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 2016  ottobre 14 Venerdì calendario

CHE SPETÂCUEL, RAGÂZ


[Lucio Cecchinello]

Mi innamorai subito. Prima di allora non avevo mai visto una moto da corsa così da vicino, non avevo mai sentito il rombo. Mi innamorai completamente. Era il 1986, e io ero un ragazzo di diciassette anni che andava in giro con la vespa truccata, nato a Venezia ma cresciuto a Bologna, in Romagna, nella così detta Motor Valley, in un periodo in cui il Motor Show era l’evento motoristico più importante, non solo in Italia. Certo questo mi influenzò, ma fu per caso che venni a sapere di quella gara a Castel San Pietro, una gara di accelerazione organizzata dal Motoclub del luogo. Per la prima volta vidi Domenico Brigaglia, Pierluigi Aldrovandi, Pierfrancesco Chili con le loro MBA 125 su quel rettilineo, e mi innamorai subito, completamente, delle moto da corsa, e del mondo che vi ruotava attorno. Era naturale che volessi fare del tutto per entrarci anch’io. Così quello stesso anno andai da un pilota che conobbi proprio a Castel San Pietro, un certo Daniele Gnugnoli, che correva nel trofeo Honda, e gli dissi: «Io vorrei aiutarti, vorrei essere il tuo meccanico, come posso fare?». All’epoca già mettevo a posto le moto, le elaboravo, non solo le mie ma quelle di tutto il quartiere. Daniele mi rispose: «Io non ho bisogno». Ma io insistetti: «Voglio venire». «Ma io non ho bisogno!» diceva lui. Allora dissi: «Vengo gratis». Fu così che cominciai a lavorare.
La prima volta che entrai in un circuito fu a Misano, in quello stesso anno, alla gara del Trofeo Honda, e fu per me una folgorazione! Ricordo l’emozione che mi provocò vedere di persona piloti che prima potevo vedere solo sui giornali; ricordo Angel Nieto con la tuta della Ducados, Domenico Brigaglia, Pierfrancesco Chili, Loris Reggiani che vinse quella gara; ricordo Fausto Ricci, Carlos Cardus. Erano tutti miei idoli. E che emozione poter fare la foto con John Kocinsky, con Kenny Roberts! Vivevo un sogno. E dissi a me stesso: è qui che voglio passare il resto della mia vita. Ma c’era un problema: i miei genitori non volevano assolutamente che io corressi in moto. «No» mi dicevano, «è assolutamente pericoloso, no». Era una cosa proprio fuori dalla loro concezione. Mio padre fece del tutto per ostacolarmi. Lui aveva una storia particolare. Da ragazzino voleva comprarsi il Mosquito, il motore a rullo che si attaccava sulla bicicletta, ma non aveva i soldi. Quando arrivò a una condizione economica soddisfacente, già adulto, padre di famiglia, ne comprò 300. Avevamo un garage con 300 Mosquito. Collezionava tutti questi micro motori a rullo, perché rappresentavano per lui un sogno d’infanzia. E ogni tanto li metteva a posto, ogni tanto li scambiava, e poi cominciò a collezionare moto d’epoca. Mi coinvolgeva, mi insegnava a usare gli attrezzi, ad aprire i motori, a pulirli, a rimetterli a posto. È da lì che cominciai a usare gli attrezzi, è grazie a lui. Ma di corse non voleva sentirne parlare. Oggi riconosco che è stata una figura fondamentale per la mia vita, ma allora vivevo molto male il suo divieto. Tuttavia insistevo, perché volevo correre, era la cosa che desideravo di più, e alla fine, a forza di rompergli le scatole, cedette: «Va bene, se vuoi correre in moto lo puoi fare, ma prima devi finire la scuola – a quell’epoca frequentavo l’istituto elettrotecnico a Bologna – e quando sarai diplomato potrai correre. Ma sappi che noi non ti aiuteremo, mai, e se vuoi vivere in questa casa dovrai pagare l’affitto».
