VARIE 16/10/2016, 16 ottobre 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - VERSO MOSUL DABIQ - Le forze ribelli siriane appoggiate dalla Turchia hanno liberato la città di Dabiq, fino ad oggi nelle mani dello Stato Islamico
APPUNTI PER GAZZETTA - VERSO MOSUL DABIQ - Le forze ribelli siriane appoggiate dalla Turchia hanno liberato la città di Dabiq, fino ad oggi nelle mani dello Stato Islamico. Le forze dell’Esercito siriano libero (Fsa) hanno riconquistato anche la vicina città di Soran. Entrambi i centri si trovano a nord di Aleppo. La città di Dabiq è particolarmente importante sia per la posizione strategica tra Aleppo e il confine turco-siriano sia perché la città è il luogo dove, secondo una profezia, avverrà lo scontro finale tra islam e infedeli, con la vittoria dei musulmani. Intanto in Iraq si prepara l’offensiva per liberare Mosul. In una riunione con il premier iracheno, Haider al-Abadi, sono stati decisi i numeri delle forze in campo che si affiancheranno all’esercito iracheno. L’offensiva vedrà anche il tentativo di riprendere al Hawija, città della provincia di Kirkuk. Le milizie sciite parteciperanno con novemila uomini, e anche i peshmerga curdi - nonostante l’opposizione del governo di Bagdad - parteciperanno all’attacco, come ha assicurato il presidente della regione autonoma del Kurdistan, Massoud Barzani. Secondo Barzani i preparativi dell’offensiva sono ormai terminati. Nuovi rifornimenti sono giunti dalla capitale irachena nella zona della diga di Mosul, che è una delle tre direttrici dalle quali partirà l’offensiva. VINCENZO NIGRO DABIQ è un luogo simbolico per l’Islam, lo scenario in cui secondo le profezie sarebbe dovuta avvenire la battaglia finale tra le forze dell’Islam e quella dei bizantini (cristiani) nel giorno dell’Apocalisse. Per questo l’Isis l’aveva occupata anche se è un centro marginale in Siria. E per questo aveva intitolato ’Dabiq’ la sua rivista, il magazine patinato tradotto in molte lingue che per mesi ha diffuso i messaggi e l’ideologia del califfato al mondo. Dabiq, come previsto nelle ultime settimane, è caduta sotto la spinta dei ribelli siriani appoggiati dall’esercito turco. La settimana scorsa l’istituto di analisi dei rischi Ihs di Londra aveva previsto la sconfitta delle milizie del califfato, e aveva diffuso uno studio su quanto territorio l’Isis ha perso negli ultimi mesi. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ihs Conflict Monitor, nei primi 9 mesi del 2016 il territorio controllato dal gruppo terroristico in Siria-Iraq si è ridotto del 16 per cento. Già nel 2015 il califfato si era ridotto da 90.800 chilometri quadrati a 78mila, con una perdita di territorio del 14 per cento. Nei primi nove mesi di quest’anno, il territorio Isis è sceso da 78mila chilometri quadrati a 65mila, una superficie simile a quella dello Sri Lanka. Le perdite dell’Isis hanno subito un rallentamento negli ultimi tre mesi: da luglio l’Isis ha perso il controllo solo di 2mila e 800 chilometri quadrati di territorio. Secondo gli analisti dell’Ihs il rallentamento sembra coincidere con la riduzione del numero di attacchi aerei della Russia contro obiettivi del Califfato. All’inizio dell’anno, circa il 26% dei raid russi aveva come obiettivo postazioni dell’Isis, ma in estate questa percentuale è scesa al 17%. "In settembre il presidente Putin ha detto che la missione della Russia era combattere il terrorismo internazionale e in particolare lo stato islamico", dice Alex Kokcharov, principale analista di Ihs Russia. "I nostri dati suggeriscono che non è così, la priorità della Russia è quella di fornire sostegno militare al governo di Assad e, molto probabilmente, trasformare la guerra civile siriana da un conflitto multi-partitico a un conflitto a binario unico, tra il governo siriano e gruppi jihadisti come lo stato islamico". Secondo Ludovico Carlino, un altro analista dell’Ihs che segue la guerra civile in Siria, negli ultimi mesi però l’Isis ha perso alcune parti strategiche del territorio che controllava. "Innanzitutto è stato perduto quasi del tutto il contatto diretto con il confine turco, il che significa che il flusso di combattenti e rifornimenti dalla Turchia è diventato