Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 10/10/2016, 10 ottobre 2016
LE ESTETISTE POSSONO ASPETTARE
NON BASTANO 27 ANNI PER UNA LEGGE
IL DECRETO RISALE AL ’90, IL SETTORE SI OPPONE AL REGOLAMENTO DEL 2015 L’ULTIMA PAROLA AL CONSIGLIO DI STATO QUESTA SETTIMANA. FORSE
Ventisette anni non possono bastare, in Italia, per approvare un decreto sulle macchine per la depilazione laser o per il dimagrimento a ultrasuoni. Eppure la legge numero 1 del 1990, pubblicata il 5 gennaio di quell’anno sulla Gazzetta Ufficiale con il titolo «Disciplina dell’attività di estetista», parlava chiaro: entro 120 giorni i ministeri devono emanare un decreto per regolamentare l’uso degli apparecchi elettromeccanici nei centri estetici.
Di giorni ne sono passati quasi 9800 eppure la storia di quel decreto ancora non è finita. Tra ritardi dei ministeri, ricorsi e controricorsi, pareri scientifici e direttive europee, colpi di scena e amnesie, la prossima settimana questa telenovela burocratica conoscerà l’ennesima puntata davanti al Consiglio di Stato. Di sicuro c’è solo che non sarà l’ultima, lasciando nell’incertezza un settore che conta 30 mila aziende e 100 mila addetti, svolge un milione di prestazioni l’anno e vale centinaia di milioni di fatturato.
C’era una volta
Torniamo alla prima puntata. Era il 1990 quando la professione di estetista, sviluppatasi nell’edonistico decennio appena finito con l’ingresso della tecnologia tra pinze e cerette, fu disciplinata dal Parlamento. Il primo sito internet della storia, al Cern di Ginevra, doveva ancora andare online. «Uomini soli» dei Pooh vinceva il festival di Sanremo, il Napoli di Maradona il secondo scudetto. La Prima Repubblica vegetava sotto il sesto governo Andreotti, sostenuto dal pentapartito Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi.
La legge regolarizzava la professione e conteneva un elenco degli apparecchi elettromeccanici per uso estetico - dai vibratori elettrici oscillanti alle saune - ma rimandava a un successivo decreto le schede con i requisiti tecnici. Decreto da emanare entro 120 giorni a cura dei ministri dell’Industria e della Sanità. All’epoca erano il repubblicano Adolfo Battaglia e il liberale Francesco De Lorenzo, che presto diventerà uno dei simboli di Tangentopoli. Da allora si sono succeduti sedici governi. E su quelle poltrone si sono seduti altri 13 ministri della Sanità (ora si chiama «della Salute») e 19 dell’Industria (che nel frattempo ha cambiato nome due volte: prima Attività produttive, ora Sviluppo economico).
Incontri e discussioni
Eppure solo nel 2011 il decreto previsto nel 1990 ha visto la luce. Che cos’è accaduto nel frattempo?
I ministeri hanno discusso a lungo, istituendo tavoli tecnici con le associazioni di categoria e con il Consiglio superiore di sanità, che rilascia solo nel 2010 il prescritto parere, su cui si basa il decreto. Gli estetisti hanno poco da festeggiare: il decreto vieta i macchinari a ultrasuoni con effetto di cavitazione, che passando il manipolo sulla pelle distruggono le cellule grasse, curando gli inestetismi da adipe localizzato. «Serve un medico, non basta un estetista», dicono gli esperti del ministero. Anche i laser per la depilazione vengono decisamente limitati, perché se troppo potenti possono risultare pericolosi.
«Ma così si svuota completamente il riconoscimento della nostra professione che era l’obiettivo della legge del 1990», obietta Confestetica facendo partire l’inevitabile ricorso al Tar. «Se non possiamo usare le macchine fatte per noi, a che serviamo?». Nell’attesa dei giudici, gli estetisti ripongono nei depositi i macchinari di cavitazione (costo tra 30 mila e 50 mila euro) e i laser (15-20 mila euro). Chi vuole evitare la perdita di fatturato intorno al 30 per cento continua a usarli, ma a rischio di sequestro se arrivano i carabinieri.
Siamo a metà 2012. Il governo Berlusconi che aveva emanato il decreto è caduto. Cambiati i ministri, cambiati i capi di gabinetto. E guarda caso il Tar Lazio cambia in corsa il relatore sul ricorso di Confestetica. A giudicare sul decreto viene designato Mario Alberto Di Nezza, che guarda caso era capo di gabinetto del ministro della Sanità nel governo Berlusconi. Dunque uno degli autori di quel decreto.
Gli estetisti denunciano «il gravissimo conflitto di interessi» e ottengono la sostituzione del giudice. Ma questo incidente di percorso costa altri sei mesi di rinvio. Non solo: il Tar Lazio dà torto agli estetisti e conferma la validità del decreto.
Sipario? Macché. Gli estetisti non si danno per vinti e ricorrono al Consiglio di Stato, suprema istanza della giustizia amministrativa. Spiegano che sul mercato, dunque liberamente utilizzabili da chiunque, ci sono macchinari dello stesso tipo e con potenza maggiore di quelli vietati agli estetisti.
Passa un anno e mezzo, nel marzo 2014 colpo di scena: il Consiglio di Stato ribalta e demolisce sia il decreto ministeriale sia la sentenza del Tar sia il parere del Consiglio di sanità, in cui «si annidano significativi elementi di contraddittorietà» perché si vietano gli strumenti «senza evidenziare studi clinici o scientifici ovvero una casistica capace di corroborare l’assunto della pericolosità».
L’illusione
Un trionfo per gli estetisti, che finalmente possono togliere il cellophane dai macchinari riammessi alla legalità. Ma la gioia dura meno di due anni. Bisogna approvare un nuovo decreto. I ministeri chiedono un altro parere al Consiglio superiore di sanità, convocano le parti e istituiscono un immancabile tavolo. Inaspettatamente, il secondo decreto varato nell’ottobre 2015 ripropone vincoli e limiti del primo. «Anzi di più», protesta Simone Cantarini, l’avvocato degli estetisti che denuncia «un’inaccettabile quanto odiosa violazione della sentenza del Consiglio di Stato». Nel ricorso evidenzia tra l’altro che i ministeri, per giustificare il secondo decreto-fotocopia, richiamano due documenti del Consiglio superiore di sanità antecedenti alla sentenza che dovrebbero applicare.
Un caso di preveggenza ministeriale?
Si torna al Tar, che rigetta la richiesta di sospensione cautelare del decreto. Ora tocca al Consiglio di Stato, l’udienza è fissata questa settimana. Poi, in ogni caso, comincerà la trattazione del merito del ricorso. Prima al Tar, poi ancora al Consiglio di Stato. Altri anni.
Sono odissee burocratiche come questa a far precipitare l’Italia nelle classifiche internazionali sulla competitività. Secondo l’ultima del World Economic Forum, siamo al 103° posto su 138 Paesi monitorati per qualità delle istituzioni, al 128° per trasparenza delle decisioni politiche, addirittura al 136° (terzultimo) per oneri dovuti agli enti pubblici.
Chissà se con le prossime puntate dell’odissea degli estetisti riusciremo a scalare all’indietro anche le ultime due posizioni.
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