Andrea Schianchi, La Gazzetta dello Sport 9/10/2016, 9 ottobre 2016
FREDDO, BRUTTO E COSTOSO: DELLE ALPI, 16 ANNI DI VITA E UN GOL MAGICO DI DEL PIERO
L’hanno ucciso che era un adolescente, sedici anni, giorno più giorno meno. E nessuno ha pianto. Anzi: sulle sue ceneri è nata una nuova creatura, bella, amata e coccolata, e adesso di quell’enorme corpo di cemento e acciaio nessuno parla più. Come se non fosse mai esistito. Eppure qui, dove ha giocato l’Italia di Ventura contro la Spagna, in quello che è lo Juventus Stadium, un autentico gioiellino nel preistorico campionario degli impianti italiani, una volta c’era lo Stadio Delle Alpi, insensato monumento a un futuro di grandezza che non sarebbe mai arrivato. E’ una storia durata poco, il tempo di accorgersi che la narrazione non aveva senso e che quell’astronave ai confini di una città industriale in via di trasformazione non sarebbe decollata: dal maggio 1990 al maggio 2006. Tanti soldi buttati (purtroppo pubblici, quindi pesanti per le tasche dei cittadini: il costo fu di 150 miliardi di lire, circa 75 milioni di euro), e nessuna nostalgia. Ci giocavano la Juventus e il Torino, ma non è mai stata la casa né della Juventus né del Torino. Il Delle Alpi è il padre ripudiato, è il genitore che non ha mai reso felici i figli e l’unico modo per dimenticarne l’esistenza è sostituirlo.
PROGETTO Quando fu pensato, però, questo esempio di gigantismo architettonico ricevette tanti applausi. C’era la fila di politici, industriali, intellettuali a dire che era una grande idea, che finalmente la città di Torino avrebbe avuto uno stadio alla sua altezza (implicitamente alludendo ai tempi di Casa Savoia), che attorno a esso sarebbe finalmente risorta anche la periferia. Si era alla metà degli anni Ottanta, all’Italia era appena stata assegnata l’organizzazione del Mondiale del 1990 e il «bocconcino» ingolosiva parecchio in un Paese che si stava arrampicando, tra paninari e tangentari, craxiani e piduisti, e cercava di lasciarsi alle spalle il tempo del terrorismo e delle P38. Nel dicembre del 1986, quindi in piena epoca «Italia da bere», il comune di Torino assegnò il progetto del nuovo stadio che doveva sorgere nella zona della Continassa, a nord-ovest della città, tra i quartieri delle Vallette e di Venaria Reale. Il consorzio Acqua Marcia si aggiudicò l’appalto, lo studio Hutter disegnò l’impianto e in meno di due anni l’opera fu completata. Ufficialmente la capienza era di 69.295 spettatori. Tre anelli sovrapposti ne caratterizzavano la struttura. L’altezza tra il campo e l’ultimo pilone era di 33 metri. A corredare il tutto una pista d’atletica a otto corsie: assolutamente inutile, ma serviva ad accontentare qualche «papavero» e a ricevere finanziamenti dal Coni. Dopo San Siro e l’Olimpico di Roma, il Delle Alpi era lo stadio più capiente d’Italia. A inaugurarlo, il 31 maggio 1990, un’amichevole tra una «mista» Juve-Toro e il Porto. Terminò 4-3 per i bianconeri-granata: tripletta di Haris Skoro e rete di Angelo Alessio. Si annunciava una vita di gloria, in quella primavera del 1990. Ai Mondiali vennero disputate cinque partite: quattro del Brasile, compreso l’ottavo di finale in cui la triste e anonima Seleçao del c.t. Lazaroni si inchinò all’Argentina di Maradona e Caniggia, e la semifinale Germania-Inghilterra terminata con la vittoria dei tedeschi ai calci di rigore.
BELLEZZA Avvenuto il battesimo ci si aspettava che la gente imparasse ad amare questo luogo e ne facesse la propria casa delle emozioni. Non accadde. Troppo freddo per essere uno stadio, e non soltanto in senso atmosferico. Il pubblico era lontano dal campo, non partecipava, osservava la scena senza esserne chiamato dentro. E questo, alla lunga, provocò il disamore. L’avvocato Agnelli dichiarò: «Al Delle Alpi si vede male e poi è come giocare sempre fuori casa». Gli architetti, come spesso avviene, nel progettare il gigante non avevano tenuto conto dello scopo per cui veniva costruito. Che senso ha uno stadio che costringe gli spettatori a stare a cinquanta metri dai protagonisti? Esattamente il contrario del modello inglese, dove il prato è praticamente attaccato alle tribune, e lì sì che si sente la partita, si vive, si respirano la fatica, la gioia e la delusione. Fatto sta che anche per i tifosi più accaniti andare al Delle Alpi era diventato un supplizio. Eppure in quel catino il Torino aveva giocato la finale d’andata della Coppa Uefa, il 29 aprile del 1992: 2-2 contro l’Ajax che poi vinse il trofeo. E sempre al Delle Alpi nacque una delle Juventus più belle di sempre, quella guidata da Marcello Lippi, quella che aveva il tridente Vialli-Ravanelli-Del Piero (o Roberto Baggio), quella che vinse lo scudetto al primo tentativo nel 1995 e poi la Champions League nel 1996, e incantò l’Italia per la forza, la potenza e l’eleganza dei suoi interpreti. Qui Del Piero, nel dicembre del 1994, contro la Fiorentina, diede prova di essere un mago trasformando in gol, con un tiro al volo di esterno destro, un lancio che proveniva dalla difesa. In quel momento l’esaltazione collettiva cancellò la distanza che separava la gente dall’uomo dei sogni, così come accadeva quando Zinedine Zidane, sempre su quel prato, disegnava ghirigori che gli avversari non solo non interrompevano, ma neanche capivano tanto erano «lunari» e concepiti da una mente superiore.
FINALE Non bastò al Delle Alpi rivendicare queste bellezze per evitare di essere ripudiato. Nel Terzo Millennio l’epoca del gigantismo architettonico era finita, si ragionava in termini di spazio e ricavi economici. L’ultima partita della Juve al Delle Alpi fu contro il Palermo, il 7 maggio 2006: 2-1, reti di Nedved e Ibrahimovic, ma pochi festeggiamenti. Lo scandalo di Calciopoli, che avrebbe travolto l’intera dirigenza juventina, era una miccia già accesa. Un mese più tardi, il Torino battè il Mantova e salì in Serie A. Fu l’ultimo acuto al Delle Alpi.