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 2016  ottobre 05 Mercoledì calendario

ABBIAMO LE PROVE CHE NON È STATO LUI


Bergamo, ottobre
Un nuovo investigatore, ingaggiato dalla famiglia del muratore condannato, annuncia clamorose rivelazioni: «I colpevoli sono altri, e sappiamo chi sono». Intanto lui, dalla cella, dice: «Yara non l’ho mai incontrata in vita mia».

«L’HA UCCISA QUALCUNO CHE LA CONOSCEVA»
«Quell’uomo non sono io. Il malvagio, il sadico, il violento, l’uomo che ha torturato con una lama una ragazzina per il gusto di provocarle dolore, come hanno raccontato nelle 150 pagine delle motivazioni della mia condanna, non è Massimo Bossetti». Il muratore di Mapello, condannato in primo grado all’ergastolo nel luglio scorso per l’omicidio di Yara Gambirasio, ci fa giungere attraverso i familiari le sue reazioni alle motivazioni della sentenza, appena pubblicate.
Dice Bossetti: «Per fortuna hanno aggiunto che di queste “belle cose” non avevo mai dato prova fino a 40 anni. Sono arrivato alla mia età senza mai aver alzato le mani contro qualcuno e poi mi è scoppiato il cervello? Ma sono stato giudicato da un giudice o da uno psichiatra? In Appello e in Cassazione avrò giustizia. A uccidere Yara non è stato Bossetti. Forse qualcuno che lei conosceva bene e si fidava, altrimenti non sarebbe mai salita sull’auto di uno sconosciuto, come è stato ribadito durante il processo». Bossetti insomma ribadisce la sua innocenza. Ma il suo Dna sugli slip di Yara è diventato una pietra tombale per lui. I magistrati l’hanno definita una prova granitica, al di là di ogni ragionevole dubbio. Per questo l’hanno condannato. Gli altri sono solo indizi marginali. «Quel Dna ce l’ha messo qualcun altro. Io Yara non l’ho mai incontrata in vita mia», è la replica del muratore.
Le 150 pagine delle motivazioni Bossetti le ha prese veramente male. «Non è demoralizzato. È furioso», ci hanno raccontato la mamma Ester e la sorella Laura, che sono andate a trovarlo in carcere: «Non credeva a quello che leggeva quando i suoi avvocati gliele hanno consegnate. Li ha congedati dicendo: “Prepariamoci al processo d’Appello. Deve saltar fuori la mia innocenza”».
L’uomo in realtà non è demoralizzato perché ha saputo che a lavorare in vista del processo di secondo grado, previsto a Brescia nella primavera del 2017, non saranno solo i suoi difensori, ma anche i suoi familiari che dal 3 luglio, due giorni dopo la lettura della sentenza di condanna, hanno avviato un’indagine alternativa sull’omicidio di Yara affidandosi a due consulenti per rifare le indagini con un solo obiettivo: «Dimostrare l’innocenza di Massimo», ci dice Ester, «scardinando le accuse e costringendo con prove e indizi nuovi i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Brescia a riaprire la fase dibattimentale e quindi rimettere tutto in discussione». Come accadde nel secondo processo di Perugia per Amanda e Raffaele.
Ma su cosa stanno lavorando i nuovi investigatori? Abbiamo incontrato uno di loro a casa di Ester Arzuffi. Per ora preferisce non svelare la sua identità. «Non siamo in competizione con i consulenti della difesa di Bossetti ma complementari e abbiamo deciso di occuparci di tre aree secondo noi fondamentali per Massimo Bossetti», ci dice.
Quali sono queste aree?
«La prima è capire dove fosse Massimo la sera del 26 novembre 2010 dopo le 18.30. A distanza di quattro anni è difficile ricordarsi gli orari precisi degli spostamenti».
E dopo quasi sei anni voi cosa potete fare?
«Quello che nessuno ci risulta abbia mai fatto...».
Cioè?
«Controllare il tabulato del telefono di casa Bossetti. Chi non ci dice che Massimo quella sera abbia fatto o ricevuto una telefonata di lavoro, visto che il suo cellulare era scarico? Nelle fatture di Bossetti o di suoi colleghi di lavoro si potrebbero trovare dati interessanti. Potrebbe esserci il suo alibi, perché se ha usato il telefono di casa non era a rapire Yara».
