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 2016  ottobre 09 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA DIREZIONE DEL PD REPUBBLICA DI OGGI CARMELO LOPAPA ROMA. Direzione Pd da ultima spiaggia, in cui le conclusioni sembrano già scritte, rottura compresa

APPUNTI PER GAZZETTA - LA DIREZIONE DEL PD REPUBBLICA DI OGGI CARMELO LOPAPA ROMA. Direzione Pd da ultima spiaggia, in cui le conclusioni sembrano già scritte, rottura compresa. «Io ce la metterò tutta per ritrovare l’unità, dopo di che, mi rivolgerò ai nostri elettori, che voteranno in gran parte Sì e seguiranno la linea del partito, più che ai nostri dirigenti », racconta alla vigilia ai suoi Matteo Renzi. Non prende sotto gamba i venti di guerra che la sinistra interna sta facendo soffiare in vista dell’appuntamento di domani a Largo del Nazareno. Ma non è disposto nemmeno a una «resa su tutta la linea» sulla riforma della legge elettorale posta come condizione, consapevole che la minoranza interna le sue somme le abbia ormai tirate. Operazioni come il “Comitato dei democratici per il No”, lanciato ieri tra gli altri dall’ex portavoce di Pierluigi Bersani, Stefano Di Traglia, e le interviste degli ultimi giorni (vedi Roberto Speranza in questa pagina) vengono considerate dal quartier generale della Segreteria il preludio dello strappo finale sul referendum e poi di chissà cos’altro ancora. E a poco varrà l’apertura a una modifica dell’Italicum che il segretario dem ribadirà in direzione e anticiperà forse anche nell’Arena di Massimo Giletti oggi pomeriggio su Raiuno (martedì il tour tv proseguirà con Politcs di Gianluca Semprini su Raitre). In nome della sempre più complicata unità, in vista del referendum del 4 dicembre, il presidente del Consiglio metterà sul piatto del parlamentino dem la disponibilità ad andare a “vedere le carte” degli altri partiti sulla legge elettorale attraverso una sorta di delegazione. Parlamentare e non governativa, composta magari dai capigruppo Luigi Zanda e Ettore Rosato, dai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani. In ogni caso, non ci sarà una proposta “renziana” o di governo per superare l’Italicum, ritenuta una «buona legge». Anche perché fuori dal Pd ogni partito ha la sua, di ricetta. Il sottosegretario ai Rapporti col Parlamento, Luciano Pizzetti, preannuncia che si possono ritoccare le «pluricandidature» e che «se si vuole cambiare in profondità l’italicum il tema non è quello della coalizione, ma dell’accesso al ballottaggio: importante è salvaguardare il principio dell’alternanza ». Basterà? La sinistra dem già alla vigilia giudica la proposta inaccettabile, un modo per prendere tempo e incassare intanto il Sì al referendum. Resta da capire se sulle posizioni di Bersani e i suoi si attesterà anche Gianni Cuperlo. Dettagli. Quella di domani sarà «l’ultima chance» avverte da sinistra Giorgio Merlo. «La semplice apertura di Renzi è ridicola, insufficiente - stronca il senatore Manuel Gotor - Avremmo voluto che mettesse sulla modifica dell’Italicum la stessa determinazione mostrata per approvarla. Vuole solo dimostrare ad alcune personalità che lo hanno spinto al confronto che lui c’ha provato». Dunque sarà No al referendum? «Non possiamo lasciare centinaia di migliaia di elettori alla rappresentanza dell’Anpi a sinistra - risponde - La nostra non è una rottura, ma una presa d’atto inevitabile». INTERRVISTA A SPERANZA NAZIONALE - 09 ottobre 2016 CERCA 4/5 di 60 9/10/2016 le scelte dei partiti Roberto Speranza. Ultimatum del leader della sinistra Pd: svolta o rottura, basta annunci generici “Il tempo è scaduto l’Italicum resta, voto No” GIOVANNA CASADIO ROMA. «Il tempo è scaduto». Roberto Speranza, uno dei leader della sinistra del Pd, rompe gli indugi sul referendum, alla vigilia di una direzione del partito, domani, che - prevede - non sembra promettere cambi di rotta da parte di Renzi. Speranza, lei non ha dunque più incertezze su come votare al referendum? «Il tempo è finito. Parteciperò alla direzione e ascolterò con attenzione come sempre. Ma non sono disponibile a nuove meline e mediazioni al ribasso, si poteva fare molto per rimediare l’errore della legge elettorale, dell’Italicum. Lo chiediamo da mesi, appellandoci al dialogo. Purtroppo non si è fatto nulla». Tempo quindi scaduto. E lei e la sinistra del Pd voterete No al referendum? «Con l’Italicum, il nostro voto è No». Eppure ci sono state aperture di Renzi per un cambiamento dell’Italicum: non bastano? «Sono contento che si parli di legge elettorale. È la lex politica per eccellenza, esprime l’idea che abbiamo di democrazia. Ora si dice “siamo disponibili a cambiare”. Ma vorrei ricordare tutta l’energia messa per l’Italicum. Nell’aprile del 2015 quando l’abbiamo approvato, 10 deputati sono stati sostituiti in commissione, il governo ha messo la fiducia, la terza volta in 150 anni, unici precedenti la legge truffa e la legge Acerbo sotto il fascismo. Noi non abbiamo votato la fiducia, io mi sono dimesso da capogruppo del Pd». La