Caterina Soffici, Il Fatto Quotidiano 18/10/2016, 18 ottobre 2016
SPRINGSTEEN: “IL MIO LIBRO NATO DOPO UNA NOTTE DI TERRORE” – È lui. Bruce Springsteen, il mito
SPRINGSTEEN: “IL MIO LIBRO NATO DOPO UNA NOTTE DI TERRORE” – È lui. Bruce Springsteen, il mito. La forza della natura, che ieri a Londra non era una forza scatenata come quando imbraccia la chitarra sul palco, salta, suda e canta indiavolato per ore. Ma una forza calma e riflessiva che parla della sua autobiografia Born to run, appena uscita (in Italia con Mondadori). In Gran Bretagna nel giro di 24 ore è in testa alle classifiche. E si capisce. Fin dalle prime pagine, dove la forza calma ti prende e ti porta dentro la vita di un mito. Che è anche un uomo, cosa che con questi personaggi si tende a dimenticare. Qui a parlare è la rockstar, ma soprattutto l’uomo. Il ragazzino che si è fatto strada dalla provincia americana, è scappato da Freehold, New Jersey, per raggiungere la vetta più alta. Una forza calma ma pur sempre forza trascinante, che ti fa uscire da un’ora e mezza di domande e risposte, per dire che sì, si capisce perché il Boss è il Boss. Anche se quando legge ad alta voce parti del libro deve frugare nella tasca e inforcare gli occhiali. Perché comunque ha 67 anni, anche se non li dimostra. Coraggio, onestà, candore e umiltà sono le quattro parole chiave di questo libro. E una sorpresa notevole: scrive benissimo. È chiaro che non c’è un ghostwriter. Non sarebbe da lui. È Bruce che parla e non nasconde niente. Dalla lotta con la depressione ai rapporti complicati con suo padre Doug, una questione di odio e amore non dichiarato. Dalla famiglia di immigrati, per metà irlandesi e per metà italiani (il capitolo sugli italiani è imperdibile). Lui è lui: jeans e stivali neri, maglietta grigia, chiodo nero. E un larghissimo sorriso pieno di soddisfazione. Cantautore, un po’ poeta e un po’ scrittore. Quindi si parte dalla domanda inevitabile. Pensi che il Nobel a Dylan possa diminuire le chance che ne diano uno a te? Sono soddisfatto così (ride). Dicono che non dovevano premiare Dylan perché è un cantautore… Essendo un cantautore, dissento assolutamente. Come ti senti dopo aver scritto questa biografia? Soddisfatto, se posso dire. Una esperienza diversa rispetto a scrivere una canzone. Ci ho messo 7 anni. Mi è piaciuto il processo della scrittura. Ti senti una leggenda? (ride forte) Come potrei definirmi una leggenda? Come è nata questa biografia? Non mi sono messo lì alla scrivania dicendo: adesso scrivo. L’unico scopo era spiegare da dove viene la mia musica. L’idea di scrivere è venuta la notte in cui ti sei esibito al Super Bowl del 2009. Non la solita tremarella, racconti. Parliamo quasi di terrore… (Inforca di nuovo gli occhiali e legge) Mi sento come se mi avessero piantato una siringa di adrenalina dritta nel cuore. Per un attimo chiudo gli occhi e quando li riapro non vedo altro che il cielo blu della notte: niente band, niente pubblico, niente stadio. Respiro, mi calmo. È questo che succede? Quando sono davanti a 80 mila persone tiro fuori tutte le mie carte. È questo che so fare. È il luogo dove posso dare un senso alla mia esistenza. Per questo i concerti durano così tanto. Tua madre è emozionata che hai scritto un libro? Si emoziona per ogni fottutissima cosa che faccio. Tuo padre è morto. Ma sembra che questo libro sia un po’ un tentativo di fare i conti con una relazione difficile. Ho cercato di raccontare le cose con onestà. La stessa con cui sono sempre salito sul palco. La sua vita è stata più complicata della mia. E quindi inforca di nuovo gli occhiali e legge di quando la madre lo mandava a raccattarlo nei bar di Freehold. Dal basso vedevo lo sgabello, le scarpe nere, la calze bianche, i pantaloni da lavoro, la cintura e il volto sfocato dall’alcool che mi fissava mentre dicevo: ‘Mamma vuole che torni a casa’. Perché hai deciso di raccontare della depressione? Se scrivi un libro così, l’accordo con i lettori è che ti apri il più possibile. È stato naturale. È parte della mia storia, di quella di mio padre e della mia famiglia, di zii e cugini. Parli anche di tua moglie Patti Scialfa e dei vostri tre figli. In questo Patti è stata molto comprensiva. Non ha cambiato una virgola. Adesso stai facendo un giro delle librerie per promuovere il libro. Cosa ti dice la gente che incontri? Molti mi ringraziano. Casomai perché una certa canzone li ha aiutati a superare un momento della vita. Cosa pensi di Donald Trump? Penso che stia minando il processo democratico. Qualcuno dice che la voce è il tuo punto debole. Ho dovuto imparare a cantare con la voce che mi ritrovo. Uso il respiro, lo stomaco, un sacco di altre cose… Sei davvero nato per scappare dal New Jersey? In verità ci vivo ancora. Sono stato un po’ in California. Ma con l’arrivo dei figli ho deciso di tornare. Perché volevo crescerli con una vita più di basso profilo, impossibile a L.A. E poi c’era la famiglia, gli irlandesi e gli italiani… Sei mai stato a Vico Equense, vicino a Napoli, paese da dove è partito tuo nonno? No, mi riprometto di andarci.