Alberto Giuliani, GQ 10/2016, 13 ottobre 2016
NOI CHE SU MARTE
Non si possono scoprire nuovi oceani se non si ha il coraggio di perdere di vista la riva, sta pensando Tristan Bassingthwaighte dopo trecento giorni di vita su Marte, quando commette l’errore di guardarsi indietro. Sigillato nella sua tuta spaziale, segue i passi dell’amico astronauta che lo guidano nel paesaggio di rocce laviche, ma i suoi pensieri volano ormai sulla Terra, fino al ricordo della fidanzata e di quel girasole che lo ha accompagnato lassù. «È una specie che si chiama Miss Mars. Seguirà il sole, e quindi la Terra, dove ti aspetterò io», gli aveva detto lei tra i baci della partenza, consegnandogli un seme minuscolo. Nell’ombra della sua casa marziana Tristan aveva cresciuto quella pianta come si coltiva un ricordo, mentre lei, sulla Terra, si stava innamorando di un altro.
Ora Tristan vorrebbe togliersi il casco, fermare il suo amico Cyprien Verseux e dirgli che è stanco di giocare all’astronauta, ricordargli che il paesaggio attorno a loro non è Marte ma il vulcano Mauna Loa, alle Hawaii, il luogo scelto dalla NASA per simulare le condizioni di vita del Pianeta Rosso; e che tutto questo insistere nella rappresentazione non ha alcun senso. Ma mancano pochi giorni alla fine della missione, e la messa in scena non è un gioco. Per un anno intero Tristan e Cyprien hanno vissuto insieme ad altri quattro astronauti chiusi in un modulo abitativo spaziale, a 2.800 metri di quota sulla vetta del vulcano. È l’ultima, e la più lunga, delle quattro missioni realizzate per preparare gli uomini NASA alla conquista. Sotto una cupola bianca del diametro di 11 metri, i sei astronauti hanno trascorso i loro giorni mangiando cibo liofilizzato, lavandosi con saponi in polvere e sessanta secondi di acqua alla settimana, sfruttando l’energia del sole o pedalando su una bicicletta per ricaricare le batterie, quando le nuvole avvolgevano ogni cosa. Soprattutto, hanno eliminato ogni contatto con la Terra, per simulare la perfetta solitudine che li attenderà. Tutti giovanissimi e con un curriculum scolastico al limite del prodigio, hanno da poco terminato la loro avventura, consegnando alla NASA i risultati (ancora segreti) delle loro ricerche. Ma consapevoli del fatto che la sfida più grande, nella conquista di Marte, non riguardi la tecnologia, ma le umane emozioni.
«Il vento sulla pelle e l’abbraccio di un amico. Queste le cose che più mi sono mancate», ammette Cyprien, l’astro-biologo della missione. Nel minuscolo laboratorio del modulo abitativo marziano è riuscito a generare la vita, sfruttando colonie di batteri capaci di trasformare i gas presenti su Marte in ossigeno. Ha estratto l’acqua dalle pietre vulcaniche, e cresciuto insalata e pomodori senza terra. Ma per vivere sfuggendo alla natura e all’amore bisogna essere forti oltre misura, e pronti al sacrificio. «Ti è mai capitato di stare chiuso in casa un weekend? Ecco, immagina di starci un anno, e con le stesse cinque persone».
Nell’anno di simulazione appena trascorso, l’equipaggio usciva dalla cupola bianca solo due volte a settimana per le attività di esplorazione extra veicolari (EVA), ma sempre chiusi dentro i 20 chili di tuta spaziale. «Su Marte non c’è ossigeno né atmosfera, si vive con un terzo della gravità terrestre e le radiazioni solari ci brucerebbero in un istante. Una piccola falla nella tuta, e in quindici secondi diventi polvere», spiega Tristan.
«I primi di noi che andranno lassù non sopravviveranno»: Carmel Johnston del Montana, 27 anni, è il comandante dell’equipaggio e non usa giri di parole. Il viaggio di andata durerà sette mesi, una volta atterrati bisognerà costruire la base e trovare in fretta un rifugio sotto terra, per proteggersi dalle radiazioni. «Anche ammesso di riuscire a tornare sulla Terra, l’esposizione subita sarà comunque eccessiva e probabilmente letale. Ma nel caso, la mia vita avrà avuto un senso».
