Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 09 Domenica calendario

“MI INNAMORAI DI INGRID PRIMA DI LUI. FELLINI? I SUOI SOGNI DIVENTAVANO MILIONI” [Intervista a Renzo Rossellini] – Lettera del padre Roberto Rossellini al figlio a un passo dalla morte: “Renzo mio, ho dedicato tutta la mia esistenza per fare del cinema un’arte utile agli uomini… ora che mi sento vecchio, mi conforta solamente che il mio progetto, grazie a te, non resterà incompiuto”

“MI INNAMORAI DI INGRID PRIMA DI LUI. FELLINI? I SUOI SOGNI DIVENTAVANO MILIONI” [Intervista a Renzo Rossellini] – Lettera del padre Roberto Rossellini al figlio a un passo dalla morte: “Renzo mio, ho dedicato tutta la mia esistenza per fare del cinema un’arte utile agli uomini… ora che mi sento vecchio, mi conforta solamente che il mio progetto, grazie a te, non resterà incompiuto”. Fondatore della Gaumont Italia e di Radio Città Futura, guerrigliero: “Dall’Algeria all’Angola passando per l’Afghanistan, si fa prima a dire dove non sono stato”, viaggiatore, regista, produttore e distributore di più di cento film. La città delle donne di Fellini, Sogni d’oro di Moretti e poi decine di altri autori e titoli. Herzog, Tavernier, Ferreri, Amelio, Bellocchio, Cavani. Fanny e Alexander di Bergman e Il marchese del Grillo di Monicelli: “Un film che incassò 20 miliardi di lire e che finanziai proprio allo scopo di recuperare soldi da mettere in cassa”. Con le sigarette sottili avidamente aspirate e i 75 anni appena compiuti: “Sono il Rossellini maschio più vecchio di sempre”, nella sua casa romana ai piedi della collina Fleming, scalare i ricordi non è sempre una passeggiata: “Non ci sarei dovuto neanche arrivare a quest’età. I Nar provarono a uccidermi due volte e le Br mi fecero seguire per gambizzarmi. Me lo raccontò Germano Maccari, l’ingegner Altobelli del sequestro Moro, avvicinandosi a Rebibbia. ‘L’ho pedinata per 2 mesi’. Sapeva particolari che non poteva conoscere, non ho mai dubitato che fosse vero”. Sul tavolo, il Leone d’oro ha 47 anni. Pesa più del piombo e ha la targa ancora molto lucida: “Il massimo premio veneziano per Il Generale della Rovere, ex aequo con La grande guerra, papà lo volle regalare a me. Lavorammo a ritmi folli, di corsa, completando l’opera in meno di tre settimane e alternandoci alla macchina da presa tra notte e giorno. Dopo il Festival, mio padre Roberto mi scrisse una lettera: ‘Tienilo tu, è più tuo che mio, se stiamo alla cruda contabilità delle scene, hai girato senz’altro più di me’”. A casa vi occupavate di cruda contabilità? Più che altro di sogni. Papà mi portava sul set e in sala, tra le poltrone, ero abituato a stare fin da piccolo. Se non andavo con lui, al cinema mi portavano i suoi collaboratori. Un macchinista mi accompagnò a vedere Per chi suona la campana. Invidiai Gary Cooper e mi innamorai di Ingrid Bergman. Quando Roberto mi disse: “Accompagnami, devo andare a conoscere un’attrice americana con cui lavorerò” e mi fece il suo nome, arrossii. Perché? Perché ero sicuro che pur non conoscendomi, Ingrid avrebbe capito in un istante che quel bambino si era perdutamente innamorato di lei. Ci ha raccontato di essere stato molto presto sul set. Sceneggiatori e registi, fin da quando ci stringemmo in una casetta abruzzese con Luchino Visconti per sfuggire alla Roma bombardata del 1943, erano la mia quotidianità. Federico Fellini, una specie di zio, me lo ricordo fin da quando ero piccolissimo. Collaborava alla sceneggiatura di Roma Città aperta e a papà, a cui faceva anche