Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, Il Fatto Quotidiano 16/10/2016, 16 ottobre 2016
“DEVO TUTTO A JOHN HUSTON. CON TOMAS MILIAN FINÌ A BOTTE IN UN FIUME”. INTERVISTA A FRANCO NERO – Django ha mezzo secolo e il suo protagonista, 75 anni tra un mese
“DEVO TUTTO A JOHN HUSTON. CON TOMAS MILIAN FINÌ A BOTTE IN UN FIUME”. INTERVISTA A FRANCO NERO – Django ha mezzo secolo e il suo protagonista, 75 anni tra un mese. Francesco Clemente Giuseppe Sparanero ha interpretato 210 film: “Il nome me lo cambiò Luigi Luraschi, su consiglio di De Laurentiis. Arrivai a Nero dopo aver rischiato di chiamarmi Spano, Fraticelli e persino Franco Castello Romano, perché Dino, megalomane, aveva fondato Dinocittà proprio a Castel Romano”. Huston, Buñuel, Petri, Pietrangeli, Bellocchio e Fassbinder, ma anche Antonio Margheriti in arte Anthony M. Dawson, regista de I Diafanoidi vengono da Marte: “Un mago che faceva gli effetti speciali con la carta stagnola e portava a termine quattro diverse opere di fantascienza, con mezzi poverissimi, in neanche 12 settimane”. Set dopo set, ha colonizzato galassie e pianeti anche Franco Nero. “Solo quest’anno – dice – tra quello di Keanu Reeves e quello di James Gray, ho partecipato a nove progetti. Quasi tutti lontani da casa, perché il mio Paese mi snobba e ormai lavoro soprattutto in giro per il mondo. Non mi interessa e ho smesso di dispiacermi da un pezzo. Sono un uomo libero. Con le mafiette, i salottini e le cricchette che infestano il cinema italiano non ho mai avuto niente a che fare”. All’epoca di Vamos a matar compañeros, Tomas Milian gli domandava ragione delle estenuanti sedute di trucco a cui si sottoponeva: “Perché lo fai, Franco? Sembri più anziano” . Lui rispondeva con sincerità: “Ho paura che tra 30 anni si dica quanto sono diventato vecchio, io voglio fare l’attore per sempre”. Con il codino, la barba e le locandine alle pareti a incorniciare una carriera unica, Nero non è finito nel quadro. A ogni descrizione, si alza dal divano e mima la scena che racconta. A ogni personaggio evocato corrisponde una voce, un dialetto, un’imitazione. Non è stanco: “Anche se curo il ginocchio con le iniezioni. Mi hanno già tolto il calcio, se lo fanno anche col tennis mi ammazzano definitivamente”. A guardarla è difficile pensare che Django sia del 1966. Iniziammo il film a Natale del ’65. Non c’era una lira e neanche una sceneggiatura. Girai una sola scena con Loredana Nusciak e poi si chiuse baracca. Durante le vacanze, Bruno e Sergio Corbucci buttarono giù una scaletta e a gennaio, nello scetticismo, con un freddo cane, ricominciammo con la troupe nei dintorni di Madrid. Rimaneste a lungo? Pochi giorni. Sono le uniche immagini riprese all’estero perché per il resto girammo tra gli stabilimenti della Elios sulla Tiburtina e nei pressi di Manziana. A Django arrivai quasi per caso. Ero stato scelto da Sergio Corbucci, ma i produttori spagnoli e italiani non si mettevano d’accordo tra di loro e insieme al mio nome, ballavano quelli di altri due attori: ‘Sono tutti e tre sconosciuti – disse Manolo Bolognini – portiamo le foto a Fulvio Frizzi e vediamo cosa decide lui’. Il capo della Euro puntò il dito sulla mia faccia e mi ritrovai nei panni di Django. Perché il Django di Corbucci è entrato in una sfera mitologica? Perché prefigurava il ’68. Era un film profetico e molto politico. Gli oppressi erano i messicani – come nel Django di Quentin Tarantino, che è sveglio e paraculo – gli oppressi sono i neri. C’era