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 2016  ottobre 08 Sabato calendario

MERYL PER SEMPRE– C’è un episodio della sit-com Modern Family in cui uno dei protagonisti fa una battuta che rispecchia una specie di pensiero collettivo: «Meryl Streep potrebbe interpretare Batman e sarebbe comunque perfetta»

MERYL PER SEMPRE– C’è un episodio della sit-com Modern Family in cui uno dei protagonisti fa una battuta che rispecchia una specie di pensiero collettivo: «Meryl Streep potrebbe interpretare Batman e sarebbe comunque perfetta». Come non essere d’accordo? A 67 anni, di cui oltre 40 divisi tra teatro e cinema, la diva con più nomination agli Oscar (19, 3 le vittorie) è considerata la più importante attrice vivente: lo pensava anche Bette Davis, che le scrisse una lettera di congratulazioni definendola la sua «degna erede». Lei tende a minimizzare. Come quando, nel 2012, appena ricevuta la statuetta per The Iron Lady, disse in mondovisione: «Quando ho sentito chiamare il mio nome, mi sono immaginata mezza America a dire: “Oh no, ancora lei?!”». Le sue metamorfosi sono leggendarie: dalla protagonista di La scelta di Sophie, per cui imparò il polacco, alla strega di Into the Woods, la grande Meryl ha dimostrato negli anni abilità camaleontiche uniche. A giugno è salita sul palco del Public Theater di New York, parrucca in testa, giacca XL e trucco arancione sul volto, per fare una parodia di Donald Trump, lei che ha sempre sostenuto Hillary Clinton. Se il successo non l’ha cambiata, lo deve in parte alla sua famiglia: «I figli (quattro, avuti dal marito e scultore Don Gummer, sposato nel ’78, ndr) ti aiutano a restare umile, perché ti fanno notare costantemente tutte le cose in cui devi ancora migliorare», ci spiega, rivelando in poche parole la donna dietro l’icona. È accogliente e gentile, ma mentre ti ascolta osservandoti dietro le lenti dei suoi piccoli occhiali da vista, ti chiedi se per caso non stia prendendo mentalmente appunti per qualche parodia nei prossimi ruoli. La sua più recente trasformazione è Florence Foster Jenkins nella commedia di Stephen Frears basata sulla vita della soprano americana più stonata della storia (distribuito da Lucky Red dal 22 dicembre, mentre il libro Florence, di Nicholas Martin e Jasper Rees, esce per Piemme il 29 novembre, ndr). L’abbiamo spesso vista cantare sullo schermo. Quando ha imparato? «A 12 anni mi esibii a scuola in una versione francese di Oh Holy Night e qualcuno suggerì ai miei genitori di farmi prendere lezioni. Iniziai a studiare canto d’opera insieme alla famosa Estelle Liebling, ma rinunciai dopo qualche anno». Come mai? «Scherza? A quell’età mi interessavano di più i ragazzi e diventare una cheerleader. Mi sarebbe piaciuto diventare una brava cantante, ma sono sempre stata consapevole dei miei limiti. Inoltre, crescendo, la mia voce si è rovinata per via del fumo, dell’alcol e di una vita sregolata (ride, ndr). Neppure a casa posso cantare, mi dicono: “Mamma, piantala!”. Ecco perché cerco personaggi che mi permettano di farlo». Da chi ha ereditato questa passione? «Mio padre era un pianista straordinario che aveva scritto anche un paio di musical. A casa ascoltavamo i vinili di Nat King Cole, Frank Sinatra e Barbra Streisand, oltre alle colonne sonore degli spettacoli di Broadway. I miei figli, invece, sono cresciuti con Joni Mitchell, Bob Dylan e Neil Young (il figlio Henry è musicista, ndr)». Chi era Florence Foster Jenkins? «Una ricca ereditiera che contribuì a finanziare la scena musicale di New York nella prima metà del Novecento. Amava cantare, ma le mancava il senso del ritmo e non era intonata. Si esibiva in concerti privati a cui partecipavano solo conoscenti o persone di fiducia scelte dal suo compagno (Hugh Grant nel film), che pagava i critici per non far pubblicare nulla di negativo. Quando Florence scoprì la verità, dopo la sua ultima performance alla Carnegie Hall