Annalisa Merelli, pagina99 8/10/2016, 8 ottobre 2016
GENERAZIONE SEXTING
Al quarto appuntamento digitale avevano visto quasi tutto l’uno dell’altra – i seni di lei, l’erezione di lui – ma non si erano ancora guardati. Tutto, tranne il viso. «Mi sono divertito ma non la conosco. E inviarle la foto della mia faccia mi sembrava troppo rischioso. Se lo faccio con la ragazza con cui sto adesso invece è diverso. Mi fido di lei». Francesco ha 20 anni e fa parte di una larga percentuale di adolescenti e giovani adulti che fa sesso scambiandosi con il partner messaggi, audio, foto erotiche via smartphone. Tecnicamente, in questo caso, safe sexting, sempre cioè con l’accortezza di non lasciare nel telefono di sconosciuti elementi che possano renderti riconoscibile in pose osé. Per il resto, liberi tutti. Non c’è nulla di innaturale.
Sexting, in fondo, è solo una parola relativamente nuova, perché la pratica di mandarsi messaggi erotici è ben più antica. Val la pena ricordare le lettere che autori del calibro di James Joyce, Oscar Wilde o Virginia Woolf scambiavano con i propri amanti, e non c’è ragione di dubitare che scambi simili siano avvenuti anche tra comuni mortali.
L’evoluzione tecnologica delle lettres érotiques è più comune di quanto si pensi: già nel 2011 il New York Times riportava che fino al 17% degli americani aveva dichiarato di ricevere immagini esplicite via messaggio, e secondo una ricerca condotta quello stesso anno da Michelle Drouin, ricercatrice di psicologia all’Università dell’Indiana, l’80% degli studenti tra i 18 e i 25 anni scambiavano messaggi espliciti con il loro partner, e 60% fotografie.
Il sexting si fa in coppia, e con flirt occasionali, può essere preliminare del sesso in carne e ossa oppure finire in uno scambio digitale. I dati più recenti indicano che le possibilità che chi sta leggendo abbia, almeno una volta nella vita, provato il sexting, sono molto alte. Secondo uno studio del 2014 del Pew Research Center, un istituto statunitense di ricerca e sondaggi, l’uso abituale del sexting ha una prevalenza che arriva almeno fino al 44% nella fascia d’età più giovane, fra i 15 e i 24 anni, e fino al 34% tra i 25 e 34.
In Italia è difficile trovare dati definitivi, specie per quanto riguarda gli adulti, ma le informazioni disponibili sui più giovani suggeriscono una tendenza simile. Secondo un’indagine di Telefono Azzurro il 36% degli adolescenti italiani dichiara di conoscere qualcuno che ha fatto sexting; il 38% afferma di avere ricevuto «immagini, testi e video a sfondo sessuale» da amici e il 27% dal proprio partner; e il 42% è convinto che «non ci sia nulla di male».
«Mi è capitato di farlo con tipi sconosciuti e a volte pure strani: da quello che ti chiede se può mandarti la foto anche di sua moglie al tipo che vuole-fartelo-vedere-solo-in-movimento», racconta Anna, che di anni ne ha 35, in una serata tra amiche in cui ci si diverte a ridere di se stesse e di quei cellulari che ribollono di foto e frasi hot. «È divertente. Ma quando lo fai con la persona che ami diventa veramente eccitante».
Vittime e carnefici
Nonostante i dati e l’esperienza raccontino di un fenomeno diffuso e per tanti normale, si scrive e si legge di sexting come fosse un’epidemia, un problema, un’espressione di disagio giovanile. Dov’è il cortocircuito? In apparenza, sembra essere una reazione comprensibile ad alcuni fatti di cronaca. Quando si legge per esempio di una ragazza che compie un gesto estremo perché è stato diffuso contro la sua volontà un video intimo, oppure si intuisce l’imbarazzo di un personaggio pubblico davanti al furto di foto private sul telefonino, può essere naturale chiedersi se la combinazione fra vita erotica e tecnologia digitale non sia foriera di pericoli. I problemi però sono due. Il primo è la confusione tra mezzi, messaggi, pratiche. Perché il sesso in rete è tante cose, e il sexting è solo una.
