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 2016  ottobre 13 Giovedì calendario

LIBRI MAIUSCOLI– [COME QUELLI DEL FRANCESE PIERRE MICHON, DI CUI ADELPHI RIPUBBLICA IL BELLISSIMO DEBUTTO]


È il 1984 quando Pierre Michon pubblica, in età già avanzata (39 anni) e dopo lunga gestazione, il suo romanzo d’esordio, Vite minuscole, subito acclamato da critici e “lettori esigenti” (categoria ironicamente evocata nell’opera dallo stesso Michon) e rapidamente canonizzato come uno dei libri più significativi della narrativa francese di fine Novecento. Erano anni che si vociferava di un’imminente versione italiana per Adelphi: ignoro se il ritardo con cui è infine arrivata questa ammirevole traduzione di Leopoldo Carra sia da imputare a problemi extra letterari, all’arduo compito di maneggiare una lingua densissima, o allo scarso interesse in cui sono piombate le lettere francesi dalle nostre parti negli ultimi decenni. Qualche segno di un ritorno di fiamma editoriale nei confronti della “scena” d’oltralpe, volendo, c’è: ad esempio la concomitante pubblicazione di altri due libri di autori poco noti all’estero ma come Michon molto stimati in patria, Bussola di Énard (E/O) e Terminus radioso di Volodine (66thand2nd), entrambi consigliatissimi.
Vite minuscole, oltre a essere quasi unanimemente considerato il risultato più alto (ad oggi) di Michon, resta uno dei migliori esemplari di un genere che in Francia gode di grande successo, quello delle “biofinzioni”: brevi racconti di vita più o meno romanzati, dove singoli o numerosi personaggi – famosi o perfetti sconosciuti – fanno i conti con autori ingombranti che tendono per lo più a piegare le biografie in questione a personalissime esigenze poetiche e a volte (come nel caso di Michon) autobiografiche (vite immaginarie, anteriori, minuscole: Schwob, Yourcenar, Quignard, Macé, Modiano, lo stesso Carrère e via dicendo). Le vite di cui parla Michon sono quelle del passato contadino della Francia meridionale, dov’è nato e cresciuto e che l’autore ricostruisce attingendo a un immaginario orale e famigliare: ci sono preti, garzoni, antenati finiti in America o in Africa a inseguire l’avventura coloniale (la figura di Rimbaud tanto nella scrittura quanto nei ritratti è onnipresente); c’è un matto rinchiuso in manicomio, una sorella morta in fasce. L’idea è quella di riesumare quel mondo rurale nella sua profondità quasi mitica (un po’ alla Faulkner), ma anche di ricostruire egoticamente la genealogia dalla quale è emersa, nei decenni e dopo innumerevoli contorsioni, la scrittura e la lingua (iper)letteraria che quel mondo scomparso in un certo senso “salva”, narrandolo: in una parola il libro che leggiamo (vedi alla voce Proust). Michon racconta la storia della formazione di un artista ambiziosissimo (se stesso), non priva di cliché decadentisti (derive, alcol, droghe), proiettandola nella sua più o meno leggendaria ascendenza contadina. Tutte le cadute, la vanagloria, le contraddizioni di un simile progetto emergono gradualmente nei giochi di specchi e nel corpo di una scrittura che si compiace di trasportarci, nel giro di poche frasi (barocche, fastose, superaggettivate), sulle vette di un lirismo teso all’estremo per poi precipitarci a terra in un brusco, ironico, disincanto. Michon esita in maniera quasi schizofrenica tra un manganelliano sentimento della letteratura come menzogna e la capacità sciamanica della stessa di ridare la vita, di evocare mondi. È forse l’aspetto più interessante: non tanto il mondo rurale, non solo le pagine di rara bellezza, ma la traccia esibita di una debolezza, di una goffaggine originaria, del narcisismo e della paura del fallimento che si annidano dietro ogni impresa artistica – e che gli autori, solitamente, fanno di tutto per nascondere.