All’inizio fu molto difficile. Mi ritrovai a pagare tre milioni delle vecchie lire all’anno d’affitto in un momento in cui non avevo niente. Fu difficile. Anche perché avevo l’esempio di tanti altri miei amici i cui genitori davano loro tutto ciò che volevano. Mentre io per comprarmi il Ciao dovetti andare a fare il barista a Gardaland. La mia fortuna fu che avevo fatto il meccanico e ne capivo di motori. Così conobbi diversi piloti nella zona di San Lazzaro, entrai in contatto prima con Dario Marchetti, diventando suo meccanico e condividendo con lui avventure straordinarie, e poi con l’officina di Pierluigi Aldrovandi, dove feci il meccanico a Loris Capirossi, Alessandro Gramigni, Emilio Cuppini e tanti altri. Finché, nel 1989, decisi di iniziare a correre. Fu un passaggio molto importante nella mia vita. Il problema, naturalmente, erano i soldi. Cosa fare? Avevo una moto Honda da strada, che però era la stessa moto che potevi utilizzare per andare a fare le gare di Sport Production. Allora pensai: vendo la moto alla mia ragazza – perché la mia ragazza era di buona famiglia e all’epoca voleva prendersi il patentino – così con i soldi che mi dà ci pago la licenza, compro la tuta, pago la prima gara, dopodiché le richiedo la moto in prestito perché è la mia ragazza e non può dirmi di no! Così andò: gliela vendetti e lei me la riprestò per correre. Andai a fare la prima gara a settembre, di nascosto dai miei genitori, era il settembre dell’88, Trofeo Paolo Tordi, a Misano. Lo schieramento di partenza era a sorteggio, perché era una gara che si organizzava la domenica mattina. Tiro su il mio biglietto e che posizione esce? Ultimo, 34esimo! Ma fu una bella gara, perché riuscii a rimontare fino in seconda posizione; anche se poi, mentre lo stavo passando, quello che era in testa mi chiuse la traiettoria e alla Curva del Carro caddi.
Accadde però che una persona del motoclub di San Giovanni in Persiceto, Paolo Rizzati, mi vide, venne da me. Avevo un furgoncino Fiat 238 a metano, l’avevo comprato da un demolitore per 500 mila lire e rimesso a posto; ci dormivo dentro con il materassino gonfiabile, mi cibavo di scatolette di tonno con i grissini. «Stiamo cercando dei piloti» mi disse quell’uomo. «Hai fatto una bella gara; ma chi sei? Di dove sei? Sei già socio di un motoclub?». Io dissi di no. «Allora vieni, ti possiamo aiutare» disse lui. Andai a San Giovanni qualche giorno dopo, mi fecero la tessera del Motoclub, e da lì trovai il primo sponsor, Graziano Tattini con il barbiere BG Acconciature, che mi dava 100mila lire a gara. Nella zona di San Giovanni in Persiceto c’erano tantissimi artigiani e piccoli imprenditori, gente che a fine anni Ottanta possedeva aziende che andavano abbastanza bene, ed erano tutti appassionati di corse. Durante le cene del Motoclub facevano la colletta: chi metteva 100mila lire, chi 50mila. Tornavo a casa con un milione, un milione e mezzo. Erano soldi che mi aiutavano a pagare le gare. Perché io nel frattempo lavoravo in una officina di moto a Baricella, un paesino in provincia di Bologna. Con quel lavoro mi guadagnavo da vivere, c’era da pagare l’affitto. Un giorno il titolare mi disse: «Tu devi capire, il tuo futuro è qui in officina, stai prendendo le corse troppo seriamente. Non puoi andare via il mercoledì per la gara: vai via il sabato mattina, al limite, ma non il mercoledì». Impossibile. Così mi mise alle strette: «Se vuoi continuare a lavorare qui, o ti adegui o domattina puoi anche restare a casa». Quella notte non dormii. Non potevo restare senza lavoro. Ma non potevo neanche rinunciare alle corse. La mattina dopo tornai da lui e dissi: «Sto a casa, perché io voglio correre». E lui mi disse: «Ah, hai visto un bel mondo» come a dire che ero un illuso.