questa atmosfera lugubre, da duello giapponese, da mistica della resa dei conti. Era rivolto ai lavoratori e agli operai, a gente che si immedesimava e non vedeva l’ora di andare dal capoufficio o dal diretto superiore a dirgli: ‘Da oggi, la situazione cambia’. Se tutto va bene, presto girerò un sequel di Django. L’ha scritto John Sayles e spero non abbia l’ossessione della frenesia, degli spari e delle troppe camere che ormai si usano nei film d’azione e che fanno somigliare il cinema contemporaneo a un videogame. Sapete cosa mi viene da dire? Cosa? Viva Corbucci. Che era un genio. Con lui vedevi le espressioni, la recitazione, l’ambiente e vivevi le attese perché il cinema è anche attesa. In tutti i sensi. Perché in tutti i sensi? Corbucci aveva la pressione bassa come tutti i registi italiani. Carburano dopo mezzogiorno e prima non combinano niente. Sergio arrivava sempre in ritardo e ogni mattina aveva una scusa nuova. Era anche spiritoso: ‘Guarda – mi dice una volta – la troupe aspetta che mi venga un’idea e io l’idea non ce l’ho. Annamo ar bar’. Poi non si sa come, il programma giornaliero lo finiva sempre. Lei è nato in Emilia, ma ha origini pugliesi. Mio padre, un uomo tutto d’un pezzo, un carabiniere, era molto severo. Ti diceva: ‘Alle 8 rientrate in casa’ e se tardavi un minuto restavi chiuso fuori. Adesso lo ringrazio perché i tempi erano duri e bisognava imparare a dar valore alle cose, anche alla parola data. Nel dopoguerra, in Italia, c’era la miseria nera. Papà era di San Severo e d’estate scendevamo in Puglia. Quando andavamo in pellegrinaggio da Padre Pio, a San Giovanni Rotondo ci arrivavamo con il carretto e l’asinello. Non c’era niente. Un mio fratellino morì per una stronzata a 7 mesi. Una semplice bronchite che in mancanza di un antibiotico si rivelò fatale. Me lo ricordo ancora, steso sul tavolo, tutto vestito di bianco. Che estati erano? C’era un’unica stanza da letto al pianterreno. Ci dormivamo in 15 con le bestie intorno e il ciuco che di notte ragliava e scorreggiava. Mangiavamo pane, olio e pomodoro. Il sapore di quei pomodori e di quell’olio non l’ho mai più ritrovato. Suo padre era contento di saperla attore? Mi voleva ufficiale dei carabinieri. Avevo iniziato a studiare Economia alla Cattolica guadagnandomi da vivere appena maggiorenne alla Edison Volta con Ermanno Olmi: ‘Che ci fai qui? – mi diceva – vuoi fare cinema? Vai a Roma, di corsa’. L’ufficio non faceva per lei? Ero il peggior impiegato della storia. Frequentavo quando potevo la scuola del Piccolo Teatro e di sera cantavo nelle balere della bassa con il mio complessino, gli Hurricanes. Tornavo all’alba e andavo alla Edison con gli occhiali neri. Per dormire. Il principale era perplesso: ‘Sparanero, che stai facendo?’. E io pronto: ‘Sto pensando’. Come finì? Dopo molti rinvii, arrivò la chiamata dello Stato. All’epoca il servizio militare durava 18 mesi. Mi avevano appena fatto balenare la possibilità di partecipare al mio primo film, Pelle Viva e la leva mi gettò nello sconforto. Cercai di fuggire dalla prospettiva e trovai un medico napoletano, un militare, di stanza a Parma: ‘Ti aiuto io’, mi disse e mi consegnò una lettera per un suo amico e collega di San Giorgio a Cremano, luogo previsto per il Car. Arrivai in Campania, lo trovai e, simulata una colica renale, ottenni da lui la lastra di un altro. La diagnosi era ‘ulcera’. Durante i tre mesi di convalescenza, intrattenendo un amore platonico con una suora, andavo e venivo da Roma. Avevo