Tullio Calzone, Guerin Sportivo 11/2016, 14 ottobre 2016
IL MIO CALCIO HA IL FUOCO DENTRO– [Gennaro Gattuso] «Il mio calcio sa di antico e ha il fuoco dentro
IL MIO CALCIO HA IL FUOCO DENTRO– [Gennaro Gattuso] «Il mio calcio sa di antico e ha il fuoco dentro. Ancora mi emoziona e mi fa sentire vivo proprio come quando da bambino ho cominciato a correre dietro a un pallone e non mi sono fermato più». La passione è quella di sempre, lo spirito combattivo intatto, la voglia di farcela enorme: il ritorno di Rino Gattuso fa rumore, ma non poteva essere diversamente per uno che è abituato a metterci il cuore in ogni cosa che fa! Uscito di scena in punta di piedi dopo non aver avuto neppure il tempo di sfruttare l’opportunità che il Palermo di Zamparini gli aveva dato tre anni fa – senza poi sostenerla e alimentarla adeguatamente, anzi interrompendola precocemente con l’arrivo di Iachini sulla panchina rosanero – Ringhio ha elaborato quell’esonero quanto meno intempestivo e ingeneroso e si è ripreso la scena a modo suo. Tanta passione e una determinazione quasi “famelica”, la stessa che metteva in campo da calciatore e che lo ha portato a raccogliere consensi e trionfi un po’ ovunque, dagli esordi perugini, alla consacrazione con la Salernitana che lo strappò ai Rangers Glasgow per 9 miliardi di vecchie lire per poi rivenderlo a prezzi da autentico campione al Milan (dove ha vinto tutto). Un’avventura quella scozzese che rimarrà indelebile nella mente e nel cuore di Rino prima ancora dei tifosi che lo avevano ribattezzato non a caso “Braveheart”, Cuor di Leone. Un leone calabrese, per giunta, che si spinge sempre oltre i confini e che in Scozia ha trovato anche la donna della sua vita, Monica, la mamma dei suoi due figli, Gabriella e Francesco, di 12 e 8 anni. Glasgow è stata una tappa importante nella carriera dell’ex ragazzo di Calabria, svezzato a Perugia e cresciuto come dice lui «a pane e pallone». Qui gioca con Paul Gascoigne e Jonas Thern, due calciatori che contribuiranno alla sua formazione e alla sua crescita professionale enormemente: «Lì è maturata, vent’anni fa, la convinzione che avrei potuto giocare a certi livelli. I tifosi mi adoravano, perché dopo pochi mesi sembrava che fossi più scozzese io di loro che mi avevano immaginato come Paolo Di Canio, tutto finte e dribbling, allora ingaggiato dal Celtic, il club rivale di sempre». Gennaro è un figlio d’arte: il papà Franco aveva giocato in Serie D («Che gioia la foto con la Champions insieme!»). Ma anche la mamma Costanza ha lasciato un imprinting: da lei ha preso quel senso religioso dell’esistenza che lo accompagna in ogni cosa che fa. «Mia madre è una che va in Chiesa anche quattro volte al giorno. Ma io credo in Dio a modo mio». Insomma, con il calcio nell’anima, Gattuso non ha mai smesso di metterci tutto anche in questa travagliata e avvincente esperienza pisana in panchina che ne sta esaltando lo spirito migliore che emerge proprio nelle avversità, riproponendo all’attenzione di tutti quel campione generoso e inarrivabile visto in campo con il Milan (tra il 1999 e il 2012) e con la Nazionale, cioè l’indomito guerriero-gladiatore che ha vinto due Champions in rossonero e il Mondiale con l’Italia di Lippi nel 2006. Sì, Gattuso è tornato. Anzi, in verità, non se ne era mai andato via, perché certi campioni restano impressi nel cuore della gente per sempre. A proposito di campioni per sempre, Gattuso, ha fatto gli auguri a Totti per i suoi primi 40 anni? «Certamente. Glieli ho fatti con un video che ho consegnato a Vito Scala per fargli una sorpresa. Ho avuto la fortuna di giocare insieme con Francesco in Nazionale e poi ho lavorato con lui girando degli spot pubblicitari, è un grandissimo calciatore e un uomo straordinario e divertente. Non ha mai dimenticato le sue origini, proprio come me. Fa parte di quei fuoriclasse come Roberto Baggio, Del Piero, Corso, Rivera, Mazzola, Baresi e Maldini che hanno fatto la storia del nostro movimento. È stato vicino al Milan e al