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 2016  ottobre 14 Venerdì calendario

PESCA MIRACOLOSA


Per 177 pescherecci, sulla costa spagnola di levante, anche quando nelle reti non c’è alcun pesce, la giornata non è buttata. Perché comunque ci sono in media quattro o cinque chilogrammi di spazzatura, che grazie a un visionario madrileno di quarantacinque anni, dopo un processo di smistamento e riciclo, diverranno un filato pregiato.
Sembra una follia, e invece è il frutto del sogno di Javier Goyeneche, un imprenditore che sette anni fa, dopo la nascita del primogenito, ha deciso di vendere la sua avviata azienda di accessori per dedicarsi a qualcosa che gli riempisse non solo il portafoglio, ma anche l’anima. Parlando, un giorno, con un pescatore delle Asturie, rimase colpito dal suo racconto delle reti piene di rifiuti e di quel gesto triste che compiva quotidianamente: ributtarli in mare, “come fanno tutti”. Ecco l’idea: chiedere ai pescatori di stoccare a bordo i rifiuti per poi riportarli a terra, dove un processo di riciclo avrebbe potuto dare loro nuova vita. Non è stato facile, ma oggi ci sono tessuti prodotti esclusivamente con le bottiglie di plastica raccolte nel Mar Mediterraneo, e una collezione di moda che si chiama Ecoalf, dal nome del figlio di Goyeneche, Alfredo.
Javier, com’è andata?
«Avevo un’azienda che operava nel mondo della moda e che produceva accessori da donna, funzionava, ma nel 2009 l’ho venduta. Nel 2010 ho capito che volevo creare qualcosa di veramente ecosostenibile nella moda. E la cosa più sostenibile di tutte è smettere di usare le risorse naturali e riciclare. È davvero la soluzione ideale: creare una nuova generazione di prodotti riciclati. È il modo per dimostrare che non serve continuare a scavare sempre più in profondità per trovare nuovi fonti di energia. Possiamo trasformare i rifiuti, creando prodotti unici. Così è cominciato tutto. Il problema è stato che, all’inizio, quando ho cercato di comprare un buon tessuto riciclato, non l’ho trovato. Meglio, ne ho trovati soltanto nel mondo della moda, e comunque contenevano solo una piccola quota di materiale riciclato, il 15-20 per cento. Così ho cominciato a sviluppare tessuti e oggi ho 14 joint venture in tutto il mondo. Ne produciamo in Corea, Taiwan, Giappone, Spagna, Portogallo... partendo da differenti materiali: plastica, vecchie reti da pesca, pneumatici, cialde di caffè... Negli ultimi tre anni abbiamo sviluppato 85 tessuti. E a settembre presenteremo un filato che è una novità assoluta, perché viene prodotto unicamente con plastica pescata nell’oceano e riciclata. È perciò completamente sostenibile, qualcosa di davvero speciale. E c’è dell’altro: quando vengono lavati, i vestiti perdono micro filamenti, questo filato, invece, non perderà micro filamenti nell’ambiente. Lo presenteremo a Parigi. Le aziende potranno comprarlo per produrre tessuti, oppure potranno comprare i tessuti finiti».
È questo il tuo obiettivo: vendere tessuti?
«Non solo. Molte persone ci hanno contattato negli anni per chiederci di sviluppare tessuti per loro, e lo facciamo. Ma abbiamo anche il nostro brand, Ecoalf».
Come funziona la raccolta?
