Giuliano Guzzo, LaVerità 8/10/2016, 8 ottobre 2016
DROGA, PERCHÉ IL PROIBIZIONISMO FUNZIONA
Dopo Raffaele Cantone e Franco Roberti, il capo dell’Anac e il procuratore nazionale antimafia, nei giorni scorsi anche Giovanni Maria Flick, l’ex presidente della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia, ha preso pubblicamente posizione a favore della legalizzazione della cannabis. E lo ha fatto in una intervista all’Espresso nella quale ha ribadito un aspetto già sottolineato da molti altri, vale a dire la necessità di «lasciarci alle spalle il secolo del proibizionismo», politica etichettata come eccessivamente dispendiosa e in definitiva fallimentare.
Ma è proprio così? Davvero, in materia di droghe, un atteggiamento repressivo è così superato come si sente dire? Il solo modo per farsi un’idea sull’argomento che oltrepassi il magmatico campo dell’opinabile, è volgere lo sguardo a quelli che sono stati, finora, gli esiti dell’esperienza.
Esperienza che, secondo la vulgata narcofila, avrebbe sancito il fallimento proibizionista in America già negli anni Venti del ‘900, quando col XVIII emendamento e il Volstead Act, venne sancito il bando sulla fabbricazione, vendita, importazione e trasporto di alcol, provocando – si racconta – il caos nonché una clamorosa impennata di consumi. La realtà dei fatti, però, è un’altra. Negli Stati Uniti la lotta agli alcolici infatti portò, fra il 1921 ed il 1934, al calo dei consumi, degli arresti per guida in stato di ebbrezza nonché delle ospedalizzazioni per patologie alcol correlate, quali la cirrosi (Harvard’s Kennedy School of Government, 1989). Tutti effetti, insomma, che è difficile considerare negativamente e tangibili, tanto che vi sono solo studiosi che ne criticano l’entità, senza però negare che vi siano stati (American Law and Economics Review, 2003).
Il fallimento del cosiddetto proibizionismo pare difficile da individuare anche da noi dato che in Italia, dal 2010, senza che notoriamente sia stato legalizzato alcunché, si è registrato un calo di uso di droghe nella popolazione generale, calo interrottosi solo dopo che, nel febbraio 2014, la Legge «Fini-Giovanardi» è stata bocciata dalla Consulta. Allo stesso modo, in Italia, un aumento di consumo di stupefacenti vi fu tra il 1995 e il 1999, ben prima cioè della «Fini-Giovanardi», quando il consumo generale di cannabis schizzò rapidamente in alto, passando dal 19 al 33%: non raddoppiò ma quasi e tutto, appunto, in appena tre anni (Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze, 1999). Ora, se da un lato si fatica dunque a comprendere su cosa mai poggi l’urgenza di «lasciarci alle spalle il secolo del proibizionismo», dall’altro non mancano dati che sconsigliano d’imboccare il sentiero antiproibizionista.
Si pensi al caso dell’Olanda dove, con la legalizzazione della vendita di marijuana, il consumo tra i 18-20enni dal 1984 al 1996 è passato dal 15% al 44%. Oppure si guardi alle più recenti politiche americane, i cui invidiabili «successi» sono stati così illustrati dal Gaetano Di Chiara, direttore del dipartimento di tossicologia all’Università di Cagliari: «L’esperienza degli Usa, dove 20 stati hanno legalizzato il fumo di cannabis per uso medico e due anche per uso ricreazionale, indica che la legalizzazione della cannabis aumenta soprattutto la quantità consumata pro capite [...] Non ha eliminato il mercato illegale ma ne ha semplicemente ristretto la clientela agli adolescenti e agli adulti che non possono permettersi il costo elevato della cannabis legale» (Il Sole 24 Ore, 18.5.2014).
Una conferma del flop della legalizzazione statunitense l’ha data, sul Corriere della sera, anche l’editorialista Guido Olimpio, il quale ha notato che, se «i rapporti ufficiali dicono che la legalizzazione della marijuana negli Usa sta privando i cartelli messicani di importanti guadagni», la realtà è che «seguendo quotidianamente le operazioni lungo la frontiera meridionale si nota come i narcos continuino a spedire quantità ingenti di marijuana. Non solo con i grossi zaini affidati agli spalloni, ma a bordo di veicoli riempiti in ogni singolo angolo». Questa ed altre evidenze, che per brevità evitiamo qui di riportare, suggeriscono insomma come vi sarebbe necessità di maggior prudenza prima di sentenziare sconfitto il proibizionismo e vittorioso l’antiproibizionismo.
Anche perché non è affatto chiaro il singolare meccanismo per cui, una volta che un determinato prodotto da illegale fosse reso commerciabile alla luce del sole, dovrebbe divenire socialmente meno attraente, tanto più che se si sta parlando, come nel caso della cannabis, di una sostanza che dà dipendenza; molto più plausibile è semmai il contrario, come i dati poc’anzi citati d’altra parte indicano. Ci pensino allora bene, i nostri parlamentari, nell’esaminare proposte legislative su questa delicata materia.
Ed evitino, se possono, di farsi sedurre da campagne basate sulle semplificazioni o da slogan che, ancorché rilanciati da figure istituzionalmente o intellettualmente autorevoli, tali rimangono, suffragati soltanto da letture parziali e in verità sconfessati da innumerevoli riscontri empirici, oltre che da quella vecchia ma insuperata arma che risponde al nome di buon senso.