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 2016  ottobre 17 Lunedì calendario

CASO SAMSUNG, VACILLA IL MODELLO COREA

Che quello che è buono per Samsung sia buono per la Corea è chiaro dalle cifre. Il gigante dell’elettronica, ma anche della cantieristica, dell’ingegneria, dell’automobile, della chimica e di tanti altri settori pesa come fatturato complessivo per una decina di punti del Pil. Ma per questo il fiasco clamoroso del Galaxy Note 7, il nuovissimo modello di smartphone la cui batteria è ripetutamente esplosa portando alla sospensione della produzione, è potenzialmente un colpo duro per l’undicesima economia mondiale e più in generale per un modello di business tipico delle economie emergenti in Asia.
Ripercorriamo a sommi capi la storia del chaebol (conglomerato) sud-coreano. Nasce come commerciante di alimenti, si diversifica inizialmente nei tessuti e nell’abbigliamento quando il costo del lavoro è bassissimo e la Corea inizia ad esportare massicciamente, poi è uno dei gruppi scelti dal governo militare negli Anni 70 per realizzare i grandi investimenti nell’industria pesante che fanno del paese del Mattino Calmo una delle Tigri Asiatiche. Negli Anni 80 inizia la veloce riconversione verso l’elettronica, realizzata inizialmente con poca attenzione ai diritti della proprietà intellettuale (altrui), poi rapidamente con uno sforzo autentico per l’innovazione e la ricerca. Il risultato sono successi per i prodotti Galaxy (22% del mercato telefonico mondiale) e margini di profitto in doppia cifra, quando normalmente arrivare al 6% è un grande successo. Oltretutto utilizzando Android come software operativo, quindi senza poterlo sfruttare per derivarne marginalità, cosa che invece può fare Apple che controlla tutto ciò che va in un iPhone.
Senza il Galaxy Note 7, di cui Samsung sperava di vendere 15-19 milioni di esemplari nei prossimi sei mesi, il valore di mercato è crollato in un giorno di 19 miliardi di dollari e i benefici attesi per il 2016 sono stati tagliati di un terzo. Al di là della gestione immediata della crisi (per cui i coreani possono far tesoro dell’esperienza di altri marchi come J&J, Toyota o Volkswagen quando si sono trovate di fronte a simili episodi di ritiro di prodotti), la vicenda ha ripercussioni più profonde. La radice del problema delle batterie sta verosimilmente nella scelta di forzare la frontiera tecnologica: il Note 7 è molto più sottile del modello precedente e la sua batteria ha una capacità superiore del 20%, una combinazione che si è dimostrata ingestibile. Soprattutto perché Samsung ha voluto fare in fretta, impostando la sua strategia per battere sul filo di lana l’iPhone 7, a costo però di trascurare aspetti fondamentali della qualità. E quando ha capito che qualcosa non andava, ha gettato la responsabilità sul produttore di batterie (peraltro un’altra società del gruppo Samsung), piuttosto che fermarsi un attimo a cercare la causa ultima.
Errori nella concezione e nella commercializzazione dell’apparecchio che riflettono il Dna pesantemente ingegneristico di molte società asiatiche, maestre nel trasformare un’idea in un prodotto, meno nel gestire processi complessi. Ci si può interrogare anche sulla corporate governance del chaebol. Soprattutto da quando Lee Kun-hee, figlio del fondatore e capoazienda dal 1987 al 2014, disse al management che per non continuare a produrre prodotti di massa e mediocri dovevano «cambiare tutto tranne moglie e figli», il funzionamento di Samsung è quasi militare. Gli ordini che vengono dall’alto non si discutono, anche perché in Corea i dirigenti sono anziani, ma quando sorge un problema è difficile arrestare il treno in corsa.
A cercare di cambiare le cose anche prima della crisi del Note 7, evidentemente conscio dei rischi di stagnazione per Samsung, è il nuovo boss, Lee Jae-yong, figlio di Kun-hee. Educato negli Stati Uniti e molto rispettato internazionalmente, ha lanciato qualche mese fa un piano per rendere tutto il conglomerato meno dirigista e piramidale e più flessibile. Certo indurre comportamenti da start-up a società che occupano centinaia di migliaia di persone è una missione se non impossibile certamente difficile.
A rendere ancora più pesante il clima a Seul è la sensazione che le disgrazie non vengano mai da sole. Sono infatti passate poche settimane da quando Hanjin, la settima compagnia di navigazione al mondo, è entrata in procedura di concordato fallimentare, trascinando nel caos il settore della logistica globale. Per un paese che ha fatto del commercio e della partecipazione nelle catene globali di produzione la chiave per prosperare – negli Anni 60 la Corea non era più ricca della maggior parte dell’Africa – lo shock sembrava già sufficiente.
In questo momento, il fantasma che perseguita la Corea è finlandese. Come ricorda il Chosun Ilbo in un editoriale, «sono bastati pochi anni perché la Nokia perdesse rapidamente la sua posizione di numero 1 mondiale nei telefonini» trascinando con sé il paese nella recessione. Certo in quel caso la dipendenza da una sola società era ancora maggiore (un quarto della crescita del Pil finnico tra 1998 e 2007), ma a sperare che la Samsung risolva i suoi problemi non sono solo i suoi azionisti: non è certo di un altro vento contrario che ha bisogno l’economia mondiale.