con copertina viola. Lo vuole produrre lei?». Bellissima idea. Mi dà qualche titolo? «La prima in classifica non è italiana e, sono spiacente, ma non posso aggiungere altro». Non è quella che fa tararà...? «No, non la accenni nemmeno. Non si può. E poi è anche legata al nazismo». Ho capito. Devo affrontare un viaggio in macchina e sono pure meridionale. «Per carità. Sono tante le canzoni proibite. Ma l’amore no il popolo la considerava, forse per il titolo, propedeutica a una défaillance sessuale. La stessa cosa successe a Il leone si è addormentato». Del grande Henri Salvador. «Nel dare questa patente di canzone menagramo si pensava al doppio senso sessuale. Il leone addormentato, capisce no?» Il fantasma dell’impotenza. «L’incubo di nottate passate in bianco». Quindi non è una questione musicale. «No, in genere è legato al testo, al titolo, anche se nella mia lista personale ci sono risvolti musicali, qualcosa di amaro, musicalmente parlando, in un passaggio che mi ha fatto dire: qui c’è qualcosa che non va, qualcosa di non buono». Bisogna proprio farlo il disco maledetto. «Bisogna farlo sì, con le scritte in oro». Lei chiude con un sognante pezzo dedicato a Corto Maltese. Le piaceva molto Hugo Pratt? «Mi piaceva il suo segno, così forte, marcato, una volta sono andato a trovarlo in uno studio che aveva a Milano e mi incantai davanti a tutte le matite che aveva. Era un uomo molto divertente. Era bravissimo nel dare i nomi ai personaggi (Corto Maltese, appunto, Rasputin, Bocca Dorata), e ho sempre pensato che chi trova il nome giusto trova la storia giusta». Tra le sue idiosincrasie c’è quella per le fotografie, a lei non piace farsi fotografare (starà fresco adesso con la moda dei selfie fatti dai fan che hanno preso il posto degli autografi). È dai tempi della prima comunione che lei detesta farsi fotografare. «È da allora che odio mettermi in posa. È verissimo». Non si deve più preoccupare. Una lettrice, sua fan, mi ha scritto: “Ha notato come riesce sempre benissimo Paolo Conte nelle foto? Anche se guarda nell’obiettivo, rarissimamente, ciò che appare è la sua distanza, il suo essere altrove, con i suoi baffi e le sue rughe, come se le nostre esistenze si incrociassero per caso, ma lui vivesse in un universo parallelo”. «Guarda le donne, guarda le donne cosa riescono a vedere». Lei dice spesso che Jannacci è stato fondamentale nella canzone italiana. Mi spiega perché? «Per le sue follie. Cose come: “Anche da lontano si vede che non mi vuoi più bene”. Oppure: “L’avvenire è un buco nero in fondo al tram”. Lì ci sono anche delle derivazioni teatrali molto interessanti». Mi scusi la brutalità della domanda: ma perché Mina non ha mai cantato le canzoni di Paolo Conte? «No, ha cantato qualcosa. Ma fu qualcosa fatto in fretta, su sollecitazione di un editore, non ci furono i tempi giusti. Aveva provato a cantare Avanti, bionda, ma l’orchestrazione veniva troppo ampollosa». Non ho mai detto o sentito una sua dichiarazione su Lucio Battisti. «Eccola: grande talento». L’ha conosciuto? «Sì, si figuri, ancora quando era ragazzino e suonava nell’orchestra di Tony Dallara. Era molto giovane, un romano scherzoso. Ha scritto bellissime canzoni». Nella storia della poesia italiana c’è una sola poesia che è un giallo ed è La cavallina storna di Pascoli. Nella storia della musica italiana l’unica canzone che è un giallo è Onda su onda. Anche questo è un suo record. «In effetti rimane il dubbio se il personaggio sia caduto in mare per un incidente o perché spinto da qualcuno. Magari dal comandante della nave che ha adocchiato Sara, la moglie del protagonista. Oppure dalla stessa Sara. Ma mi lasci dire che La cavalla storna mi emoziona sempre. Un magone, mi vengono le lacrime». Pare che papà Pascoli non fosse uno stinco di santo. Però, come si dice? Ogni padre scarrafone è bello al figlio suo. «Quando Pascoli scrive: “Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: / disse un nome... Sonò alto un nitrito”. È teatro puro, da brividi». Da tempo penso che dovrebbero darle il Nobel, però lei ha già vinto un premio superiore ai miei occhi: il telegramma che le inviò Yves Montand la prima volta che lei cantò all’Olympia. «Lo conservo gelosamente. Mi fece molto piacere riceverlo». Chi sono i registi famosi che le hanno chiesto di fare l’attore nei loro films (con la esse finale, come vuole lei)? «Furono due o tre. Monicelli, di sicuro. Adesso mi viene in mente che Marcello Mastroianni, già ammalato, poveretto, mi indicò per il film Sostiene Pereira». Il suo primo successo, la canzone che portò il suo nome, come compositore, in cima alle classifiche fu La coppia più bella del mondo di Celentano e Claudia Mori. Come successe? «Ero andato dalla Giusta Spotti, vedova di Pino Spotti il compositore, che lavorava come segretaria ed era un personaggio importante a Milano nell’editoria musicale. Avevo deciso di fare la mia ultima giocata, di darmi l’estrema chance perché non ero riuscito a combinare niente. Avevo scritto questa musica e dissi: “Giusta, trovami un paroliere”. E lei mi chiese: “Chi vuoi?”. Luciano Beretta, risposi, perché mi era piaciuto come aveva scritto Mondo in mi settima di Celentano. Giusta mi fissa un appuntamento e si presenta questo tipo che era una specie di giullare, tutto ballerino. Parlava milanese stretto. Gli feci sentire la musica. Passa una settimana, nel frattempo io ero andato a fare l’esame da notaio a Torino e stavo all’albergo Roma, e mio fratello mi manda un telegramma di due parole: “Probabile Celentano”». Antonio D’Orrico