Il termine (sex + texting) indica lo scambio esclusivo di contenuti a sfondo sessuale. Ai tempi degli sms erano solo le parole, con gli smartphone è entrata in gioco la multimedialità. E quando il sexting ha sposato il selfie ha smesso di essere una semplice pratica: è diventato un fenomeno. Niente a che vedere però con la pornografia online, quella di YouPorn o delle cam girl, e neppure con la rottura del patto di fiducia tra i due amanti digitali. Se uno dei due decide di estrarre i messaggi privati dalla chat e condividerli al di fuori di essa, magari per danneggiare il partner, si entra nel territorio oscuro del revenge porn, la vendetta pornografica, che la giurisprudenza fatica ancora a definire.
Basti pensare al caso di Tiziana Cantone, che è stata stigmatizzata e derisa dopo che un video che la ritraeva in un atto sessuale era finito su YouTube, ancora non è chiaro per mano di chi, ed era poi stato ripreso anche da alcuni portali pornografici. L’altro problema di queste reazioni, per quanto comprensibili, è che addossano le responsabilità alle vittime e non ai carnefici.
Divario generazionale
«Il discorso che riguarda l’attività sessuale online è costruito in maniera problematica, con un certo oscurantismo che nel nostro contesto culturale arriva perfino ad approcciare il fenomeno come una patologia», spiega Cirus Rinaldi, docente di Genere e sessualità all’Università di Palermo. Citando le ricerche fatte da Renato Stella all’Università di Padova, Rinaldi nota che questo dipende in parte da un divario generazionale. Sono i giovani a ricorrere al sexting con più frequenza, usando mezzi con cui gli adulti sono meno a proprio agio.
Ne è un esempio Snapchat, che deve il suo successo proprio al fatto che i messaggi scompaiono dopo essere stati letti, e che gli adolescenti preferiscono ad altre forme di messaggeria anche quando non si tratta di scambiarsi immagini provocanti: i ragazzi sanno che lasciare tracce online è un rischio, e cercano di non farlo. Ma seguono anche l’iperconnessione e dunque l’immediatezza dettate dai dispositivi mobili. Possibilmente fuori dal controllo dei grandi. «In questo modo la sessualità dei giovanissimi esula dal controllo degli adulti», osserva Rinaldi, e si crea «lo stereotipo del ragazzo o ragazza vittima del consumo pornografico [digitale]».
La società e la cultura
Si tratta però appunto di uno stereotipo: online, e via cellulare, si replicano in gran parte le dinamiche che esistono offline, ed è anacronistico pensare di “proteggere” i giovani attaccando le interazioni erotiche digitali. O mettendo sotto accusa i mezzi digitali con cui si condividono. Forse dovremmo preoccuparci di più del terreno sociale: le situazioni sgradevoli, infatti, sembrano essere più il prodotto di una cultura che della tecnologia.
La “tradizione” richiede una sessualità femminile sotto controllo, in Italia (e non solo). E spesso «si riproduce il doppio standard: una donna non può essere padrona del proprio corpo online, così come non può esserlo offline», nota Rinaldi. In quanto cassa di risonanza delle dinamiche culturali, la comunicazione digitale non presenta che pericoli proporzionali, e di natura simile, a quelli offline. Il problema è dunque nel messaggio più che nel mezzo, o meglio nella società che lo giudica.
«Se la donna deve sempre presentarsi come sessualmente riluttante», si chiede ancora Rinaldi, «quando un no è un no?». In una società che non contempla l’iniziativa femminile nella sfera sessuale, si finisce per giustificare in qualche modo la violenza, perché «una donna che non vuole fare sesso può sembrare una che gioca a fare la femmina». E come se esistesse una morale pubblica pronta a trovare colpe nella azioni delle donne – e persino delle ragazzine – per aver preso parte a conversazioni digitali a sfondo erotico.