trovato un tugurio in via del Boschetto, un 6° piano senza ascensore, alzando due lire come assistente fotografo. Proprio un fotografo della De Laurentiis, incontrandomi per caso, mi aveva fatto alcuni primi piani che per miracolo erano finiti sul tavolo di John Huston. ‘I want to see this boy’, aveva detto e così mi ero ritrovato nella suite di un albergo romano, con il vocione del regista che mi intimava di spogliarmi interamente. Mi rivestii. ‘Now you can go’. Mi aveva scelto per La Bibbia. L’ipotesi che la pacchia finisse da un momento all’altro, proprio mentre il lavoro iniziava a marciare, mi deprimeva. Ma quando arrivò l’occasione di Huston, il mondo mi crollò letteralmente addosso. Come risolse la questione della divisa? Con un altro consiglio del medico: ‘Alla fine dei 3 mesi di convalescenza – suggerì – ti faranno una visita dandoti da bere un liquido bianco. Prima di ingerirlo manda giù qualche chicco di caffè’. Eseguii e sulla lastra apparvero alcune macchie nere. Altri mesi di pausa. Era fatta. A portare La Bibbia sullo schermo, De Laurentiis pensava fin dal 1960. Fu una lavorazione eterna. Restammo sul set per più di due anni, per tacere della faticosa preparazione e dell’infinita postproduzione. A Huston devo tutto. Mi ha insegnato l’inglese regalandomi i dischi con i testi di Shakespeare che riascoltavo e imparavo a memoria e mi ha difeso come un figlio. De Laurentiis mi aveva fatto firmare un contratto per il quale, fino all’uscita de La Bibbia, non avrei potuto girare null’altro. Huston lo venne a sapere e si infuriò. Fece irruzione nello studio di Dino trascinandomi per un braccio e lo prese a male parole. Il concetto più gentile era ‘son of a bitch’. E De Laurentiis come reagì? Volarono i vaffanculo. Dino lo assecondò e stracciò il contratto, ma si legò al dito l’episodio. Nonostante il trionfo mondiale di Camelot, con lui non ho mai più lavorato. Con chi altri non ha lavorato? Con Luchino Visconti. Mi voleva conoscere e voleva che andassi a casa sua. Non mi fidavo. Dissi al mio agente di organizzare l’incontro in ufficio. Mi guardò come un pazzo: ‘Ma quello è Visconti e tu non sei nessuno’. ‘Allora resto nessuno – dissi –, ma almeno non mi dovrò mettermi le orecchie di plastica’. Le orecchie di plastica? Nel nostro ambiente si diceva che le evoluzioni con Delon fossero così circensi che a forza di tirargli le orecchie, Alain aveva dovuto sostituire i suoi lobi con un paio di lobi di plastica. Camelot di Joshua Logan conquistò tre premi Oscar. A Logan, che aveva lavorato con Marilyn Monroe e Marlon Brando, ma per Camelot non voleva le solite facce celebri, mi propose proprio Huston. Il nostro primo incontro non fu felice. Ero in Abruzzo, su un set di Fulci e mi precipitai a Londra dove arrivai abbastanza rintronato. Parlammo a lungo e alla fine Joshua mi espresse il suo punto di vista: ‘Saresti un ottimo Lancillotto, ma non parli abbastanza bene l’inglese’. Mi accompagnò alla porta e lì, sull’uscio, mi venne il guizzo: ‘Ma conosco Shakespeare a memoria’. Iniziai: ‘All the world’s a stage/ And all the men and women merely players…’, e non mi fermai più. Logan impazzì: ‘Se sai recitare Shakespeare, saprai dire anche due battute in un film’. Venni ingaggiato così. In Camelot lavorò con Vanessa Redgrave, la madre di suo figlio Carlo. All’inizio la ignorai. Logan me la fece vedere passeggiando lungo un vialone della Warner: ‘L’attrice è quella’. Non era ancora uscito Blow-Up e Vanessa, che aveva girato soltanto Morgan