Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 8/10/2016, 8 ottobre 2016
IGNAZIO CHE SCHIFO
Citare se stessi non è mai elegante. Ma siccome c’è sempre in giro qualche magliaro smemorato, ricordo quel che dissi l’8 ottobre 2015 (proprio un anno fa) a Otto e mezzo sul siluramento del sindaco di Roma Ignazio Marino. Coinvolto nello scandalo delle cene private a spese del Comune (rivelato dal nostro giornale come scandalo politico, non giudiziario), Marino era stato appena sfiduciato dal suo partito per ordine di Renzi. E non con un voto alla luce del sole in Consiglio comunale, ma con la convocazione dei consiglieri Pd al buio dello studio di un notaio per firmare, sotto gli occhi del presidente-commissario Orfini, un’ingiunzione di sfratto tanto inedita quanto illegittima. Quella sera domandai al sindaco di Firenze Nardella perché esattamente il Pd licenziava Marino: a) perché governava male? b) perché era sospettato di aver cenato con parenti e amici a spese del Comune? c) perché era indagato? d) perché l’aveva nascosto? Qualunque risposta avesse dato, si sarebbe creato un precedente valido per tutti i casi analoghi. Infatti il Pd rispose con varie supercazzole, tipo “si è esaurito il rapporto di fiducia tra il sindaco e i cittadini” (e chi l’aveva stabilito, visto che Marino era stato eletto da soli due anni?).
Altrimenti Renzi, per coerenza, avrebbe dovuto, a sua scelta: a) dimissionare tutti gli amministratori Pd che governano male; b) pubblicare gli scontrini di tutte le sue presunte spese istituzionali da sindaco di Firenze (carte che lui e Nardella nascondono tuttoggi) e, se ne fosse emerso qualcuno fuori regola, sloggiare da Palazzo Chigi; c) cacciare tutti gli inquisiti fra i suoi amministratori (tipo De Luca), parlamentari (una ventina) e membri del governo (uno, Castiglione, è financo indagato per Mafia Capitale); d) defenestrare tutti i bugiardi, a cominciare da se stesso. Insomma, fu subito chiaro che Marino veniva licenziato in tronco, anzi in Tronca, perché non faceva parte del Giglio Magico, dunque andava rottamato alla svelta per piazzare in Campidoglio un uomo del premier, il supercommissario paracadutato da Milano all’insaputa degli elettori. Quando l’inchiesta approdò al processo, il 12 maggio, ci ritornai sul Fatto: “Essendo indubitabile che 6-7 cene di Marino fossero state rimborsate con soldi pubblici, ma altrettanti commensali istituzionali avessero smentito di avervi partecipato…, o aveva ragione Marino nel sostenere che le note spese erano state firmate dalla sua segreteria contro la sua volontà; o Marino aveva abusato di denaro pubblico e poi mentito per nasconderlo”.
Quindi era “la sua parola contro quella di altri” e “per parlare di dimissioni occorreva attendere almeno l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio, o il rinvio a giudizio di un giudice terzo”. Ora che il giudice ha sentenziato, assolvendo Marino sia per le cene (peculato) sia per gli assegni della sua onlus (falso), c’è poco da aggiungere. Ciascun partito è libero di allontanare un amministratore coinvolto in uno scandalo, giudiziario o meno. Ma a tre condizioni. 1) Che rispetti le procedure democratiche, che in quel caso passavano dalla convocazione del Consiglio comunale e dall’approvazione di una mozione di sfiducia da parte degli eletti, dopo avere ascoltato le ragioni del sindaco. 2) Che fissi regole chiare e non decida caso per caso, in base alla vicinanza o meno dell’interessato alla cricca del Capo. 3) Che applichi quelle regole sempre e a tutti, anche agli avversari. Invece Marino fu cacciato senza regole e violando le procedure, da chi non voleva ammettere che il motivo non erano i suoi errori (molti), ma i suoi meriti (pochi): tipo quello di governare in autonomia dal Pd e dai poteri forti, senza chiedere il permesso ai vari Caltagirone. Gli stessi meriti (pochi) che oggi, a prescindere dagli errori (molti), sono alla base della campagna forsennata contro la giunta Raggi. Chi ha cacciato Marino senza spiegare il perché, e si tiene al governo, in Parlamento e negli enti locali indagati, imputati o addirittura condannati in primo grado, anche per fatti molto più gravi delle cene dell’Ignazio, ora crocifigge la Raggi perché non dimissiona l’assessora Muraro, l’unica indagata che dovrebbe andarsene mentre tutti gli altri restano.
La storia, mutatis mutandis, si ripete un anno dopo. Essendo una persona sostanzialmente perbene, Marino aveva salvato la faccia del suo partito restando immune (diversamente da molti boss pidini) da Mafia Capitale. Certo, era un gaffeur professionista e governava fra mille guai e difficoltà, in parte ma non tutti addebitabili alla sua inadeguatezza. Però era stato eletto dal popolo, e solo il popolo nelle successive elezioni, o i consiglieri eletti dal popolo, avrebbero potuto sfiduciarlo. Invece il Pd lo silurò con pretesti ad personam. Risultato: il Comune di Roma e 11 municipi capitolini su 13 sono ora in mano ai 5Stelle. E chi è riuscito in questa leggendaria impresa è sempre lì a nascondere i suoi scontrini e a far la predica agli altri. Anzi, a tentare di rovesciare un altro sindaco eletto dal popolo. Ma Renzi, incoerente e doppiopesista sulla questione morale, è però molto lineare sulla sua filosofia politica: le elezioni sono un optional. Infatti governa senza essere mai passato per le urne, con un programma mai sottoposto al voto degli elettori (non a quelli del suo partito: a quelli di B. sì) e ora tenta di propinarci una legge elettorale che rende pressoché inutili le elezioni per la Camera con l’Italicum (2/3 dei deputati se li nominano i capi-partito) e una controriforma costituzionale che abolisce non il Senato, bensì le elezioni per il Senato. Ma guai a parlare di svolta autoritaria: la gente potrebbe capire.