Real ma alla fine è rimasto coerente con la sua scelta di mettere la Roma e Roma, la sua città, prima di tutto. E Totti è la Roma e resterà unico». Ma in giro non s’intravede nemmeno un altro Gattuso. O no? «Diciamo che il mio spirito è difficile ritrovarlo in campo oggi. De Rossi, Nainggolan, Marchisio sono tecnicamente più forti. Ma la mia interpretazione del ruolo era da anni Settanta e Ottanta, alla Benetti o alla Furino, per intenderci. Diversa, insomma, anche del calcio di cui ho fatto parte io». Tanti trionfi con il Milan e campione del mondo con l’Italia di Lippi. Ci dice qual è il ricordo da calciatore che custodisce più gelosamente? «Quello nel cuore è ovviamente il Mondiale del 2006, avevo sognato di parteciparvi. Ma non credevo di poterlo vincere. Era una cosa realmente molto più grande di me. Poi, essendo nato in una famiglia di milanisti e avendo gioito per il trionfo di Barcellona del Milan di Sacchi, è stata una sensazione davvero indescrivibile aver permesso a mio padre di stringere la Coppa Campioni vinta addirittura da me». Lei ha avuto tantissimi allenatori: quello a cui è restato più legato? «Sinceramente a tutti. Per il mio modo di fare e di farmi trovare sempre pronto. Quando vedevo che dall’altra parte c’era fiducia e considerazione davo il massimo. Ho avuto la cultura del lavoro, sono sempre stato casa e pallone. Ho avuto la fortuna di vincere tanto. Oggi che svolgo questo lavoro dall’altra parte del campo, quando ripenso ai miei allenatori, lo faccio con grande affetto e da ognuno di loro cerco di prendere qualcosa di positivo». Ce n’è uno a cui si ispira in panchina oppure anche in questo lei è semplicemente Gattuso? «Carletto (Ancelotti, ndr) e Lippi sarebbero modelli perfetti, caratterialmente diversi e anche nel modo di gestire il gruppo. Ma alla fine hanno vinto ugualmente, in un modo o in un altro. A volte ci sono situazioni che si ripetono. Ma l’interpretazione è sempre quella che ognuno di noi dà alle cose. Oggi i calciatori sono molto più preparati rispetto a una volta e ti sgamano subito se fai il furbetto o usi scorciatoie. Anche perché la tecnologia e le tv offrono l’opportunità di studiarti. Se non stai sul pezzo, se non ti applichi, se non ci dai dentro veramente non vai da nessuna parte. Ecco perché i modelli contano, ma quello che ci metti di tuo conta ancora di più». La partita più bella di Gattuso e quella che cancellerebbe quali sono? «Facile rispondere, no? I tre match del cuore sono la finale del 28 maggio 2003 vinta all’Old Trafford di Manchester contro la Juve, la semifinale Milan-Manchester e Italia-Germania ai Mondiali del 2006. Tra le tante gare da professionista giocate toglierei ovviamente quella di Istanbul contro il Liverpool, quella rimonta che ci costò la Coppa Campioni nel 2005». Dopo Clarence Seedorf, Pippo Inzaghi e Sinisa Mihajlovic, è Vincenzo Montella l’uomo giusto per il Milan? «Mi auguro di sì. Purché non si facciano paragoni con il passato. Questa è una squadra che rispecchia l’attualità. Io ho fatto parte di un Milan perfetto. Dovevi pensare solo a giocare, era un gruppo inarrivabile. C’è stato un ridimensionamento evidente. Ma non è una scusa per non lottare per il vertice e per non aspirare a vincere. Bisogna guardare alla Juve. Dopo la retrocessione c’è voluto tempo, ma poi si sono rielaborati gli errori e si è tornati grandi con lo spirito di una volta». I cinesi a Milano un effetto della globalizzazione. Ma il Milan senza Berlusconi sarà inevitabilmente un’altra storia. Condivide? «Sicuramente sarà così. Tuttavia io penso e sostengo che il Milan debba mantenere un suo Dna e la cosa più stupida sarebbe cancellare i 30 anni della presidenza Berlusconi. Bisognerebbe capire gli errori e ripartire da lì per non commetterne più di analoghi. Poi si può vincere o perdere, ma l’organizzazione e il senso di appartenenza sono stati elementi decisivi in passato e serviranno anche in futuro». Juve irraggiungibile con Higuain oppure nel calcio non bisogna mai dare nulla