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 2016  ottobre 12 Mercoledì calendario

COME SAREMO NEL 2050?


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Navighiamo, chattiamo. telefoniamo, postiamo foto, prenotiamo e acquistiamo online e con la carta di credito, prendiamo i mezzi pubblici con una tessera magnetica, guardiamo una serie sulla smart Tv: si stima che ognuno di noi, ogni giorno, produca «impronte» digitali per due megabyte. Che vanno a formare la massa di dati dei Big Data, di cui il 90% è stato prodotto negli ultimi due anni. Ma dove finiscono? Chi li usa? In che modo? E come cambieranno il nostro futuro? A queste domande è stato dedicato il congresso The Future of Science, promosso da Fondazione Giorgio Cini, Fondazione Umberto Veronesi e Fondazione Silvio Tronchetti Provera a Venezia dal 22 al 24 settembre. Oltre venti professori, studiosi, ricercatori venuti da tutto il mondo si sono confrontati su come e quanto la rivoluzione digitale e i Big Data influenzeranno, e stanno già influenzando, le nostre vite.

Che lavoro faremo
Consoliamoci, tutti i relatori sono d’accordo su un punto: la maggior parte dei dati raccolti (83%) non viene utilizzata. È come entrare in una biblioteca con 100 libri e trovarne catalogati solo 17. «La sfida futura», dice Gary King, scienziato politico e professore presso l’università di Harvard, «sarà quella di creare sistemi che estraggano informazioni di valore dai dati disponibili, perché non è la quantità dei dati a essere rivoluzionaria, ma l’analisi. Bisognerà capire come leggere e classificare i 2,5 quintilioni di dati (un quintilione è un miliardo di miliardi) che si producono ogni giorno attraverso email, telefonate, post, messaggi, foto». Lì ci sarà anche il maggior sviluppo delle professioni. «Oggi», dice Carlo Batini, professore dell’università Bicocca di Milano, «il 75% dei lavori riguarda i servizi. Entro il 2050 il 65% dei lavori ruoterà attorno alla fornitura di dati».

Che strumenti useremo
«Entro il 2020 ognuno di noi avrà a disposizione migliaia di dispositivi elettronici e saremo immersi in un’infrastruttura informatica invisibile. Sono destinati a scomparire computer, tablet, cellulari, sostituiti da una specie di gelatina informatica diffusa». Lo sostiene il professor Alberto Sangiovanni-Vincentelli, docente di ingegneria elettronica e informatica presso l’università di Berkeley (California). «Droni, stampanti 3D che costruiranno in pochi minuti dai gioielli ai denti, macchine intelligenti, automazione, strumenti di monitoraggio: è un mercato che vale 15 trilioni di dollari. Basti pensare che Apple ha investito più nella ricerca sulla guida automatica che in quella su cellulari, tablet e computer».

Come cambieranno le città
Condivisione dei mezzi, guida automatica, abolizione dei semafori sono gli aspetti che più cambieranno la mobilità. Carlo Ratti, che dirige il Senseable City Lab presso il Mit, spiega che uno studio sui flussi del traffico a Lisbona e New York ha permesso di «verificare che, con la condivisione dei mezzi e un’applicazione che permette di controllarne i tragitti, basterebbe il 40% dei taxi oggi esistenti. Inoltre, con la guida automatica ci sarebbe una diversa gestione del traffico e i semafori non servirebbero più».

Come ci cureremo
«Una vera rivoluzione», dice Sangiovanni-Vincentelli, «si avrà nella salute. Già ora esistono applicazioni per monitorare i pazienti che mandano le informazioni direttamente al medico. Dieci anni fa sono cominciati gli studi per applicare chip nel cervello attraverso cui praticare la deep brain stimulution e si è visto che ha effetti curativi su schizofrenia e Parkinson, anche se non si è ancora capito perché funziona. Questo sistema sarà molto utile nella cura dei disabili e nell’uso delle protesi. La grande domanda è: come riusciremo a non farci male con tutto ciò? Ci saranno problemi di rigetto? E come evitare che questi chip siano usati male da altri? Ci troveremo di fronte al furto dei pensieri? Si aprono grandi domande sulla sicurezza e la privacy, e questo va studiato».

Come salveremo il pianeta
Ogni oggetto, ogni luogo, ogni persona sarà tracciabile dall’inizio della sua vita fino alla fine. «Oggi», dice Ratti, «sappiamo tutto della vita di un oggetto, ma non che cosa gli succede quando viene buttato. Al Mit stiamo studiando etichette intelligenti con un chip collegato a un Gps. Applicandole ai rifiuti, per esempio, la gestione della spazzatura cambierà completamente perché sarà il bidone a segnalare quando è pieno e la raccolta potrà essere fatta subito, invece che seguire percorsi fissi come succede ora. Questo sistema permetterà anche di controllare i traffici illeciti. Abbiamo fatto un esperimento con alcune lattine di bibite a cui abbiamo applicato questi chip. Bene, a un certo punto sparivano dal roaming dati degli Stati Uniti per finire in reti illegali di rifiuti elettronici che andavano in Asia».

Come tratteremo le macchine
«Siamo destinati a un monitoraggio intenso e continuo che, da una parte, faciliterà il lavoro e renderà l’ambiente più pulito e sicuro, dall’altra apre rischi nuovi e sconosciuti su sicurezza e privacy», dice Alfonso Fuggetta, professore di informatica presso il Politecnico di Milano e associato dell’Institute for Software Research di Irvine (California). «Esempio: è stata messa in commercio una giacca per motociclisti che ha sulla schiena un airbag collegato via wifi alla moto. In caso di impatto contro un ostacolo l’airbag si gonfia, ma cosa succederebbe se qualcuno si inserisse, volutamente o per caso, nella comunicazione fra giacca e veicolo?». Il rischio è credere che la gestione dei dati risolverà tutto. «Prima di gestire», dice Fuggetta. «bisogna capire che cosa si vuole, e questo lo può fare solo l’essere umano perché, bene o male, siamo ancora noi a dire alle macchine che cosa fare».
Mariangela Mianiti


I NOSTRI DATI, CONSERVATI AL POLO NORD–

200 miliardi di dollari l’anno: ecco quanto frutta il mercato dei dati personali degli internauti a livello mondiale. Per acquisire quelli più basilari (età, sesso, residenza) le aziende spendono pochi spiccioli: circa 0,50 euro ogni mille individui. I nostri dati vengono pescati nei data center dei big del web. A 100 chilometri dal Polo Nord, nella Lapponia svedese, sorge il primo data center europeo di Facebook. Google ne ha quindici. Per far sparire le nostre tracce digitali ci vuole tempo: Facebook le elimina in 90 giorni, Google impiega fino a 6 mesi. Da uno studio dell’università di Cambridge emerge che sono sufficienti 170 like per far sì che i professionisti della profilazione capiscano che tipi siamo. Dai «Mi piace» è possibile risalire alle preferenze sessuali di un utente con un’accuratezza dell’88% se si tratta di un uomo e del 73% se donna. In base alle informazioni ottenute in tal modo cambiano pure i prezzi di ciò che acquistiamo: come evidenziato in passato dal Wall Street Journal, negli Usa chi ha un Mac rischia di pagare per una camera d’albergo prenotata online fino a 30 dollari in più. I metadati ottenuti dagli smartphone rispecchiano ugualmente il nostro carattere (con un’accuratezza del 75%).
Francesco Bisozzi