«Credo che “Upcycling the Oceans” sia un progetto fantastico. Per ora abbiamo convinto a collaborare 177 pescherecci, tra Vinaroz, Valencia e Castilla, per un totale di 11 porti. Ognuno di loro, recupera dal mare da quattro a sei chili di rifiuti al giorno, per un totale di quasi una tonnellata. I rifiuti vengono stoccati prima nell’imbarcazione e poi nel porto. Una volta la settimana noi li raccogliamo portandoli in un capannone. Qui vengono classificati in base ai materiali: plastica, vetro, alluminio. La plastica delle bottiglie la trasformiamo in tessuti, sempre in Spagna, tutto nel raggio di 300 chilometri. La tracciabilità è stupefacente. Credo che sia stato molto importante quando abbiamo cominciato a vendere i tessuti prodotti in questo modo, perché le persone hanno potuto rendersi conto di cosa significa riciclare e di quale sia davvero l’importanza della ecosostenibilità. Ora stiamo cercando di spostare tutta l’azione verso nord, in modo da unire Girona con Gibilterra. È qualcosa di ambizioso: parliamo di 40 porti, per un totale di 600-700 imbarcazioni».
Usi solo le bottiglie per produrre i tessuti?
«Al momento sì».
Bottiglie che provengono unicamente dalle reti dei pescatori?
«Esatto, dalle reti. Rifiuti che prima venivano ributtati in mare, e ora vengono messi in piccoli container per essere riciclati».
Un modo per ripulire l’oceano.
«Non è questo il punto. Una tonnellata al giorno è davvero una piccola quantità. Ogni anno, finiscono nell’oceano 8 milioni di tonnellate di plastica. L’80% proviene dalla terra ferma. Quello che noi dobbiamo fare, è cercare di evitare che la plastica arrivi all’oceano. Alle foci dei fiumi si potrebbero mettere delle reti che blocchino i rifiuti. Il 60% di questa spazzatura arriva dall’Asia, dove non c’è nessun controllo. E lo si può vedere: quando vai in India, ti accorgi che nessuno ricicla nulla. Sono stato a Bangalore, qualche mese fa, a visitare alcune fabbriche, e sulla strada che portava verso queste aziende c’erano cumuli di plastica sui lati della strada. E ci vogliono centinaia di anni prima che la plastica venga smaltita».
Questo progetto può aiutare a cambiare la nostra mentalità.
«È per questo che è molto importante. Non tanto perché già quest’anno toglieremo dal mare 200 tonnellate, e il prossimo forse 500, ma perché possiamo contribuire a far conoscere il problema della plastica nell’oceano. La plastica, se non viene raccolta, si trasforma in microplastica e viene mangiata dai pesci. L’anno scorso, negli Stati Uniti, il 31% dei pesci pronti per essere mangiati aveva residui di plastica all’interno. Pesce fresco che pensiamo sia pulito e salutare, invece è contaminato dalla plastica».
Quanto è stato difficile arrivare al prodotto finale?
«Quando ho cominciato, non ne sapevo niente. Non sapevo se si potevano realizzare questo tipo di tessuti, completamente riciclati: non al 50-60 per cento ma al cento per cento. Né sapevo se ci fosse qualcuno in grado di realizzarli. Ma la difficoltà più grande è stata scoprire che per le persone, riciclare non è fico. La gente pensa che riciclare significhi prendere la vecchia coperta della nonna e trasformarla in uno zaino. Ma non è questo. Ecoalf è innovazione, ricerca e sviluppo, non cerca semplicemente di dare una seconda vita agli oggetti appartenuti alla nonna. Abbiamo dovuto convincere la gente che la qualità del nostro prodotto è alta. Dalla rete del pescatore al tessuto, ci sono sette passaggi chimici. Dal petrolio al tessuto, ce ne vogliono diciassette. Questa è innovazione. Significa risparmiare energia, acqua, perché i passaggi sono meno della metà».
Quanto conta il fattore “green”?