molto più complicato". Nella zona di Aleppo i gruppi di ribelli sostenuti dalla Turchia hanno spinto i jihadisti a ritirarsi di almeno 10 chilometri dal confine turco-siriano. Ma torniamo alla città di Dabiq e alla rivista che aveva quel nome. Anche in previsione della sconfitta, lo Stato islamico da tempo aveva deciso di cambiare titolo al suo magazine. Come ha notato Fabio Nicolucci, un analista italiano che segue la galassia jihadista parlando l’arabo, il 6 settembre è uscito il primo numero di ’Rumiya’, il nuovo magazine dell’Isis. Una rivista che sfortunatamente per l’Italia nel nome richiama una traslitterazione del nome di Roma. Nicolucci si chiede se la scelta di questo nome possa essere una diretta minaccia a Roma come capitale del cristianesimo, e nota che l’analisi di molta della pubblicistica del califfato non sempre fa coincidere messaggi mediatici con l’effettiva organizzazione di strutture militari dedicate ad applicare quanto professato nei titoli o negli articoli. In ogni caso dopo Dabiq anche ’Rumiya’ andrà letta con interesse, perché per l’Isis, ricorda Nicolucci, "la propaganda ideologica è quasi più importante delle conquiste militari, e dunque una nuova rivista è in ogni caso un segnale assai significativo". I COLLOQUI DI LOSANNA LOSANNA - I colloqui di Losanna sulla Siria, che hanno coinvolto Russia, Stati Uniti e sette Paesi mediorientali, si sono conclusi dopo quattro ore e mezza senza nuove intese. Il segretario di Stato americano John Kerry aveva invitato nella città svizzera il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, a tre settimane dal fallimento del cessate il fuoco che avevano negoziato e che molti avevano visto come l’ultima speranza di pace di quest’anno. La riunione non è stata un incontro a due, ma ha coinvolto Iran, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Iraq, Giordania ed Egitto, includendo i principali sostenitori di governo siriano e ribelli. Fonti diplomatiche, a seguito degli incontri, hanno affermato che l’obiettivo non era tanto raggiungere un’intesa, quanto esplorare i vantaggi del coinvolgimento di Paesi chiave nella regione in funzione di un accordo per il cessate il fuoco in Siria. Dopo i colloqui, Lavrov ha detto ai media russi che i contatti continueranno nel prossimo futuro e che sono emerse "alcune idee interessanti", che "potrebbero avere un impatto sulla situazione". Ha anche affermato che tra i partecipanti c’è stato favore sull’avvio di un processo politico il prima possibile nel Paese in guerra. Kerry, da parte sua, ha parlato di colloqui produttivi e di un franco scambio di idee, ma anche di "momenti tesi e difficili". I partecipanti, secondo l’americano, hanno trovato consenso su varie possibilità, che potrebbero portare a un cessate il fuoco. Prima dei negoziati, il portavoce del dipartimento di Stato americano, Mark Toner, aveva lasciato intendere che a Losanna non era attesa una svolta per il conflitto, ormai al sesto anno. "Non so se aspettermi una svolta. Direi semplicemente che stiamo lavorando per mantenere funzionante questo sforzo e approccio multilaterale sulla Siria", aveva detto. E ieri il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bodganov, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa russa Ria, aveva riferito che a Losanna si sarebbe discusso anche del rilancio del cessate il fuoco. La pressione cresce per porre fine a tre settimane di feroce offensiva del governo siriano, sostenuto dalla Russia, per riprendere la zona orientale di Aleppo, in mano ai ribelli. Le Nazioni unite hanno avvertito che ad Aleppo est vivono ancora 275mila civili e 8mila ribelli che stanno resistendo alle forze siriane sostenute da Russia e Iran. Le potenze occidentali hanno accusato Russia e Siria di commettere atrocità bombardando ospedali, uccidendo civili e ostacolando le evacuazioni mediche, nonché di avere preso di mira un convoglio di aiuti umanitari, il che è costato la vita a circa 20 persone. Siria e Russia, dal canto loro, ribattono che ad Aleppo prendono di mira soltanto militanti e accusano gli Stati Uniti di avere violato il cessate il fuoco bombardando decine di soldati siriani che combattevano contro lo Stato