Ugo Magri, La Stampa 10/10/2016, 10 ottobre 2016
COME CAMBIA IL BICAMERALISMO COL REFERENDUM
Il piatto forte della nuova Costituzione consiste nelle «disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario»: così sta scritto nel titolo della riforma, e questo scioglilingua troveremo il 4 dicembre sulla scheda. In soldoni, se l’Italia dirà “sì”, smetteremo di avere due Camere dotate di identici poteri. A farne le spese sarà il Senato che però, attenzione, non verrà del tutto soppresso come alcuni avrebbero preferito; dalla prossima legislatura svolgerà «funzioni di raccordo» con le Regioni e i Comuni, oltre che con l’Unione europea. In che cosa consisterà con precisione questo raccordo, il testo della riforma non si dilunga a spiegarcelo. Le competenze restano un tantino fumose. Per fare un esempio, esiste già un’apposita Conferenza, regolata per legge, che si occupa di dirimere le infinite diatribe tra Stato centrale e Regioni. Di qui la domanda: questa Conferenza verrà soppressa oppure, visto che si tratta di un meccanismo bene oliato, sopravviverà accanto al nuovo Senato? E in come si divideranno il lavoro?
Che faranno i senatori
Ciò che faranno in concreto i futuri senatori, e quanto sarà utile il loro lavoro, dipenderà moltissimo dal loro atteggiamento, se si affacceranno a Roma in gita ogni tanto oppure verranno a battere i pugni sul tavolo per conto del proprio territorio. Ci si augura la seconda delle due. E qui viene in gioco la diversa composizione, rispetto all’oggi: anziché 315 membri, più quelli a vita, la prossima assemblea di Palazzo Madama conterà in tutto 100 senatori, con un risparmio di 215 poltrone. Cinque resteranno di nomina quirinalizia per altissimi meriti al cospetto della Repubblica, con l’aggiunta (eventuale) degli ex Presidenti; tutti gli altri verranno «pescati» tra i consiglieri regionali e i sindaci. Con quali criteri, neppure qui è dato di sapere con esattezza, dal momento che «le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione» dei 95 membri andranno definite con apposita legge in un secondo momento. Sarebbe importante che questa futura legge elettorale mandasse in Senato chi conta (governatori e sindaci delle città metropolitane), anziché delegare la faccenda ai soliti perditempo.
Decisioni più rapide?
Ricapitolando: il futuro Senato cesserà di esprimere la fiducia al premier. Dunque, non potrà più cacciare un governo. E a parte le leggi costituzionali, o quelle che ne discendono in materia di enti locali, nemmeno metterà becco in materia legislativa. Al massimo, se una nuova legge non piace, i senatori avranno 7 giorni per chiedere di esaminarla, un mese per indicare le correzioni. Però l’ultima parola ce l’avrà la Camera, e secondo i fautori della riforma ciò si tradurrà in una salutare semplificazione della vita pubblica, decisioni finalmente rapide, governo molto più efficiente. Secondo i critici, invece, ci sarà da incrociare le dita: il giorno che a Palazzo Chigi arrivasse un tiranno non ci sarebbe più maniera di arginarlo. Il premier dovrebbe vedersela con una sola Camera che, grazie al premio di maggioranza stile «Italicum», sarebbe a sua immagine e somiglianza.
Eccezione in Europa
È proprio questa la ragione per cui, scottati dal fascismo, i padri costituenti avevano scelto il bicameralismo «paritario». Volevano che non ci fosse mai più una dittatura, nemmeno una «della maggioranza». Ma già negli anni Settanta non se ne poteva più dei rimpalli tra Montecitorio e Palazzo Madama, del Parlamento-doppione. Del resto, non c’è un solo Paese in Europa che abbia Camera e Senato esattamente sullo stesso piano. Gli scandinavi se la cavano niente male con un solo ramo del Parlamento. Francia, Spagna e Regno Unito delegano al Senato la rappresentanza territoriale. Oltre a noi, solo gli Usa hanno due Camere sullo stesso piano; però là c’è un presidente con valigetta atomica e super-poteri che Renzi si sogna.
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