Cercarmi un altro lavoro da dipendente non potevo, perché non è che quando lavori in un posto puoi andartene via il mercoledì e tornare il lunedì successivo. Pensai che dovevo trovare a tutti i costi uno sponsor. Sapevo di un’azienda vicino a casa mia che costruiva macchine per lavori stradali, si chiamava Bitelli e sponsorizzava la squadra di calcio locale. Sapevo che il titolare era un appassionato di motori, e sapevo che, oltre a una Ferrari, aveva anche una Ducati. Così cominciai a telefonare in azienda dicendo che volevo parlare con il signor Bitelli – ero solo un ragazzo, un po’ sfrontato, sì, ma solo un ragazzo. La prima volta mi dissero che era in riunione; la seconda dissero: «In questo momento non può»; la terza dissero che era negli Stati Uniti. L’avrò chiamato 50 volte. Un bel giorno, la 51esima volta, me lo passarono, forse li avevo sfiniti! Mi presentai, dissi che ero un pilota e facevo la Sport Production. «Sto cercando qualcuno che mi possa aiutare». Ero certo che mi avrebbe mandato al diavolo. Invece disse: «Va bene, vieni domani». Arrivai in azienda col mio furgoncino, ero teso, emozionatissimo. Avevo portato tutti gli articoli di Motosprint dove si parlava di me, perché già avevo vinto qualche gara nella SP, erano tutti belli impaginati, con le foto della moto. Quando entrai nel suo ufficio il signor Bitelli rimase a guardarmi negli occhi e disse: «Tu meriteresti di essere sponsorizzato solo per la costanza che hai avuto a chiamarmi». Allora gli spiegai tutto e lui alla fine disse: «Ma qui, per mettere la mia scritta sulla moto, quanto costa?». Mi colse impreparato, perché onestamente non pensavo di arrivare subito a discutere di soldi. Mentre mi guardava aspettando una risposta, io pensavo: quanto gli chiedo?, un milione, delle vecchie lire, naturalmente? Due milioni? No, due sono troppi, non posso esagerare! Ma poi mi dissi: Lucio, trova il coraggio e chiedigliene due, e in quel momento cominciai a balbettare dddd... mi interruppe prima che iniziassi a pronunciare la parola: «Dieci milioni?» disse. E io: «Emhhh... sììì?!?». Tirò fuori il blocchetto e mi fece un assegno da 10 milioni dicendo: «Vai!». Non riuscivo a crederci, ma andò proprio così. Solo due mesi prima in officina guadagnavo 6mila lire l’ora, e adesso avevo trovato una persona straordinaria – che purtroppo non c’è più – che mi aveva appena staccato un assegno da 10 milioni di lire!
Poco dopo tornai da lui in azienda e gli chiesi se non dovessi firmare un contratto, adesso che avevo preso i soldi, fare una fattura. «No. Non ho bisogno di niente del genere» disse. L’anno dopo correvo ancora, feci il primo anno del Campionato europeo nel Team Italia e, senza che io gli chiedessi niente, Sandro Bitelli mi preparò un altro assegno da 20 milioni. L’anno successivo avevo le possibilità economiche di fare a meno del suo aiuto e gli dissi che avrei messo ugualmente il suo marchio sulla moto però stavolta non volevo niente. «Non serve» disse lui. Allora io gli chiesi: «Ma perché lo fai? Non ti interessa il contratto, né la fattura; non ti interessa se il Team Italia ti dà lo spazio, non vuoi nemmeno mettere il marchio. Non riesco a capire perché mi dai questi soldi!». Lui allora mi guardò fisso: «Adesso ti dico una cosa» disse. «Quanti anni hai tu?». Risposi: «Ventuno». «Ebbene» continuò lui, «ventuno anni fa ho perso un figlio che se fosse al mondo vorrei tanto che fosse come te».
Da quel giorno ho sempre tenuto il suo marchio per altri 10 anni e non ho mai voluto niente. È nato una bellissimo rapporto di amicizia. Purtroppo Sandro ha avuto dei problemi cardiaci, è stato operato e poi è morto. Ma ogni volta che mi viene in mente, oltre all’affetto, non posso fare a meno di pensare che il motociclismo è qualcosa di straordinario: quando lo ami svisceratamente nascono storie bellissime, e io sono convinto che ce ne siano a centinaia di storie come la mia in questo mondo, e credo che non debbano essere perse, anzi vanno raccontate, perché sono esempi che possono essere di ispirazione per tanti ragazzi.