islamico, episodio per il quale gli Stati Uniti hanno espresso "rammarico". Le Nazioni unite hanno fatto sapere che cibo, carburante e medicine stanno finendo ad Aleppo est e che dall’inizio di novembre non ci saranno più razioni da distribuire. In un gesto di apparente disperazione, l’inviato speciale Onu per la Siria, Staffan de Mistura, giorni fa ha offerto la possibilità di scortare fuori da Aleppo i membri del gruppo militante islamista Jabhat Fateh al-Sham, precedentemente noto come Fronte Nusra, se questo potesse indurre Damasco a raggiungere un accordo di cessate il fuoco con gli altri ribelli che si trovano in città. LASTAMPA NUOVE SANZIONI Stati Uniti e Gran Bretagna stanno valutando di imporre nuove sanzioni economiche alla Russia per gli interventi ad Aleppo, la martoriata città siriana. Washington e Londra si sono espresse dopo un incontro a Londra con altri otto Paesi. Il Segretario di Stato americano John Kerry ha affermato che in Siria stanno accadendo orrori contro l’umanità su base quotidiana. Kerry e il ministro degli Esteri inglese Boris Johnson si sono detti speranzosi su uno sforzo diplomatico ma puntano anche a aumentare la pressione sulla Russia e sulla Siria per fermare i raid su Aleppo, e in questo senso hanno anche citato le sanzioni economiche. «Eventuali sanzioni contro la Russia sarebbero controproducenti», ha replicato il presidente russo Vladimir Putin, secondo quanto riportato dall’agenzia Interfax. «Le sanzioni degli Stati Uniti non risolvono nulla (la crisi in Siria, ndr) sono soltanto mirate a contenere la forza della Russia. E non raggiungono mai lo scopo», ha aggiunto il leader del Cremlino che ha parlato oggi pomeriggio in India prima che da Londra arrivasse la notizia che Usa e Gran Bretagna stanno pensando alle nuove sanzioni. LASTAMPA.IT L’esercito siriano libero (Fsa), una delle forze di opposizione a Bashar al-Assad appoggiate dalla Turchia, ha riconquistato le città di Dabiq e Soran, controllate fino ad ora dall’Isis, a nord di Aleppo. Secondo uno dei responsabili della brigata Hamza, i combattenti dell’Isis hanno opposto una resistenza «minima» per difendere la città, ad alto valore simbolico, questa mattina. Anche l’osservatorio siriano per i diritti umani ha confermato che i jihadisti hanno lasciato la città. La propaganda dell’Isis aveva preannunciato violenti scontri tra `crociati´ e miliziani del califfato, ma che in realtà non si sarebbero verificati. GOLPE MANCATO A TRIPOLI Ancora scontri a Tripoli dopo il tentato golpe di ieri da parte delle milizie legate all’ex premier Khalifa al-Ghwell. Questa mattina gli islamisti hanno attaccato con armi leggere e lanciarazzi la base navale di Busitta, dove c’è una delle residenze del premier riconosciuto dalla comunità internazionale Fayez al-Serraj. Non ci sono notizie di vittime. Ieri le milizie avevano occupato per alcune ore la sede del Consiglio di Stato e lanciato proclami alla tv ma poi erano state costrette a ritirarsi dagli uomini di Al-Serraj. Il governo e il Consiglio di Stato hanno dato ordine di arrestare i golpisti, compreso Al-Ghwell. L’ex premier libico Khalifa al-Ghwell tenta golpe anri-Sarraj Conflitti a fuoco sono avvenuti anche in altre zone della città e in queste ore si combatte vicino alla sede della Sesta brigata nell’area di Zawia al Dahamani. La Sesta brigata, conosciuta come Sitta (sei in arabo), risponde a Abdelhakim Belhaj, l’ex comandante di Al-Qaeda in Afghanistan, arrestato dalla Cia nel 2004, consegnato a Muammar Gheddafi e poi rilasciato dallo stesso rais nel 2010. Belhaj è stato fra i protagonisti della rivoluzione del 2011 a Bengasi. Da Bengasi Belhaj si è spostato a Tripoli nel 2012 e ha finora tenuto un basso profilo. Al-Serraj sta cercando di sostituire le milizie con forze di sicurezza statali e questa potrebbe essere una battaglia decisiva per il consolidamento del suo potere, ancora molto precario. MOLINARI SULLA STAMPA DI STAMATTINA La sfida di Mosul fra le potenze del medioriente Maurizio Molinari La battaglia che incombe su Mosul riassume le trasformazioni del Medio Oriente e il suo esito potrebbe avere conseguenze di lungo termine. Situata nel Nord dell’Iraq, con una popolazione di circa 