Cyberbullismo e reati
In alcuni casi, la giustizia si schiera dalla parte delle ragazze quando questa morale pubblica assurge a novella inquisizione, e in questo caso viene riconosciuto il cosiddetto cyberbullismo. L’attacco verso una persona perpetrato tramite mezzi digitali, include tutto: da messaggi di minacce inviati via mail al dileggio pubblico sui forum o sui social network – fino alla condivisione non autorizzata di immagini e documenti privati. Ne fa parte anche il revenge porn.
Il cyberbullismo e il revenge porn sono entrambe pratiche pericolose perché la rete ne amplifica il raggio d’azione e mettono a rischio soprattutto le donne, il target maggiormente colpito: due terzi dei casi di revenge porn riguardano ragazze sotto i trent’anni, secondo un rapporto pubblicato nel 2015 dalla polizia inglese. Come Cantone, moltissime vittime in tutto il mondo di revenge porn sono ricorse al suicidio, o l’hanno tentato. L’impressione però è che la società spesso non le tratti come parte lesa di un crimine odioso, ma permetta che le immagini trafugate diventino un motivo di vergogna per le vittime e non per chi le distribuisce.
Accusare la rete
Ma cambiare una mentalità è difficile: meglio allora accusare la rete, i social media, internet. È da un approccio simile che nascono leggi come quella proposta dal governo italiano, ora al vaglio finale del Senato, contro il cyberbullismo. Una legge che ha generato preoccupazione fra gli esperti di libertà d’espressione di tutto il mondo, che l’hanno etichettata additata come «la legge sulla censura più stupida nella storia d’Europa». Questo perché, mascherata come un tentativo di proteggere gli utenti di servizi digitali, è invece una limitazione della loro libertà.
«Ci sono problemi obiettivi in questa proposta di legge», spiega Innocenzo Genna, studioso di regolamenti europei in materia di internet e telecomunicazioni. Il principale, forse, è la vaghezza: per definire la pubblicazione di un contenuto che contiene forme di cyberbullismo, è sufficiente che provochi «sentimenti di ansia, di timore» in qualcuno, quindi una misura assolutamente arbitraria.
Una legge sbagliata
La presunta vittima potrebbe rifarsi al gestore della piattaforma – sito, forum, social network – dove è pubblicato il contenuto, e questi a sua volta sarebbe tenuto a rimuoverlo. Qualora lo ritenesse opportuno, la vittima può anche rivolgersi al garante della privacy per ottenere provvedimenti quali l’oscuramento di certi materiali o la rimozione di dati personali. Un diritto importante per chi si trovasse a essere attaccato ingiustamente, o a vedere le proprie immagini personali diffuse senza autorizzazione. E che, infatti, esiste già: la pubblicazione di contenuti privati senza consenso, spiega Genna, è già regolata in Italia, il che rende questa legge, «fra le altre cose, essenzialmente inutile».
Ma lo stesso principio potrebbe essere esteso a legittime critiche che vengono espresse online. Anch’esse infatti potrebbero generare ansia o timore: immaginate un politico accusato, magari a ragione, di corruzione. Eppure la legge non considera la veridicità di queste ipotetiche critiche un buon motivo per evitarne la rimozione. «Questa vaghezza della normativa va contro la libertà d’espressione», dice Genna, aggiungendo che «nel contesto europeo non può essere dato un potere così definitivo a un privato». Una proposta di legge che permette a un individuo, in base alla sua reazione emotiva, di stabilire la differenza fra la critica lecita e il bullismo, «porterebbe a rimuovere [i contenuti] per non entrare nel contenzioso», aggiunge lo studioso.
Il paradosso evidente è che la preoccupazione collettiva e anche comprensibile generata da alcuni tragici fatti di cronaca, anziché sollevare un dibattito su come la società vede (e giudica) la sessualità, ha alimentato incomprensioni e ansie. Confondendo piacere e crimine. Mezzi e messaggi. Ancora una volta, senza capire.