Lorenzo Longhi, Avvenire 12/10/2016, 12 ottobre 2016
QUANDO LA PACE PASSA DA UN PALLONE
Nel calcio, in genere, non si va tanto per il sottile: è la Macedonia la nazionale che domenica ha rischiato di rendere impervio il cammino dell’Italia di Ventura verso il Mondiale 2018, e pazienza se, a livello ufficiale, Fifa e Uefa continuano a chiamarla Fyr Macedonia, mutuando l’acronimo inglese Fyrom, ovvero “ex repubblica jugoslava di Macedonia”. Quello che appare un dettaglio è al contrario un’istanza dibattuta in ambito geopolitico, dove la disputa sul nome della Macedonia è in atto ormai da venticinque anni. Vi si intersecano, apparentemente inestricabili, questioni riguardanti storia, politica e istanze identitarie: da un lato i confini della Macedonia storica (che comprendono anche regioni di Grecia e Bulgaria), dall’altro il veto appunto della Grecia sull’ingresso della Macedonia nella Ue e nella Nato e il contestuale processo di sciovinismo portato avanti dal governo macedone. Perché la situazione è sempre più complessa di quanto non appaia e ciò che accade sul prato verde è spesso una speranza per popolazioni che hanno vissuto, o vivono, situazioni drammatiche. Come la piccola Macedonia che, nonostante i conflitti mai dimenticati, un’indipendenza ancora giovane e un riconoscimento politico a tratti dibattuto, oggi se la gioca alla pari con l’Italia, riempiendo d’orgoglio i suoi tifosi.
Così, nella settimana dedicata alle nazionali, in giro per il mondo non sono mancate sfide rivelatesi assai significative più fuori che dentro il campo. Giovedì, ad esempio, ha fatto sensazione la vittoria della Siria in casa della Cina. Una vittoria da segnare negli annali del calcio siriano che, magari, non vorrà dire granché in chiave qualificazione, ma certo rappresenta il singolare successo della nazionale di un Paese in frantumi di fronte a una potenza economica, aspetto che vale tanto nel calcio quanto nella quotidianità. Ma, soprattutto, il risultato arride ad Assad, alla sua idea di rappresentare una Siria coesa nonostante il pesante conto di cinque anni di guerra civile e, non ultima, la ferale presenza di Daesh nel suo territorio. Sin qui una fazione, quella governativa, ma in Siria esiste anche una nazionale non riconosciuta. Anzi, due, entrambe di oppositori al regime: una fa riferimento all“Esercito siriano libero”, un’altra è stata formata da alcuni ex professionisti rifugiati in Turchia. Entrambe attendono la caduta di Assad e puntano, un giorno, a riprendersi la nazionale vera e propria. Domenica poi, mentre la Macedonia sognava il colpaccio contro gli azzurri, il vicino Kosovo era in campo a Cracovia, campo neutro della nazionale ucraina. La più giovane rappresentativa riconosciuta dalla Fifa (l’ammissione è dello scorso maggio) ha perso 3-0, ma ha vinto su tutto il resto della linea, perché grazie al calcio il Kosovo si è accreditato come nazione sovrana al cospetto di uno Stato, l’Ucraina, che ancora lo considera una regione autonoma della Serbia. Lo sport però spesso arriva prima della politica, ed ecco il risultato: l’orgoglio di un’identità rivendicata, riconosciuto nei suoi simboli più popolari, vale a dire una bandiera e una nazionale di calcio.
Un ragionamento che vale, ed esce ancora più rafforzato, quando si racconta di nazionali come Afghanistan e Iraq, due luoghi emblematici quando si parla di scenari di guerra e spiragli di libertà, quelli appunto del calcio. Dal 2003 ad oggi, l’Iraq ha giocato in patria appena una manciata di partite: i campi di casa sono una trasferta continua, con Teheran (dove domani la nazionale affronterà la Thailandia in una sfida pressoché decisiva) a fare da base. Ma c’è un domani, lo dice proprio il pallone: lo scorso 3 ottobre, l’Iraq ha trionfato nella Coppa d’Asia Under 16 disputatasi in India. Non era mai successo, accade proprio ora. Così come pure l’Afghanistan martoriato dai conflitti interni (e per questo gioca anch’esso le gare casalinghe a Teheran) si era ritrovato unito per un giorno, nel settembre 2013, dopo la vittoria della nazionale nella Coppa d’Asia meridionale. Gioia e speranza di pace, di futuro. Ma quella appena passata è stata anche la settimana della sfida amichevole tra Cuba e Stati Uniti, non esattamente una novità ma a suo modo unica perché, per la prima volta, i tifosi statunitensi hanno potuto sedere sugli spalti dello stadio Pedro Marrero dell’Avana, dedicato ad un sindacalista e rivoluzionario cubano che morì nell’assalto alla caserma Moncada, il 26 luglio 1953. Un segno dei tempi che cambiano, con il calcio (e lo sport in generale) a fungere da avanguardia.