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 2016  ottobre 13 Giovedì calendario

SI STAVA MEGLIO COL POLITEISMO


Ho nostalgia dei pagani. Sogno la restaurazione dell’idolatria. Se gli dèi antichi tornassero, le guerre di religione finirebbero all’istante e ognuno potrebbe scegliersi il dio o la dea che più gli piace, come fanno i bambini con i calciatori o i Pokémon. Ritornerebbero i fedeli di Zeus e di Diana, dai tombini della storia uscirebbero gli adoratori del Sardus Pater, del cartaginese Tanit, del demone uccello etrusco Tuchulca o dell’azteco Huitzilopochtli. Ogni dio avrebbe competenza sul proprio settore – aree geografiche, mestieri precisi, pioggia, sole, alluvioni, partite di calcio – senza sognarsi di invadere quello degli altri, per allargare il proprio potere. L’universo tornerebbe a essere governato da un principio superiore inconoscibile – come il Fato, il Pneuma o la Forza di Guerre stellari – completamente disinteressato al destino degli uomini. Il mondo ritornerebbe a essere un luogo variopinto e pacifico perché i politeisti non fanno guerre sante.

Nel libro A Brief History of Human Kind, lo storico Yuval Noah Harari individua tre fasi nella storia delle religioni: l’animismo, in cui l’uomo si concepisce ancora come un essere tra gli altri; il politeismo, che si affermò parallelamente all’agricoltura, quando gli uomini da cacciatori-raccoglitori diventarono agricoltori-allevatori, assoggettando piante e animali; e il monoteismo, che apparve un migliaio di anni prima di Cristo quando l’uomo incominciò a pensarsi al centro dell’Universo, creato a immagine e somiglianza di Dio, e a Lui legato da un rapporto speciale ed esclusivo, geloso, insieme schiavo del Padre e signore del mondo, depositario di una verità universale da diffondere con ogni mezzo, compresi imbroglio e violenza. Con l’affermarsi del monoteismo incominciarono anche le guerre di religione. I pagani raramente perseguitarono i seguaci degli altri dèi. I romani fecero un’eccezione per i cristiani: ne uccisero qualche migliaio in tre secoli, un numero infinitamente minore, però, dei milioni che furono massacrati da altri cristiani durante i secoli successivi, molti meno anche dei 10 mila ugonotti massacrati dai cattolici nella notte del 23 agosto 1572, San Bartolomeo. Quando la notizia arrivò a Roma, papa Gregorio XIII ne fu così felice da commissionare a Giorgio Vasari un affresco nella Sala Regia per celebrare il massacro.

Il monoteismo ha in sé un’intrinseca chiamata alla distruzione degli altri. E se negli ultimi tempi i cristiani sono più tolleranti è anche perché, per fortuna, nella modernità sopravvive in clandestinità un’attitudine all’idolatria che si incarna nel culto delle merci, del denaro e delle star, e che costituisce, non a caso, il principale bersaglio del fanatismo islamico. I tre monoteismi di maggior successo nel mondo – cristianesimo, ebraismo e islamismo – si fondano sulla figura di Abramo, un tale che rifiutò gli dèi di Ur e si entusiasmò così tanto all’idea che esistesse un solo Dio da essere pronto a sgozzare suo figlio perché in testa gli frullava una voce: un povero schizofrenico che, in tempi più civili, sarebbe stato rinchiuso in qualche clinica per malati mentali e di cui si leggerebbe nelle pagine della cronaca locale. Per le religioni del Libro, invece, Abramo – che gli ebrei chiamano Avraham e i musulmani Ibrahim – è il simbolo dell’incondizionato amore dovuto al Creatore. La domanda è se un amore così assoluto da pretendere la soppressione di chi non rientra nel proprio Disegno, fosse anche un figlio, sia definibile amore. La pretesa dell’amore assoluto – e questo vale anche nelle relazioni umane – si afferma soltanto se ciò che gli si oppone sarà cancellato. L’unico amore possibile, invece, è relativo, non è una prigione, perché rispetta l’amato e la sua curiosità per il mondo.

Il primo comandamento – Esodo, 20, 7 – ordina la distruzione di ogni altro idolo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. L’unico Dio si presenta alla sua creatura con un ricatto, una maledizione e una minaccia, che risuona ancora, dopo millenni, ed è all’origine del fondamentalismo, degli attentati e degli sgozzamenti di oggi.
Per fortuna, intorno al Mediterraneo, soprattutto nelle aree più devastate dall’ISIS, gli antichi culti resistono. In Regni dimenticati, un meraviglioso libro appena uscito per Adelphi, Gerard Russell racconta i suoi incontri con gli ultimi seguaci di religioni quasi scomparse: i mandei, i manichei, i samaritani, gli yazidi, i copti, gli zoroastriani e i kalasha. In anni di ricerche Russell è riuscito a farsi raccontare i loro culti, documentando l’astuzia con cui nei secoli cristianesimo e islam – molto meno l’ebraismo, che non ha ambizioni universali – siano riusciti a inglobarli, trasformando le loro divinità in demoni e santi, traducendo i loro riti nei propri, in modo da convincere gli infedeli a convertirsi, e come nei millenni questa strategia sia stata alternata a quella della coercizione e della violenza. Il Diluvio è un racconto babilonese – Noè si chiamava Utnapishtimun –, il battesimo è un rito dei mandei, che adorano Giovanni Battista, ma giustamente rifiutano Abramo, e inaugurarono le pratiche ascetiche da cui fiorì il monachesimo cristiano, la credenza nel Diavolo, nel Paradiso e nell’Inferno sono retaggi manichei, pregare tre volte al giorno è un obbligo dei seguaci del dio Mitra, come la stretta di mano che poi si diffuse tra gli ebrei, i cristiani e i musulmani.
Scrive il grande storico Fernand Braudel in Il Mediterraneo: “La romanità non inizia con Cristo. L’Islam non comincia nel VII secolo con Maometto. E il mondo ortodosso non ha principio con la fondazione di Costantinopoli nel 330”. Ogni civiltà nasce prima delle sue divinità e continuerà a esistere dopo la loro fine.
Sotto la crosta della storia e della cronaca, sotto gli sgozzamenti dell’ISIS, gli attentati, le parole di papa Francesco e la morte di padre Amorth, l’ultimo esorcista, scorrono ancora le voci e i resti di antichi dèi e culti dimenticati. Le religioni sono come fiumi che scorrono l’uno nell’altro trasportando detriti che l’acqua deforma e modella senza mai cancellarli; molto spesso li usa per rafforzarsi e attrarre a sé i fedeli di culti più antichi, non sapendo che tutti quei simboli, tutte le usanze, i riti, le divinità trasformate in santi, costituiscono i germi della loro futura dissoluzione e diventeranno le fonti di altre religioni, si gonfieranno fino a diventare altri fiumi così potenti da prosciugare i vecchi. Prima o poi capiterà, abbiamo tempo. Ma soltanto se la pluralità vincerà sulla singolarità, soltanto se l’idea del Divino tornerà a moltiplicarsi nei suoi mille frammenti, la religione riuscirà a separarsi dalla violenza. Se ancora ci si stringe la mano è solo grazie ai mitraisti.