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 2016  ottobre 11 Martedì calendario

PAPÀ PER SCALDARMI LA NOTTE BRUCIAVA DOLLARI


La sua storia, il suo passato sono un tormento che non lo lascerà mai, un confronto continuo con il Male. Che per lui aveva il volto del Bene: quello di suo padre. Con lui, quel padre era dolce e affettuoso, per gli altri era il peggiore, il più spietato e potente narcotrafficante che la storia ricordi. Papà era Pablo Emilio Escobar Gaviria, per il mondo il re della cocaina, il criminale più ricco della storia, a capo del famigerato cartello di Medellin, ucciso nel 1993. Ad opera della polizia, pare. O forse per mano di un cartello della droga avversario. Chi sparò davvero quel giorno non si saprà mai.
All’epoca, suo figlio primogenito Juan Pablo Escobar aveva 16 anni e la notizia lo raggiunse grazie a un giornalista. Giurò solennemente che gli assassini l’avrebbero pagata cara, che lui stesso li avrebbe ammazzati di persona, a uno a uno. Oggi Juan Pablo di anni ne ha 39, fa l’architetto, lo stilista e l’ingegnere industriale in Argentina (la Colombia fu costretto a lasciarla in gran fretta con la madre e la sorellina), nel suo campo è un signore distinto. Che per sicurezza ha cambiato il suo nome in Sebastian Marroquin, e che in Colombia, in tutti questi anni, ha rimesso piede sì e no due volte. Però il famoso passato che non passa è sempre lì a condizionarlo. E infatti Sebastian non lo scorda: prima ha girato un documentario dal titolo I peccati di mio padre, nel 2009. Poi ha scritto un libro, Pablo Escobar, mio padre, nel 2014. Infine – ed è storia di questi giorni – si è scagliato contro la seconda stagione della serie televisiva ispirata alla gesta di papà, Narcos, distribuita da Netflix, definendola piena zeppa di errori. «Ne ho contati 28, piuttosto il prossimo film fatelo fare a me», ha dichiarato.
Non smette di dire la sua verità e pochi giorni fa si è confidato in una eccezionale intervista a viso aperto, rilasciata all’edizione spagnola del giornale online Huffington Post. «Ho avuto come tate i peggiori criminali della storia colombiana e so bene che papà stesso fu un bandito», ha messo in chiaro senza troppe concessioni alla famiglia. «Tuttavia crescere accanto a personaggi del genere mi ha permesso di vedere bene le conseguenze delle loro azioni e del dolore che hanno causato a se stessi, ai parenti e a tantissimi colombiani. Sono stati il modello di ciò che non volevo diventare. E oggi sono un uomo di pace. Anche perché, se non lo fossi, sarei già morto».
Il racconto del figlio del superboss è una sorta di seduta psicoanalitica affidata alla Rete. Da un lato la presa di distanza dai crimini di papà. Dall’altro il sentimento di un figlio che continua, nonostante tutto, ad amare chi gli ha dato la vita. «Non sono certo io a dover rispondere dei suoi misfatti, e comunque mi assumo la responsabilità morale dei suoi delitti e ho chiesto scusa per lui a tanti figli delle sue vittime», familiari stretti di ministri e leader politici compresi.
«Per cinquant’anni, in Colombia, ci siamo uccisi a vicenda, oggi è tempo di riconciliazione». La più difficile, per Sebastian, è quella personale con un genitore decisamente ingombrante, uno che per riscaldare i suoi due bambini, una sera che avevano freddo, bruciò nel caminetto due milioni di dollari. E che, per rendere interessanti le loro giornate, arrivò a importare dall’Africa, nella sua fattoria, giraffe, zebre, elefanti, cuccioli di ippopotami. Del resto, pare che avesse accumulato una fortuna compresa fra i cinque e i dieci miliardi di dollari, frutto del controllo per anni dell’immenso flusso di cocaina dalla Colombia verso il Messico, gli Stati Uniti, la Spagna. «Non posso dimenticare il padre premuroso che era. Non posso dimenticare che mi raccomandava di stare alla larga dalla droga, ben consapevole che fosse veleno. Ed è innegabile anche che tanti soldi li usasse per aiutare chi ne aveva bisogno».
Oggi qualcuno accusa Sebastian di aver fatto di suo padre un business: vende perfino magliette con immagini di Escobar, sue foto segnaletiche, documenti del suo passato. «Però io vendo soprattutto riflessioni di pace, non certo il mito di un criminale, modello Scarface, come fanno in televisione. Ho visto mio padre rinchiuso in rifugi senza nulla da mangiare, con migliaia di dollari sul tavolo che non poteva utilizzare per uscire a fare la spesa, perché fuori qualcuno era sempre pronto a ucciderlo. Ecco perché ci tengo a raccontare la sua storia, cominciata male e finita peggio: per evitare che qualcuno abbia voglia di ripercorrere quelle orme. Eppure, anche se mio padre ha pagato con la vita, il traffico di droga prosegue come prima. Io ho incontrato i figli delle vittime dei sicari di mio padre, ho voluto guardarli in faccia e riconciliarmi con loro. Certo che ho sempre in mente papà, come potrei farne a meno? Ho preso un nuovo nome, ma alla fine ho voluto uscire allo scoperto. Non ho più niente da nascondere né da temere, io. Le minacce che avevo pronunciato appena seppi della sua uccisione, nel giro di poche ore le avevo totalmente rimosse. La mia vita di pace parla per me».
Giorgio Caldonazzo