Andrea Schianchi, La Gazzetta dello Sport 17/10/2016, 17 ottobre 2016
FILADELFIA, DOVE NACQUE LA LEGGENDA
La storia del Filadelfia è lo specchio di un intero Paese: l’Italia. Prima stadio gioiello, luogo di culto e di pellegrinaggio; poi abbandonato, dimenticato, buttato via come uno straccio vecchio; infine, in un soprassalto di dignità collettiva, riscoperto, riprogettato, rinato. Se fossimo in Inghilterra, il Filadelfia sarebbe un monumento nazionale. Qui, invece, si devono scrivere petizioni e raccogliere fondi per rimetterlo di nuovo in piedi. Ma ora risorgerà, e accadrà presto, molto presto, e allora non ci si ricorderà più di quando quel prato era un tempio di desolazione e tristezza: dove avevano corso Valentino Mazzola e i suoi amici, fino a pochi anni fa crescevano le rape, i cavoli e le verze, e i cani ci andavano a fare i loro bisogni. Capire gli errori del passato è il metodo migliore per camminare verso il futuro. E nel futuro prossimo c’è un nuovo Filadelfia (2 campi, 5 gradinate, 1 tribuna, spogliatoi, garage...), ci sono maglie granata che scintillano e sarà come vivere in un lungo, infinito flashback, perché è impossibile, qui, non fare esercizio di memoria.
IL PROGETTO A pensarci bene il «Fila» non è uno stadio, ma un luogo dove succedono i sogni. E come in un sogno adesso chiudiamo gli occhi e torniamo indietro nel tempo. A quando tutto questo nacque: anno 1926. Il conte Enrico Marone di Cinzano, presidente del Torino, chiese al Comune la concessione edilizia, la ottenne e fece partire i lavori. In cinque mesi l’impianto era pronto, 15 mila posti così suddivisi: 1.300 nella tribuna in legno disegnata in stile Liberty, 9.500 nelle gradinate e 4.000 nel parterre. Costo dell’operazione: 2,5 milioni di lire. Un piccolo gioiello incastonato in un quartiere allora periferico della città. L’indirizzo esatto era: via Filadelfia numero 36. Presente all’inaugurazione il principe Umberto II di Savoia, erede al trono. Era domenica 17 ottobre 1926, novant’anni fa. Il Torino ospitava la Fortitudo Roma, finì in goleada: 4-0 per i granata, gol di Rossetti e tripletta di Libonatti. Negli anni successivi vennero fatte modifiche all’impianto: nel 1928 fu aggiunta la biglietteria, mentre nel 1930 una vera e propria ristrutturazione portò la capienza a 30 mila posti dopo che furono ampliate le gradinate e la tribuna. Il «Fila» fu lo stadio di sei dei sette scudetti granata (1928, 1943, 1946, 1947, 1948, 1949: quello del 1976 fu vinto al Comunale).
LA PIU’ FORTE Fu lì che si scrisse la leggenda del Grande Torino. Ci sono ancora, laggiù sul prato verde, Mazzola e Loik, Gabetto e Ossola, Menti e Castigliano, Grezar e Rigamonti, Ballarin e Maroso, c’è ancora il portiere Bacigalupo che si distende e va a prendere il pallone all’incrocio dei pali neanche fosse un gatto, e c’è il presidente Ferruccio Novo, in piedi, a osservare quella creatura che sembrava uscita dalle mani di un Michelangelo tanto era perfetta, armoniosa, elegante. In un aggettivo: bella. Fu la squadra più forte del mondo, nessun dubbio. E a dirlo furono gli avversari, sicché il giudizio assume un valore superiore. Il Filadelfia era la casa degli eroi, fino a quel maledetto 4 maggio 1949, quando l’aereo Fiat G. 212 si schiantò sulla collina di Superga.
QUARTO D’ORA Quando battevano la fiacca, e succedeva perché sentendosi (ed essendo) superiori agli avversari spesso li sottovalutavano, Mazzola e i suoi fratelli avevano qualcuno che li riportava in fretta alla realtà. Questo «qualcuno» si chiamava Oreste Bolmida, di professione ferroviere, a tempo perso tifoso del Torino. Si presentava sulla tribuna del Filadelfia con una trombetta, la stessa che utilizzava per dare il segnale di partenza ai treni, e la suonava ogni volta che c’era bisogno di spingere, o di strigliare, i suoi ragazzi. Quelle note sparate nell’aria avevano il potere di scatenare la furia dei giocatori, Valentino si tirava su le maniche e quello era il messaggio per i compagni: la furia si trasformava in azioni meravigliose e in gol. Una pioggia di gol. Così nacque il famoso «quarto d’ora» granata, quindici minuti di calcio sublime che annichiliva gli avversari e lasciava a bocca aperta gli spettatori. Mai vista una cosa simile. E mai più si rivedrà, perché mai più ci sarà una squadra come il Grande Torino. Il 2 maggio 1948 al Filadelfia arrivò l’Alessandria: Ossola e Loik misero al sicuro il risultato dopo pochi minuti, poi i granata decisero di riposarsi un po’ in vista della partita successiva contro l’Inter. Ma il pubblico cominciò a mugugnare, il 2-0 era poco, non andava bene. Capitan Mazzola si mise a battibeccare con i tifosi, fece la faccia dura, tornò in campo, diede l’ordine e per l’Alessandria fu un tormento: 10-0 il risultato finale, record tuttora imbattuto, mai una squadra ha vinto con tanto margine. Uscendo dal Filadelfia, Valentino guardò negli occhi i tifosi che lo aspettavano e sibilò: «Avete visto di che cosa siamo capaci?».
RESPONSABILITA’ Dopo Superga nulla fu più come prima. Il Filadelfia era ancora la casa granata, certo, ma mancavano i padroni, gli eroi, e un senso di profondo dolore avvolgeva tutto l’ambiente: il presidente Novo diede la stadio in gestione alla Federcalcio, quasi volesse togliersi di dosso un insopportabile peso di responsabilità. Nel 1959 il piano regolatore del Comune definì l’area del Filadelfia «verde pubblico», nessuno protestò e iniziò il declino. L’ultima partita si giocò il 19 maggio 1963: Torino-Napoli 1-1, reti di Bearzot e Corelli. Da allora quasi tutti i presidenti granata che si sono succeduti hanno tentato senza successo di ridare vita al Filadelfia, e soltanto adesso che lo stato di avanzamento dei lavori è giunto all’80% si può dire che, finalmente, il trionfo è vicino.