da assistente, l’aveva presentato Aldo Fabrizi. Come mai? Aldo aveva letto il copione e trovandolo drammatico, aveva suggerito l’innesto di chi avrebbe potuto portare nella storia altri registri: “È troppo cupo, ma chi lo va a vedè un film così? Dovete conoscere un ragazzo che mi scrive le battute e le gag a teatro, si chiama Federico, è quello giusto”. Papà si fidò del consiglio di un amico. All’epoca era normale. Con Fellini lei poi lavorerà a lungo. Nonostante mio padre e Federico, un tempo molto amici, avessero raffreddato il loro rapporto fino a non parlarsi più. A Roberto, La dolce vita non era piaciuto per niente. Aveva trovato che Fellini si fosse commercialmente prostituito e avesse tradito l’iniziale émpito neorealista. Il Maestro l’aveva saputo e forse era venuto anche a conoscenza del modesto apprezzamento di papà nei confronti di 8?. Quanto durò il grande freddo tra loro? Federico non andò neanche al funerale. Parlandone con lui ad anni di distanza gli domandai il perché di un gesto così netto e lui mi rispose con il candore che gli era proprio: “Avevamo litigato, mi sarebbe sembrato di essere troppo falso e di esserlo nel momento più sbagliato”. Fellini aveva il suo mondo. Prova d’orchestra, La Città delle donne, E la nave va. Film ai quali lavoravamo andando a Cinecittà insieme tutti i giorni. “Ho fatto un sogno – diceva – e te lo voglio raccontare”. Ascoltavo e capivo che il sogno altro non era che una scena che voleva aggiungere nel film senza avere il coraggio di dirmelo. “Non c’è Papa abbastanza grande per Michelangelo e non c’è produttore abbastanza grande per Fellini” amava dire. Lui faceva un sognetto e partivano duecento milioni. Ma l’escamotage onirico mi pareva così geniale che lo perdonavo. Quasi contemporaneamente a La Città delle Donne lavorai anche con Moretti. Nel finanziare in parte Fellini, Paolo Valmarana della Rai, un uomo illuminato che mi aveva aiutato a produrre per la tv Colpire al cuore di Gianni Amelio e Prova d’orchestra dello stesso Fellini, aveva messo una sola condizione: “Occupati del film di Nanni Moretti, è un ragazzo molto in gamba”. Io avevo visto Ecce Bombo e non ebbi nulla da eccepire. Come andò con Moretti? A un certo punto della lavorazione, allarmati, mi telefonano dal set: “Guarda che qui non si va avanti, siamo al sessantaquattresimo ciak della stessa scena”. Corsi lì e capii. Nanni si era fissato sul dettaglio di una porta. Lo guardo e poi gli dico: “Nanni, ma almeno una volta l’avrai fatta bene questa benedetta scena?”. Si scioglie. Accenna un sorriso. Dice azione. E poi finalmente si sblocca: “Buona, questa è buona”. Al produttore sono richieste doti da domatore? Ero un produttore molto presente e vicino agli autori e questo i registi lo sapevano. Saltavo da un set all’altro, non abbandonavo nessuno e rispettavo gli autori. Al netto di qualche ossessione, Nanni lo adoravo. Come adoravo Marco Ferreri. Due persone intelligentissime. E l’intelligenza seduce, seduce sempre. Disgraziatamente, negli ultimi tempi la ravviso soprattutto nelle donne. Hanno quel qualcosa in più che mi commuove sempre. Che rapporto ha con Isabella, figlia di Roberto e di Ingrid Bergman? Ottimo. Forse più oggi di ieri. Papà e Ingrid mi avevano affidato il difficile ruolo di angelo custode. Con i miei fratelli, ero un po’ rompicoglioni. Dovevo vigilare sulla verginità e sulla moralità delle sorelle perché non fossero ferite dal mondo dei maschi, un mondo brutale e stare con gli occhi aperti perché a Robertino, il fratello maschio, non