«Ecoalf ruota tutta attorno all’ecosostenibilità. Ecoalf riguarda il fatto che noi stiamo usando risorse naturali in una quantità 5 volte superiore a quanto la terra produca. Ma non c’è un pianeta B, non c’è un luogo dove possiamo scappare, se distruggiamo la terra. Dobbiamo preservarla. L’industria della moda ha molto su cui lavorare. Crea milioni di abiti al mese, e questo significa usare milioni di litri d’acqua, tonnellate di materie prime. Ho letto un articolo in cui si dice che il 25% dei vestiti che una donna ha nel suo guardaroba, è stato usato meno di due volte. E il 25% dei vestiti prodotti a livello mondiale non verrà venduto, nemmeno negli outlet. Questo significa che il 50% dei vestiti è spazzatura. Ed è un’enormità! La moda parla molto del cotone organico, prodotto senza usare fertilizzanti, ma si dimentica di dire che occorrono 2500 litri d’acqua per ogni chilo di prodotto. Il cotone riciclato invece è frutto di un processo unicamente meccanico. Ora stiamo consegnando le uniformi aziendali della Swatch, che finiranno in oltre 3000 negozi nel mondo: per produrle abbiamo usato all’80% cotone riciclato e quindi abbiamo risparmiato l’80% dell’acqua che sarebbe stata necessaria se avessimo usato cotone organico. Abbiamo risparmiato... Non so nemmeno quantificare i milioni di litri d’acqua che abbiamo risparmiato. Insomma, c’è un modo per fare le cose in maniera diversa: è più duro, più costoso, meno veloce, ma si può fare, e noi lo facciamo».
Qual è stato il giorno in cui hai avuto l’idea e hai detto “Facciamolo”?
«Non credo ci sia un giorno preciso, ma più un momento della mia vita. Ero nel business, e mio figlio Alfredo era appena nato. Cominciai a pensare che se avessi creato una nuova azienda, l’avrei fatto per le nuove generazioni. Pensavo a come sarebbero stati i tessuti per le nuove generazioni, e capii che avrebbero dovuto essere riciclati. Anche per questo ho messo il nome di mio figlio in Ecoalf».
Com’è la tua vita al di fuori del lavoro?
«È una vita molto normale. Lavoro parecchio e il tempo che mi avanza lo trascorro con mio figlio, con la mia famiglia. Amo lo sport, vado a cavallo, scio, corro e gioco a tennis. Una vita davvero molto normale. Qualcuno può pensare che il fondatore di Ecoalf viva in mezzo alle montagne senza la luce elettrica, ma non è così. Io ho una macchina! (ride, ndr)».
Hai mai fatto sport a livello agonistico?
«Sì, salto a ostacoli. Ero nella nazionale spagnola, ci sono rimasto fino a 23 anni. Mio padre è stato un olimpionico di questo sport – lui sì era veramente bravo. Ho creato la mia azienda perché ero sempre a cavallo, e dopo aver finito di studiare, mio padre mi disse che dovevo cominciare a lavorare. Io dissi: “No, voglio continuare a cavalcare”. Così disegnai qualche borsa e ogni weekend giravo la Spagna, Barcellona, Valencia, Siviglia, agli eventi ippici, e la mattina, prima di cominciare a saltare, vendevo quelle prime borse. È da lì che tutto ha avuto inizio. Quando ho venduto, nel 2009, avevamo 62 negozi in Spagna».
Quale pensi che sarà il futuro della moda e di questi nuovi materiali?
«Credo che tutto il mondo stia andando in questa direzione: non solo la moda, ma architettura, automobili, cibo. Alcune persone sono più veloci di altre a cambiare di mentalità, ma non vedo ragione di costruire qualcosa di nuovo che non sia ecosostenibile. Macchine elettriche, bici elettriche, cibo sostenibile, case autonome dalla rete elettrica: tutto si deve muovere verso la sostenibilità».
Per sopravvivere dobbiamo diventare più intelligenti.
«Credo che dobbiamo prenderci cura di quello che abbiamo. Dobbiamo investire molto in educazione, questo è molto importante. Dobbiamo cominciare a pensare a che tipo di bambini lasceremo il pianeta, piuttosto che a quale pianeta lasceremo ai nostri figli. Ma credo che le nuove generazioni abbiamo già chiaro questo concetto di sostenibilità, la necessità di prendersi cura del pianeta. I colossi della moda hanno dimensioni tali che portare anche un piccolo cambiamento alle loro abitudini è molto complesso. È più facile per le giovani aziende, perché siamo nati con questa idea. Ma non c’è dubbio che la strada sia questa. Pensare in piccolo e agire in grande».