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 2016  ottobre 17 Lunedì calendario

NEL LUNGO PERIODO MR PRESIDENT CONTA. MA AVERE I NERVI SALDI FA GUADAGNARE DI PIU’

N egli ultimi centoquindici anni, con buona pace dei conservatori, Wall Street ha preferito i presidenti democratici. Ma c’è una regola d’oro, scritta in tutti i manuali di finanza comportamentale e applicata pochissimo a tutte le latitudini e che mette d’accordo tutti: non importa chi occupa la Casa Bianca. Guadagna solo chi compra ai minimi e vende ai massimi. Qualcuno lo fa davvero? I dati di raccolta dei fondi comuni e degli Etf (Exchange traded fund) fotografano una realtà ben diversa. Pochissimi, anche tra gli investitori professionali riescono a cavalcare l’onda giusta. Sono, infatti, sempre molto numerosi quelli che acquistano vicino ai massimi e vendono in prossimità dei minimi di mercato in preda al panico. Invece, nell’impossibilità di prevedere il punto esatto del crollo e del picco sono i nervi saldi che, in genere, premiano nel lungo periodo. Meglio, dunque, armarsi di pazienza e frenare l’impulso di vendere al primo rialzo dopo una fase negativa.
Lo hanno dimostrato diversi studi accademici e non. Uno dei più recenti è stato realizzato dalla società Moneyfarm, analizzando l’andamento storico dei mercati internazionali. Negli ultimi trent’anni l’indice S&P500 ha ottenuto una performance complessiva (in dollari) dell’867%, passando dai 211 punti del 31 dicembre 1985 ai 2.044 di fine 2015 e generando quindi una performance media annua del 7,86%. «Naturalmente durante questo lungo periodo si sono alternate fasi negative e positive — spiega Paolo Galvani, presidente Moneyfarm —. Dal 1985 al 2015 abbiamo individuato dodici mesi altamente performanti che da soli hanno apportato un rendimento del 200%. Se l’investitore li avesse persi avrebbe dimezzato il guadagno, in questo caso la performance media annua sarebbe stata pari solo al 4,14%».
Quali sono i motivi di un divario così importante tra i due scenari? «Non va né dimenticato né sottovalutato l’effetto compound , il gioco dei tassi composti. Il fatto cioè che i rendimenti nel tempo non vanno sommati ma moltiplicati, aumentando il ritorno complessivo ottenuto dall’investitore. O la perdita subita quando le cose vanno male», spiega lo studio della società.
I risultati non cambiano nemmeno nel Vecchio Continente. In trent’anni anni, infatti, il Dax, l’indice della Borsa di Francoforte, ha messo a segno un +686% (+7,12% il dato medio annuo), ma al netto dei migliori 12 mesi (+435%), il risultato complessivo scivola a un +47% totale, vale a dire l’1,34% annuo.
Ancora peggio sarebbe andata agli sfortunati investitori sul mercato azionario italiano: il +166% del Comit globale decurtato dei 12 migliori risultati mensili (pari al 638% complessivo) porta a una perdita del 64% circa (-3,5% annuo in media). Lo stesso meccanismo si osserva anche sull’EuroStoxx (di cui è stata ricalcolata la serie storica fino al 1987): in 29 anni al netto della performance (+277%) accumulata nei 12 mesi migliori, il risultato complessivo (+262%) delle blue chi p dell’Eurozona scivola in rosso del 3,9%.
E poiché trent’anni sono un periodo statisticamente significativo, ma forse eccessivo per un investitore medio, si può dimezzare il periodo di osservazione a soli 15 anni. Per vedere l’effetto che fa la «valanga» dei rendimenti (e delle perdite) tra il 2000 e il 2015.
Ma il risultato finale non cambia. Se a fine 2000, l’S&P500 si trovava a 1.320 punti, a settembre 2011, dopo le Torri Gemelle, il fallimento di Lehman Brother e alcuni slanci positivi, l’indice americano stazionava a 1.131 punti. A questa data, quindi, chi fosse entrato sul mercato nel 2000 perdeva il 14%. Ma già nel mese successivo — il miglior ottobre degli ultimi quindici anni — la perdita si riduceva a un -5%. E chi avesse avuto la pazienza di aspettare ancora, per effetto dei successivi recuperi tra l’ottobre 2011 a la fine 2015 ha realizzato un guadagno del 55%. «In pratica — conclude Galvani — i mercati premiano il risparmiatore che non si lascia influenzare dai su e giù, tenendo a bada paura e avidità». Entrare e uscire dal mercato rischia insomma di far perdere quelle sedute cruciali per la rivalutazione dell’investimento. Quelle che nessuno, a priori, può prevedere con certezza.