per scontato? «La Juve ha capito che bisognava tornare a uno stile inglese, pochi uomini al posto giusto e grande scouting. In questo momento è uno dei club più potenti d’Europa perché ha saputo riorganizzarsi e darsi delle strutture proprie all’avanguardia. C’è un grande lavoro dietro certi obiettivi raggiunti. Non bastano i fatturati a fare la differenza. Tante squadre hanno investito molto, ma non hanno vinto. La storia deve riemergere sempre». Al Napoli di Sarri quale idea ruberebbe Gattuso? «Ce ne sono tante. Pagherei per andare a cena per una settimana di fila con mister Sarri e farmi spiegare tutto. Lui è un tecnico che si è costruito da solo e si vede. Ogni anno apporta delle novità al suo metodo. Ha una mentalità sua ed è uno degli allenatori più preparati a livello mondiale perché è un innovatore. E tutto è farina del suo sacco. S’inventa tante cose sulle uscite difensive, ma anche sulle palle inattive o negli schemi offensivi. È uno che ti sorprende sempre». Con i suoi indecifrabili alti e bassi questa Inter di Frank De Boer come la vede? «Sta facendo bene nell’ultimo periodo. Ha comprato tantissimi calciatori importanti. Ma Napoli e Juve hanno qualcosa di più in questo momento in ogni reparto». Invece le sue idee in panchina su cosa si fondano? C’è chi la critica sostenendo che il suo calcio è troppo all’italiana, eccessivamente difensivistico? «A me piace una squadra in cui lavorano tutti insieme. Non amo regalare uomini all’avversario. Le fasi di gioco debbono essere fatte da tutti indistintamente e con gli stessi tempi. Poi cosa significa essere difensivista? Io utilizzo anche quattro attaccanti. È sempre la mentalità che fa la differenza. Il mio è un calcio antico perché ha il fuoco dentro, ma guarda al futuro e mi fa sentire vivo». Più organizzazione o più intensità nel sistema Gattuso? «Tutto insieme. Perché se non ti organizzi vai allo sbaraglio, ma se non hai intensità le tue idee in campo non incidono e non lasciano segni tangibili. È normale che i miei uomini debbano capire che certe giocate a volte si possono fare e altre no. La forza deve essere sempre quella del collettivo. Altrimenti meglio darsi al tennis o a un altro sport individuale». Chi gioca il miglior calcio in Italia? «Sarri fa un calcio propositivo, a tratti alla spagnola. Montella parte dal basso e sviluppa le sue trame belle da vedere. Poi Oddo fa giocare bene il suo Pescara, mi piace il suo caos offensivo che disorienta l’avversario e sta migliorando anche dietro. A volte mi viene da sorridere perché ognuno ha un suo sistema. Ma poi dipende dai calciatori che hai a disposizione. Deve andare tutto al suo posto, ma gli interpreti non sono una variabile indipendente». A Palermo cosa non ha funzionato. Lei sembrava un predestinato, invece arrivò quell’esonero per molti ingeneroso? «A Palermo ha funzionato tutto considerando che di mezzo c’era pur sempre Zamparini. Quando scendi in B dalla A serve tempo per metabolizzare la retrocessione anche a livello ambientale. Poi a 35 anni andare a lavorare con un presidente così è stata una scelta azzardata. Con Perinetti non c’era un rapporto consolidato, ci siamo conosciuti lì. Ma io traggo insegnamenti da ogni esperienza, perché so rischiare, è sempre stata così la mia vita. E a volte l’ho pagata». Come all’Ofi Creta, altra parentesi complicata? «All’Ofi Creta, dopo la crisi greca, siamo precipitati, non c’era nessuno in società. Ma è stata un’esperienza che rifarei mille volte. Io non sono un calcolatore. Le mie scelte sono state sempre fatte con il cuore. Comunque conta quello che faccio oggi». In panchina è un’altra storia oppure per vincere nel calcio sono necessari sempre gli stessi ingredienti a prescindere dal ruolo che uno occupa? «Sono cambiato caratterialmente e spero di essere migliorato. Amo ciò che mi fa sentire vivo. Quando ho sbagliato mi sono assunto le mie responsabilità e ho chiesto scusa. Certo, in panchina è tutto diverso, non ti puoi sfogare, puoi solo urlare alla fine dopo aver