Qualche anno dopo debuttai al Mondiale con Gazzaniga, poi corsi con la Honda nel team Cecchini e Maronciani, compagno di squadra di Ueda, ma non andai bene; non avevo il talento di moltissimi altri ragazzi, e in più la moto non era competitiva. Tornai al Campionato europeo e, a 26 anni, lo vinsi. Adesso cosa faccio?, mi dissi. Torno a fare il pilota per qualche team privato, o provo a costruirmi una squadra mia? Decisi: mi faccio la mia squadra. Investii quei due soldi che avevo messo da parte e nel 1996 partecipai con la mia squadra al Mondiale 125. All’inizio si chiamava “Honda team GP3”, perché eravamo in tre: io e due meccanici. Ricordo che non avevo abbastanza soldi per comprare tutte le attrezzature e il camion. Ma non era facile trovarli, anzi era quasi impossibile. Non per la disperazione, ma solo per la voglia di fare, li chiesi a un mio meccanico, Paolo Cordioli, che aveva anche un negozio di moto: 60 milioni di lire... e lui me li prestò! Partimmo così per questa nuova avventura. La prima gara, nel 96, il team LCR, che sta per Lucio Cecchinello Racing, la fece in Malesia, a Shah Alam, un caldo allucinante! Due anni dopo arrivò l’opportunità di avere la Givi come sponsor, e quindi di contattare un pilota competitivo, fortissimo, simpaticissimo come Noboru Ueda. Nel 98 in squadra c’erano due piloti: io e Ueda, e io vinsi a Jarama la mia prima gara. Quei tre anni, quando ero pilota e anche team manager della LCR, sono stati i più belli della mia vita. L’essere riuscito con la mia piccola scuderia a partire, poi a ingaggiare un pilota, a vincere un Gran Premio, a salire con Ueda sul podio a Brno nel 99... era qualcosa di incredibile! E poi con lui facevamo un sacco di risate!
Ma era molto complicato fare il pilota e contemporaneamente gestire la squadra. Avevo un carico psico-fisico più pesante rispetto ad altri piloti che pensavano solo a correre. Di conseguenza perdevo in competitività, in concentrazione; ma di certo non sarei qui oggi se, in quel periodo, non mi fossi sacrificato a fare due lavori. Nel 2001 arrivò l’accordo con l’Aprilia e vinsi a Barcellona, poi in Francia e in Spagna nel 2002, poi di nuovo in Spagna e infine al Mugello. L’ultima gara che ho vinto nella mia vita l’ho vinta proprio al Mugello, nel 2003. E adesso vorrei raccontare un segreto, qualcosa che non ho mai raccontato prima. Ci sono stati dei momenti, in quel periodo, che mi hanno fatto capire che era il momento di smettere di correre. Stavo ricevendo dei segnali dal destino. Uno arrivò a Suzuka, quando ci fu l’incidente del povero Kato. Ero primo: all’ultimo giro, a tre curve dalla fine, Perugini mi passa, mi fa uno zig zag davanti, mi taglia la strada, io con il manubrio urto la sua sella e punto diritto verso il guardrail. Per miracolo rimasi in piedi: feci 300 metri sull’erba bagnata a 250 all’ora sfiorando il guardrail con la moto di traverso e non so come feci a stare in piedi. Alla fine della gara, come sempre, andai alla Clinica mobile del dottorcosta. Le parole che mi disse Claudio me lo ricorderò sempre: era appena successo l’incidente del povero Kato e lui mi disse: «Lucio, quando torni a casa vai ad accendere un cero, perché oggi ti è andata bene».