Il presunto alibi lo avete trovato?
«Questo ora non lo posso svelare. Anche noi abbiamo un “segreto istruttorio”».
Oltre che sull’alibi su cosa state lavorando?
«Siamo molto avanti con le nostre ricerche. Siamo già nella fase dei riscontri che ci stanno dando molte risposte positive, e stiamo lavorando molto sulle procedure relative all’estrapolazione del Dna, che per noi sono state molto discutibili».
Anche voi, come la difesa ritenete che quel Dna sia sbagliato e vada ripetuto?
«No. Su questo punto siamo in disaccordo con i difensori. Riteniamo che il Dna di “Ignoto 1” trovato sugli slip e i leggins della vittima sia probabilmente di Bossetti, e ripeterlo potrebbe diventare addirittura dannoso per l’imputato. È più corretto partire dal presupposto che quel Dna possa essere di Massimo ma che lui non sia colpevole dell’omicidio. Esiste anche la contaminazione che può avvenire per contatto fortuito o volontario».
Avete trovato dei riscontri sulla possibile contaminazione?
«Sì, e li definisco molto forti».
Quindi avete il nome dell’assassino?
«Non spetta a noi stabilire chi sia il vero assassino di Yara, però dimostreremo che Massimo è innocente perché altri avevano più opportunità, più moventi e più ragioni per commettere un delitto così atroce».
Questa è la pista alternativa?
«Certo, e dirò di più. Abbiamo già molti riscontri che ci dimostrano la validità della nostra pista, ma senza l’aiuto della Procura di Bergamo non sarà facile. Confidiamo nel fatto che al momento opportuno il Procuratore capo non si tirerà indietro per verificare il nostro lavoro e consegnare alla giustizia il vero colpevole».
Perché la Procura riapra le indagini servono prove concrete.
«Noi oggi abbiamo già molto, anche se forse non a sufficienza per convincere il Procuratore. Ma ci stiamo lavorando».
Ci anticipa almeno una prova?
«Sotto la nostra lente di ingrandimento è finita più di una persona. Erano in parecchi a quell’ora sul luogo del delitto. Le celle che i loro telefoni hanno agganciato, infatti, sono perfettamente sovrapponibili a quelle di Yara. Significa che dove c’era Yara c’erano anche loro. Queste persone sono state solo sentite a “sommarie informazioni” dagli inquirenti e i loro nomi non sono mai trapelati, ma hanno un legame con la contaminazione del Dna sul corpo di Yara. Infine ci sono i testimoni. Qualcuno quella sera ha visto ed è pronto a parlare».
Gli avvocati difensori di Bossetti lo sanno?
«Certo. Non potremmo fare nulla se non avessimo l’appoggio e l’aiuto di Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Stiamo lavorando per valutare se possa nascere un’eventuale nuova strategia difensiva. Del resto noi siamo stati incaricati da Ester Arzuffi e Laura Bossetti e tutta la famiglia conosce il nostro lavoro e collabora».
Come giudica le motivazioni della sentenza?
«Non ho seguito tutte le udienze del processo ma ho letto l’intero fascicolo. Al di là di alcune imprecisioni, sono motivazioni ben scritte e, scusate il gioco di parole, ben motivate. Anzi ritengo che la Corte ci abbia dato un grosso aiuto nonostante le pesanti accuse e le parole molto forti. Ma io sono più interessato alla sostanza che alle parole».
Perché dice che vi hanno dato un aiuto?
«Perché l’attività degli inquirenti e della Corte ci sprona a cercare e portare nuove prove a discolpa e non ad attaccare il loro lavoro. A favore di Massimo c’è l’esclusione di uno degli indizi più pesanti, i passaggi del furgone davanti alla palestra. E soprattutto non hanno concesso la superperizia per il Dna. Sarebbe stato troppo rischioso».
Quando conosceremo questi colpi scena?
«Molto presto saremo in grado di indicare piste precise».
Giangavino Sulas