700 mila anime divisa quasi a metà fra sunniti e curdi, Mosul è la più grande città dello Stato Islamico (Isis). E’ da qui che Abu Bakr al-Baghdadi annunciò il 29 giugno 2014 la creazione del Califfato: difenderla per i jihadisti è prioritario al punto che proprio al-Baghdadi la definisce «il cuore del Califfato» ordinando di «combattere fino alla morte» ai suoi miliziani, stimati fra 5000 e 10 mila unità. Il governo iracheno di Haydar al-Abadi la vuole riconquistare con l’intento opposto ovvero «estirpare il cancro di Isis dalla nostra nazione» e Barack Obama lo sostiene, con uomini e armi, per assestare un colpo mortale al Califfato prima di lasciare la Casa Bianca. Ma il campo di battaglia dello scontro che incombe descrive uno scenario assai più vasto che rispecchia la sovrapposizione di interessi e potenze rivali. A Sud di Mosul, nella base di Qayyarah, c’è il quartier generale delle truppe irachene affiancate da contingenti di Stati Uniti e Francia. Il Pentagono ha qualche centinaio di militari anti-terrorismo, più aerei e droni mentre Parigi schiera l’artiglieria. Ciò significa che americani e francesi vogliono dare alle truppe di Baghdad il sostegno tattico decisivo per espugnare la città, puntando a trasformare la liberazione di Mosul nel maggior successo terrestre della coalizione anti-Isis finora assai carente nei risultati. È una scelta condivisa da altri alleati, inclusa l’Italia che protegge la diga di Mosul. Ma poiché Baghdad è guidata da un governo molto sensibile agli interessi di Teheran, fra i contingenti schierati attorno alla città ci sono migliaia di volontari di milizie sciite che rispondono in ultima istanza agli ordini di Qasem Soleimani, il generale iraniano alla guida della Forza Al-Qods diretta espressione dell’ayatollah Ali Khamenei. Il Pentagono ha chiesto a Baghdad di impiegare le milizie sciite solo nelle «aree rurali» per evitare che l’entrata nei quartieri sunniti o curdi inneschi faide interetniche. I leader sunniti di Mosul, come l’ex governatore Atheel al-Nujaifi, avvertono: «L’assalto alla città può innescare la disintegrazione dell’Iraq» con la definitiva separazione fra sunniti, sciiti e curdi. Ma non è tutto perché le forze che concretamente cingono d’assedio - a Nord, Sud ed Est - Mosul sono i peshmerga curdi espressione del Governatorato del Kurdistan iracheno che vogliono da un lato sconfiggere il Califfato e dall’altro assicurarsi il controllo di quartieri e popolazione curda, ipotecando così l’estensione dei propri territori alla provincia di Ninive. In alcune aree le trincee curde e jihadiste sono separate da poche centinaia di metri, evocando la Prima Guerra Mondiale, e sul lato peshmerga i combattenti si alternano a fabbri, panettieri, autisti e impiegati pubblici dando l’immagine di un esercito di popolo. Ad osservare con timore il posizionamento di curdi e sciiti a ridosso di Mosul sono le truppe di Ankara, che alle pendici del Monte Bashiqa hanno cinquecento uomini, sostenuti da tank e blindati, e addestrano proprie milizie sunnite irachene. Per la Turchia di Recep Tayyp Erdogan la città di Mosul - che per circa 500 anni è stata dominio ottomano - deve «restare sunnita», come spiega l’analista Aykan Erdemir, per evitare lo scenario che teme di più: la nascita di un Kurdistan indipendente ai propri confini meridionali. La conseguenza è nella volontà di Erdogan di partecipare all’attacco a Mosul per ipotecarne la spartizione mentre il governo di Baghdad vi si oppone con tutte le forze, temendo la nascita di un protettorato sunnita sotto l’influenza turca. Ecco perché la sorte di Mosul è un crocevia del Medio Oriente: sono in gioco la sorte del Califfato, l’unità dell’Iraq, il sogno del Kurdistan, la creazione di sfere di influenza turca e iraniana, la credibilità della coalizione occidentale anti-Isis e una buona parte dell’eredità strategica di Obama. Senza contare il rischio, secondo stime Onu, di una marea umana di profughi. Nulla da sorprendersi se un giocatore di poker come il leader russo Vladimir Putin rimane alla finestra dalle sue basi nella confinante Siria, puntando a sfruttare qualsiasi imprevisto. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI pag. 1 di 3