matto da legare, era semi sconosciuta. Senza trucco, con i jeans strappati e gli occhiali da vista mi parve brutta. Il giorno dopo, in camerino, trovai un biglietto scritto in italiano. Vanessa mi invitava a una festa nella sua casa di Los Angeles. Arrivai alla porta e mi venne ad aprire una dea: ‘Forse mi sono sbagliato, cercavo la signora Redgrave’. Era lei. Ed è stato un grande amore. Sa di essere uno degli attori più conosciuti al mondo? Sono stato fortunato. Ho interpretato personaggi di oltre 30 nazionalità differenti, in decine di Paesi diversi. Ho fatto il mestiere che amavo e ho lavorato con maestri come Laurence Olivier. Era già vecchio e malato e mi si avvicinò in una pausa per chiedermi di aiutarlo. Voleva andare a trovare un amico negli Studios di Pinewood, ma da solo non ce la faceva. Me lo caricai sulle spalle. Mi diceva che somigliavo a lui quando era giovane: ‘Vuoi fare l’attore o la star?. Quello che rischia o quello che fa un film l’anno sempre con la stessa espressione?’. Sente di aver rischiato? Sento di aver fatto quel che mi sentivo. Ho rifiutato tanti film, da Lo chiamavano Trinità, che il regista Enzo Barboni – già direttore della fotografia in Django – mi proponeva tenendo un copione sotto l’ascella passeggiando per le vie di Madrid: ‘Lo devi fà, Franco, devi fà ‘sto film che voglio senza morti, pe’ fa ride, pieno solo di tante scazzottate’, a Il Giardino dei Finzi Contini. Per Trinità scelsero Terence Hill, per i Finzi Contini cambiarono direttamente tutto il cast. Come andò? Gianni Hecht, il produttore, fece una scorrettezza e tolse il film a Zurlini per darlo a De Sica. Il gesto non mi piacque e comunicai la mia rinuncia. Altre volte, nel dire di no, suggerivo le alternative. Giuseppe Patroni Griffi mi aveva chiesto di recitare in Metti una sera a cena, ma all’epoca non potevo. Volonté, chiamato proprio come me, era riottoso e rinunciò: ‘Mi sembra soltanto una storia di froci’. Patroni Griffi era in difficoltà e così feci scivolare il nome di Tony Musante. L’avevo visto in New York: ore tre – L’ora dei vigliacchi e mi aveva entusiasmato tanto da consigliarlo a Corbucci per Il Mercenario. Con Patroni Griffi, Musante fu una rivelazione, ma purtroppo, trascorsi pochi anni, Tony si montò la testa. Mi ritrovai a lavorare con lui su un film di Pasquale Squitieri e si comportò da divetta. Voleva essere il primo nome sui manifesti, una delusione. Tomas Milian sostiene che sul set di Vamos a matar compañeros l’atmosfera fosse elettrica. Oggi adoro Tomas e gli voglio bene, ma all’epoca era un ragazzo selvaggio. Io stavo con Vanessa e lui, che forse aveva qualche complesso, faceva delle cose stupide. Entrava nell’inquadratura quando non avrebbe dovuto. Esagerava. Si mostrava ostile. Si dice persino che qualche scena che non finì nel film, perché si era smarrito il materiale, l’avesse fatta sparire direttamente lui. Non ci ho mai creduto, ma resta il fatto che ce le siamo date di santa ragione in un fiume. Mi finì un vetro sotto pelle, mi dovetti operare, un dolore infernale. Ne porto ancora i segni addosso. Nella sua vita ha guadagnato tanto? Moltissimo, anche se dei soldi non mi è mai importato nulla e nell’84 scoprii che il commercialista che gestiva il mio patrimonio l’aveva fatto sparire nel nulla. Altri si sarebbero suicidati, io ho ricominciato da zero. È felice di quel che ha fatto? Ho incontrato re, regine e governanti. Contadini e pescatori. Ho sempre preferito i secondi. Sono più saggi. Sono più simpatici.