Mi fecero riflettere molto in quel momento, le sue parole. Ma nel 2003 feci altre gare, vinsi in Francia, vinsi a Jerez, poi in Italia. Qualcosa però non andava. Dopo il Mugello ero in testa al Campionato 125 a pari punti con Pedrosa. Ma poi a Barcellona ruppi un pompante della forcella e mi dovetti ritirare. Dopo Barcellona andammo ad Assen, pioveva, mi si staccò la spugna della sella e mi dovetti ritirare, perché l’acqua si era infiltrata sotto la spugna. A Donington ero secondo all’ultimo giro: caddi a tre curve dalla fine. A Brno ero primo e grippai. Poi in Portogallo: partii male, ero settimo, caddi e, mi ricordo ancora, Borsoi mi passò con le ruote sopra al casco! Allora dissi basta!, è l’ora di smettere, questi sono segnali del destino. Il momento arrivò a Valencia. Mi ricordo, finii la gara nono. Di solito è chi vince a fare il giro d’onore. Eppure io quel giorno lo feci ugualmente, cominciai a salutare il pubblico; ma non era per ringraziarli: era per dirgli addio. E lì sotto al casco scoppiai a piangere. Arrivai al box ancora in lacrime. Stoner vinse la gara e come team manager mi chiamò la Dorna a ritirare la coppa, quindi salii sul podio, avevo ancora la tuta da pilota addosso, ma salii sul podio in veste di team manager. Così è iniziata la mia nuova carriera.
Nei primi tempi mi sentivo un pesce fuor d’acqua, ero quello con la camicia da team manager al muretto dei box, e non più quello che correva in pista dentro una tuta! Una sensazione molto strana, perché sei in un altro mondo, con una prospettiva diversa, non più proiettata a 200 chilometri all’ora. Ed è una cosa che devi saper accettare, perché ci sono cose che finiscono, emozioni che non tornano, e altre nuove che arrivano. Nel 2004 con Roberto Locatelli il mio team LCR ha vinto qui al Mugello, e in diverse altre gare con Randy De Puniet. Nel 2005 Stoner ha debuttato con noi nella 250 e ci siamo giocati il Mondiale con Dani Pedrosa. Poi è arrivata l’opportunità di andare in MotoGP con Casey Stoner. Fu una trattativa difficile, perché la MotoGP è molto più impegnativa in termini organizzativi, di costi, di know how. Provai a contattare la Yamaha, per fare un team con Stoner, ma la Yamaha non confermò la disponibilità di fornire una moto in più. Così scrissi alla Honda, con cui avevo buoni rapporti, e dopo qualche settimana mi riposero: «Let’s Go!». Era perfetto. Peccato che mi mancava un milione di euro! Ma ho detto: mi butto, vado, e lo feci con la stessa mentalità del pilota che entra in un curvone veloce a tutto gas e non sa se esce. Mi sono detto: c’è un’opportunità di passare di lì, devo prenderla, perché questo è il momento, o adesso o mai più. Poi Stoner con la sua Honda ha fatto la pole position alla prima gara e l’ha fatta in modo stupendo, incredibile. E alla fine l’ho trovato, quel milione. Be’, forse 200mila euro mi mancavano, ce li ho messi di tasca mia, però i soldi li ho trovati, e pensavo: adesso che sono in MotoGP, con Stoner, la Honda, le Michelin, è tutto in discesa. Neanche a dirlo! Da quell’anno ho cominciato a prendere una botta dopo l’altra!
Adesso è tutto cambiato, le moto, i regolamenti, tutto. E adesso nel team c’è Cal Crutchlow, che è... matto come un cavallo, ma gli vogliamo molto bene. Ed è un artista, sì, un artista. E la sua gara a Brno... una favola, mi ha lasciato senza fiato. Pensare che quando dovevo prenderlo, nel 2014, mi dicevano di stare attento. Impazzirai, mi dicevano. Macché. Cal è uno che parla diretto e guida di pancia, due cose che apprezzo. In più, va come un missile.
Stare in MotoGP non è facile, soprattutto negli ultimi tempi, ma noi andiamo avanti. Penso spesso ai miei genitori, a mio padre. A distanza di anni, nonostante da ragazzo lo disapprovassi per la sua durezza, ho capito che invece ha fatto bene a mettermi in difficoltà, quando ero agli inizi, perché mi ha dato la spinta giusta e la forza per raggiungere i miei obiettivi. E poi c’era un qualcosa di straordinario nel suo modo, un insegnamento infallibile: Aiutati, che Dio ti aiuta! Questo significa che se tu credi in qualcosa e lo vuoi fermamente... be’, non so, c’è qualcosa, una forma di energia nell’universo che viene in tuo soccorso, sempre. E quindi sì, andiamo avanti.