venisse in mente di diventare frocio. Isabella poi da ragazza era vanitosa e papà che detestava lo specchio, era severo in assoluto e sulla vanità non transigeva. La trovava una piccineria, una debolezza. Nella sua vita è stata importante anche la politica. A 17 anni già aiutavo il Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria. I ribelli giravano un cinegiornale per raccontare ai connazionali lontani da Algeri la situazione nel Paese, ma non avevano neanche un laboratorio di sviluppo e stampa per sviluppare la pellicola. Li aiutai. Come anni dopo aiutai gli afgani guidati da Massoud nella lotta di liberazione contro i sovietici. Di cosa avevano bisogno? Di sviluppare le comunicazioni via radio, ma il segnale subiva le interferenze delle tante montagne del Paese e bisognava andare a sistemare i fili più in alto. Un lavoro da alpinisti, che ansimando, con il kalashnikov a tracolla, feci per due mesi portandomi dietro anche Henry Lèvy. In Afghanistan le atrocità erano all’ordine del giorno. I russi mettevano ordigni giocattolo in modo che la strage colpisse indiscriminatamente i bambini e gli afgani rispondevano mangiando il fegato ai prigionieri di guerra. Aiutai Massoud, ma in cambio dell’assicurazione che i prigionieri sarebbero stati tutelati dalla Convenzione di Ginevra e consegnati alla Croce Rossa. Nel 1975 lei aveva fondato Radio Città Futura. La mattina del 16 marzo 1978, con 45 minuti d’anticipo sul rapimento Moro, diede dai microfoni la notizia di un evento clamoroso che di lì a poco avrebbe occupato ogni singolo notiziario. Della Commissione Moro, per quante volte sono stato convocato, dovrei essere socio onorario. Le commissioni hanno lavorato, scavato e indagato, ma quando si sono trovate vicine alla verità sono fuggite nella direzione opposta. Tornando alla sua preveggenza del 16 marzo? Non fu preveggenza, né come ipotizzarono altri, una soffiata. Fu semplice analisi. Quella mattina, con il giuramento di Moro, il compromesso storico sarebbe diventato una realtà. C’era qualcuno che voleva impedirlo perché tagliare il ramo su cui era seduto Moro avrebbe fatto cadere in poco tempo anche tutti gli altri. Al microfono dissi che non c’era giorno più pericoloso e adatto di quello per assistere a un clamoroso atto di provocazione delle Br o dei Servizi. In precedenza lo avevo detto a Craxi. Non mi diede retta. Purtroppo avevo ragione. Del caso Moro si sono occupati decine e decine di analisti, scrittori, registi e intellettuali. Che idea si è fatta a quasi 40 anni dalla morte del politico Dc? Che le Br fossero infiltrate ed eterodirette. C’erano i servizi dietro a Moro e l’attentato di Via Fani, un’operazione militare in cui erano stati sparati più di 100 colpi in pochi secondi per uccidere tutti gli uomini della scorta e lasciare incolume il presidente della Dc non poteva non essere stata preparata per mesi. A suo parere avvenne veramente? Eccome. I terroristi si prepararono con i servizi cechi a Karlovy Vary. Ricostruirono la strada in un teatro di posa, studiarono le angolazioni di tiro, le possibilità di fuga, ogni dettaglio. Secondo alcuni, addirittura, nelle ore successive al rapimento, Moro sarebbe stato portato nei locali dell’ambasciata cecoslovacca a Roma. Non mi stupirebbe, così come non mi stupisce l’ipotesi che possa aver passato un po’ di tempo in un condominio affollato o in un covo sul litorale romano, magari in una villetta stagionale di Fregene. A marzo, in quei posti, non c’è mai nessuno. Moro sapeva, capiva e provava persino a dare