Su Marte l’escursione termica giornaliera arriva a cento gradi, il vento soffia alla velocità del suono, il terreno è il deserto più ostile che l’uomo possa immaginare e, come sulle pendici di questo vulcano, le rocce sono taglienti come rasoi. Eppure la corsa per arrivare al Pianeta Rosso continua da oltre mezzo secolo, con 17 miliardi di dollari investiti dagli USA nella ricerca solo nell’ultimo anno. «È simile alla Terra, ci sono buone possibilità di trovare forme di vita. Inoltre è un luogo nel quale potremo sopravvivere, se il nostro pianeta ci abbandonasse», spiega Kim Binsted, direttrice del progetto di ricerca Hi-Seas della NASA.
Con tutta probabilità a mettere piede su Marte tra due anni saranno ancora dei robot, evoluzioni di quel Curiosity che dal 2012 calpesta le lave marziane. Ma secondo la Binsted nulla può sostituire l’uomo: «Se un ricercatore davanti a una pietra interessante ritiene che sia utile sezionarla, lo fa immediatamente. Dare a un robot gli strumenti per effettuare la stessa operazione, significa immaginare quell’azione almeno vent’anni prima».
«Cerchiamo un uomo che conosca la sopravvivenza, i valori della pace, e che non commetta errori. Perché lassù possiamo rinascere, o giocare la nostra ultima partita», dice Tristan, spiegando che l’essere umano deve cambiare molto per vivere su Marte. «Dovremo lasciare sulla Terra ogni certezza, ogni risorsa, a cominciare dagli affetti», ammette, senza nascondere la difficoltà. Il tempo luce che ci separa da Marte è di venti minuti, quanto anche un messaggio inviato dalla Terra impiega per arrivare lassù. Nel loro anno di simulazione gli astronauti della Hi-Seas hanno provato cosa significhi questo sfasamento temporale: quando nella Parigi di Cyprien colpiva il terrorismo, quando la morte si è presa la nonna di Sheyna Gifford, il medico della missione. O quando la fidanzata di Tristan, con un videomessaggio registrato nel soggiorno di casa, mentre il gatto si rotolava alle sue spalle, gli diceva che si era innamorata di un compagno di studi. «Se quando sei lontano dal mondo la nostalgia ti morde e fuori sibila il vento, in quei venti minuti rischi di impazzire», dice Tristan, spiegando che nella loro missione hanno testato nuovi strumenti virtuali sviluppati dalla NASA e dall’esercito americano per colmare la loro solitudine (e quella dei soldati in guerra): ogni stazione spaziale su Marte sarà dotata di visori per la realtà virtuale e ciascun astronauta avrà un proprio avatar che vivrà sulla Terra. In questo mondo di fantasia potranno incontrare parenti e amici, andare in vacanza ai Caraibi o festeggiare intorno a un tacchino arrosto il giorno del Ringraziamento. «Ogni movimento compiuto dagli avatar viene analizzato per diagnosticare la difficoltà che l’astronauta sta vivendo, e dalla Terra inviamo al suo visore delle immagini che lo guariranno», spiega Peter Roma, direttore dell’Unità di Biologia Applicata all’Università di Baltimora. «La realtà virtuale è l’unico modo che abbiamo per curare gli astronauti da ogni male della loro psiche».
Questi sei astronauti, come quelli a cui toccherà l’onore e la responsabilità di portare l’umanità su Marte, sono spinti dallo stesso vento che nei secoli passati gonfiava le vele dei galeoni su cui viaggiavano pionieri e pirati, verso gli orizzonti ai limiti delle mappe. Hanno accettato di scambiare la vita per l’ignoto, certi che sia meglio perdersi sulla strada di un viaggio impossibile piuttosto che non partire. «Andare e superare i propri limiti, per tornare vittoriosi», scherza Tristan, mentre alla fine della missione raccoglie le sue cose dalla casa marziana. Tra hard disk e attrezzature porterà via anche Miss Mars, il girasole nato dal seme di quella storia d’amore finita. È cresciuto di un palmo, ma per un fiore che si è nutrito solo di batteri senza mai conoscere il vento, non è poi così male: l’astronauta fa qualche passo stringendolo tra le mani, sotto la cupola ormai vuota. Poi, chiudendosi alle spalle la porta di quella strana casa del cielo, lo posa lì davanti, rivolto alla Terra.