di New York, le si spezzò il cuore. Non credo, tuttavia, che la gente che la derideva lo facesse in modo ostile». In che senso? «Penso che li divertisse vedere con che impegno cercava di interpretare pezzi così ambiziosi. Nella vita capita a tutti di provare e riprovare qualcosa; a volte ci riusciamo e a volte no. Bob Dylan pubblicò un album di canzoni d’amore tratte dal vecchio Great American Songbook e la gente lo prese in giro perché il risultato non era buono. Lui si presentò ai Grammy e ripeté una cosa che gli aveva detto il grande Sam Cooke: non importa se canti bene, l’unica cosa che conta è se stai dicendo la verità. Ecco, Florence diceva la verità». Conosceva la sua storia prima di girare il film? «L’avevo sentita ai tempi dell’università di Yale, mentre allestivamo Sogno di una notte di mezza estate. Alcuni studenti ridevano a crepapelle ascoltando una sua registrazione, perciò mi avvicinai, incuriosita. Era una donna eccentrica: a casa aveva una collezione di sedie su cui erano morte persone famose e su cui nessuno poteva sedersi. E aveva la vasca da bagno piena di insalata di patate, il suo piatto preferito» È difficile stonare di proposito? «È sorprendentemente facile. La sfida principale consisteva nel cantare in presa diretta. L’aria della Regina della notte è difficilissima, tanto che i professionisti non la eseguono più di due volte al giorno. Io l’ho ripetuta per almeno 24 volte nell’arco di tre giorni e sono dovuta restare a casa a bere tè caldo una settimana per recuperare la voce». Il film si concentra solo sugli ultimi anni della vita di Florence. «Nel 1944 aveva 76 anni e non contava nulla agli occhi degli altri, a parte che per il suo patrimonio. Nonostante questo, era un’ottimista che cercava di godersi le sue passioni: la musica, l’amore, la libertà». E lei come accoglie le critiche? «Non vado a leggere i commenti alle cose che dico o faccio, perché rischierebbe di far crollare la mia autostima. Il mondo è pieno di veleno e disperazione, sta a noi scegliere se vogliamo vivere la nostra vita lasciandoci influenzare dalle opinioni degli altri». Dice sempre quello che pensa, quando qualcuno le chiede un parere sul proprio lavoro? «No di certo. C’è un momento molto delicato nella vita di un attore, cioè quando scende dal palco dopo la fine della performance. In quegli istanti si è vulnerabili, come un’ostrica priva della conchiglia. Qualsiasi cosa gli altri dicano ti tocca nel profondo, perché sei molto ricettivo. Ecco perché a volte è meglio essere diplomatici». Le manca il palcoscenico? «Sì, molto. E infatti ho sempre detto ai miei figli che loro sono il motivo per cui ho rinunciato a fare ciò che amavo di più. Ma non gliene è mai importato nulla!». Come ha reagito quando le sue figlie, Mamie e Grace, le hanno detto che volevano diventare attrici? «Quando erano piccole dicevo loro di studiare matematica o scienza e di trovarsi un lavoro vero, così da potermi mantenere quando fossi invecchiata. Naturalmente non mi hanno dato retta. Non posso essere oggettiva quando parlo di loro, ma penso che siano entrambe piene di talento (nel 2015 lei e Mamie hanno recitato le parti di madre e figlia in Dove eravamo rimasti, ndr)». Un consiglio che darebbe a una giovane Meryl Streep? «Le direi di non pensare al proprio peso, perché è solo una perdita di tempo. Noi donne ci preoccupiamo troppo di come appariamo, non serve a niente». Che effetto le fa guardare alla sua incredibile carriera? «Ho avuto grandi occasioni e mi piacerebbe che ci fossero più ruoli a Hollywood per le donne della mia età. Ma i tempi, per fortuna, stanno cambiando: specie in televisione, dove ci sono più possibilità anche per via della lunga serialità». Ma c’è qualcosa che le piace fare in cui non è brava? «Oh, moltissime! Come il golf: non riesco mai a colpire la pallina, mi agito. Mio marito mi ripete: “Dai, che ci sei vicina!”. Ma io lo so, non c’è niente da fare».