indicazioni a chi lo cercava. Nelle sue lettere dal carcere, straordinarie, scrive di essere “sotto un dominio pieno e incontrollato”. Parla di un luogo preciso. Qualcuno avrebbe potuto salvarlo? Qualcuno, forse anche dentro le Br, di Moro subiva il fascino. Maccari lo chiamava “Presidente”. Ma non credo che il parere o l’iniziativa di un singolo potessero cambiare le cose. Si era deciso che dovesse morire. Conveniva a troppe persone, a troppi Servizi, a troppi equilibri geopolitici. Dopo il gravissimo attentato dei Nar a Radio Città Futura del 9 gennaio 1979 – 5 donne ferite gravemente, molotov e colpi di mitra sparati all’impazzata anche all’altezza del pube – la sua vita cambiò? Quella mattina il bersaglio avrei dovuto essere io. Ma avevamo prestato i locali della radio a un collettivo di casalinghe per trasmettere e le vittime furono loro. La polizia voleva mettermi sotto scorta, ma, tra le tante cose che potevo fare, dirigere Radio Città Futura con la scorta rientrava tra quelle impossibili. Glielo dissi e la Digos, rassegnata, mi fece avere un porto d’armi. Giravo con la pistola. La tenevo nella cinta. Mi giravo sempre a sincerarmi che non cadesse per terra. Quando andai da Maccari lui mi disse di essersi accorto che ero armato perché mi giravo per controllarla ossessivamente. Ha mai incontrato dopo l’assalto alla radio il protagonista di quell’episodio, Giusva Fioravanti? L’ho incontrato e ci ho parlato, certo. E mi sono fatto una mia idea. Quale idea? Che il 99,9 per cento dei gesti che sono stati attribuiti a Fioravanti e Mambro, Strage di Bologna compresa, sono opera loro. Fioravanti e Mambro hanno sempre negato. Forse non sapevano tutto, forse mancava loro qualche tassello, forse sono stati manovrati dai servizi, ma una traccia dei Nar e del Neo Fascismo a Bologna c’è. Altra pagina. Cosa ricorda della Gaumont Italia e del suo tentativo di impiantare una scuola di cinema alternativa al Centro Sperimentale? Una bella fiamma vitale, molto rosselliniana. Insegnavo cinema facendo fare cinema perché il cinema si impara solo così, facendolo. Proprio come mio padre che al Centro, tra l’altro, come commissario, era arrivato proprio nel ’68. Credeva nel rapporto con le persone e si presentò in aula, nonostante glielo avessi caldamente sconsigliato: “Gli occupanti sono un po’ stronzi, stai attento”. Non mi diede retta e fu accolto come avrebbero potuto accoglierlo i più stronzi tra i sessantottini. Ascoltò fischi, urla e lazzi e girò i tacchi: “Va bene signori miei, a me non mi vedete più”. E fu di parola. Ci ha detto che la fiamma della Gaumont si spense. Lavoravo con la Bnl e la banca da un giorno all’altro mi chiuse la linea di credito. Con Gaumont avevo un circuito da 150 sale, gli stipendi da pagare, i dipendenti. Fu una tragedia. I socialisti mi avevano chiesto un aiuto economico per le loro campagne elettorali. Un pizzo che avevo rifiutato di pagare. Dal giorno dopo mi ritrovai in rovina. Nel 1984 lei ebbe un gravissimo incidente stradale sull’A1. Sua moglie finì in coma e poi morì. Lei ebbe numerose fratture e attraversò un calvario spaventoso. Ci buttarono fuori proditoriamente, in un burrone, due Alfette. Volammo per 20 metri. In ospedale, dove arrivai vivo per miracolo, non avevo più un solo osso sano. Non ho le prove ma proprio come Pasolini, so. Secondo me furono i Servizi sovietici per ripagarmi dell’Afghanistan. Certe cose, il Kgb non le dimentica. Come vorrebbe essere ricordato? Come un uomo che ha pensato e amato il cinema, per tutta la sua vita.