deciso e pensato per tutti. Ma dipende anche dal carattere che uno ha e da come prende le cose. Lo ripeto, sono all’antica, ma ancora mi emoziono per quello che faccio. E questo mi basta». Ma nella vita conta più il destino oppure la ragione e quello che ci mettiamo di nostro fanno la differenza? «Il destino devi anche andartelo a cercare, meritartelo. Bisogna mettersi in discussione sempre. Poi conta provare a fare quello che veramente ami. Vedere gli occhi dei ragazzi nel Pisa a fine partita soddisfatti per aver dato tutto, per me è il massimo. Ecco perché soffro a vederli senza stipendi da mesi. I calciatori non sono tutti miliardari, sa?». Questo Pisa sta beneficiando anche della sua pazienza. Durerà? «Io ce la sto mettendo tutta. La pazienza dipenderà solo dal rapporto tra me e i miei calciatori. Posso mettere da parte il Pisa solo se non dovessi più vedere nello sguardo dei miei ragazzi la voglia di lottare da parte di tutti». Come ha ritrovato il campionato di Serie B? «Lo avevo vinto con Galeone a Perugia nella prima metà degli Anni Novanta e le cose sono cambiate molto da allora. Prima era più difficile ma oggi si vedono molti più giovani e questa è una novità positiva. Ma non è un torneo scontato. Ogni partita può diventare una sorpresa. Serve attenzione, concentrazione, dedizione totale alla causa». Che effetto le hanno fatto tutte quelle persone fuori dall’Arena Garibaldi a tifare Pisa nonostante lo stadio chiuso per i noti ritardi nell’adeguarlo alle norme di sicurezza? «Ero commosso. Mi sono allontanato per non farmi vedere dai ragazzi. Non avrei mai immaginato di vivere una giornata di calcio antico proprio come piace a me, con la gente in piazza per spingere la squadra. In questi sedici mesi a Pisa sto vivendo molte cose dal passato. Stanno riemergendo valori che credevo persi per sempre e il merito è anche e soprattutto della gente. Il calcio è passione, è cuore e questi valori li vedo ovunque in questa straordinaria città. Ecco perché mi batto per una società presente e forte». Qualche commentatore autorevole la critica perché lei non ha dovuto fare solo il tecnico di questo Pisa, ma ne è diventato quasi l’icona, assolvendo a compiti che non dovrebbero riguardarla. Ma la generosità è una risorsa o un difetto? «La generosità può essere un difetto. Ma quando hai a che fare con degli uomini in difficoltà preferisco mettermi dalla loro parte piuttosto che calcolare la soluzione migliore e più conveniente. Se debbo aiutare un amico lo faccio ciecamente soprattutto se lo merita». Lei continua a parlare di salvezza e sarebbe in queste condizioni già un miracolo. Ma se poi capita di restare lassù che fa non se la gioca sino alla fine col suo Pisa? «Bisogna guardare sempre la realtà. Oggi abbiamo gli occhi azzurri e siamo belli, ma questo campionato finisce a maggio e per durare servono rinforzi e stabilità societaria. Non facciamoci illusioni, si diventa presto brutti». Gattuso, lei è impegnato anche nel sociale con la sua Fondazione “Forza Ragazzi”, nata non a caso a Schiavonea, nella sua Calabria dove ha creato anche imprese e lavoro. Da quali valori nasce questa esigenza di fare qualcosa per gli altri? «Noi aiutiamo i ragazzi a studiare e a responsabilizzarsi, da 8 anni facciamo calcio attraverso una scuola anche per dare loro una possibilità. Abbiamo una seconda squadra che partecipa al campionato di 2ª categoria in cui abbiamo incluso dei migranti, qualcuno dei tanti disperati che sbarcano sulle nostre coste, perché crediamo nella solidarietà umana e nell’inclusività. Lo so che a volte faccio le cose con troppo cuore. Ma non è mai abbastanza il contributo che possiamo dare e io sto bene così. Dio? Sì, ci credo. Ma a modo mio. Sono stato educato da una mamma che va anche quattro volte al giorno in Chiesa. E papa Francesco ha risvegliato tante cose anche in me. Ma bisogna impegnarsi di più e chi ha una fede dovrebbe dare l’esempio. Nel nostro piccolo togliere i ragazzini dalla strada è il minimo che possiamo fare».