minoranza dem chiede un’iniziativa del governo sulla legge elettorale. Il segretario- premier invece si appella al Parlamento. Non vi trovate proprio... «La direzione è l’ultima possibilità. Però non per annunci generici: il governo e la sua maggioranza hanno prodotto il disastro dell’Italicum, ora senza una loro vera iniziativa ogni mossa e invito al Parlamento, è una perdita di tempo». Ma la questione del “combinato disposto” riforma costituzionale- Italicum non è pretestuosa? «Legge elettorale e riforma costituzionale rappresentano un’unica grande riforma dell’architettura istituzionale. Una sola Camera farà le leggi e darà fiducia. È ovvio che il modo in cui si elegge quella Camera è decisivo. Da mesi dico che questo meccanismo non va perché cambia la forma di governo. L’unica strada per scongiurarlo è votare No». Dicono i renziani che qualsiasi proposta sarebbe per la sinistra dem insufficiente, dal momento che l’obiettivo è sloggiare il premier-segretario, è così? «Direi che è piuttosto una scusa loro, per non rispondere nel merito». Il referendum è una sorta di resa dei conti nel Pd. Dopo c’è la scissione? «Io non lascerò mai il Pd e il Pd non si dividerà dopo il referendum. Ma non neghiamo la realtà, una parte significativa degli elettori del centrosinistra è già sul No. Sono nostri elettori. E c’è un quel pezzo della comunità dem che purtroppo si sente già fuori dal Pd. In questi mesi si è diviso il paese. Siamo di fronte alla più lunga campagna elettorale della storia repubblicana, con toni spesso sopra le righe. Vanno abbassati. La prima responsabilità tocca al premier, gli consiglierei di parlare un po’ meno di D’Alema e un po’ di più dei problemi del paese. È diventato un dalemologo ». Non la imbarazza essere in compagnia di Salvini? «Mi sento piuttosto in compagnia dell’Associazione dei partigiani, della Cgil, dell’Arci». E farà campagna per il No? «Non sarò certo chiuso in casa per i prossimi due mesi». ©RIPRODUZIONE RISERVATA “ TOCCA AL GOVERNO Una mossa la deve fare il governo che ha prodotto il disastro della legge elettorale, non il Parlamento ” EX CAPOGRUPPO Roberto Speranza, 37 anni, uno dei leader della sinistra Pd, è stato capogruppo alla Camera all’inizio della legislatura. Si è dimesso perchè contrario all’Italicum CORRIERE DI OGGI ROMA Matteo Renzi schiera anche i sindaci del Pd. Il 27 ottobre, due giorni prima della manifestazione nazionale a favore del referendum in piazza del Popolo, centinaia di sindaci democratici, ma non solo (ci sarà tra gli altri anche Flavio Tosi), si vedranno in piazza di Spagna, per un’iniziativa che sarà coordinata dal sindaco di Milano, Beppe Sala. Al raduno dei sindaci lavorano Graziano Delrio e Angelo Rughetti da tempo. Ne è nato un coordinamento, cui hanno aderito 900 sindaci, che è già attivo e prevede la formazione di comitati a favore del Sì, iniziative locali, dibattiti. L’evento in programma nella Capitale sarà uno degli sbocchi naturali. Il primo in grande stile. Ci saranno anche sindaci centristi, del partito di Alfano, l’obiettivo sarà mostrare al Paese che esiste un’ossatura istituzionale che lavora perché la Carta costituzionale venga riformata. Insomma già prima di novembre le iniziative a favore del Sì si moltiplicheranno. Renzi ha annunciato un appuntamento alla Leopolda, il Comitato per il Sì ha lanciato una campagna nazionale di affissioni, spot sul web, mentre la direzione di domani del Pd potrebbe sancire una rottura con la minoranza del partito che per Renzi appare già messa nel conto. Il capo del governo resta al momento convinto che gli italiani alla fine capiranno le buoni ragioni della riforma, e che lo sforzo mediatico di chi vuole il No «fa molto rumore» ma avrebbe già raggiunto il massimo del consenso a disposizione. Nello staff del presidente del Consiglio infatti fanno i conti con gli indecisi, dicono che la maggior parte propende per il Sì, che con il passare delle settimane, e dal momento in cui entrerà in vigore la legge sulla par condicio, il dibattito si trasferirà sul piano del merito, avrà meno caratura politica, e alla fine la forbice attuale dei sondaggi fra No e Sì potrebbe accorciarsi, sino ad invertirsi. Almeno questo è l’auspicio. Il giudizio sui primi confronti tv del resto è positivo. Da quelli di Renzi con il costituzionalista Zagrebelsky a quello del ministro Maria Elena Boschi con il leader della Lega, Matteo Salvini, la valutazione è improntata alla soddisfazione: starebbe emergendo che le ragioni del No sono maggiormente politiche, personali, piuttosto che tecniche e fondate sul merito della riforma. Ieri una difesa nel merito della riforma è stata fatta dal sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, Luciano Pizzetti: parlare di «combinato disposto» a proposito di riforme costituzionali e di legge elettorale «è un artificio politico. La verità è che la riforma così come è strutturata — «con un quorum molto alto per l’elezione degli organi di garanzia» e la «pronuncia anticipata» della Consulta sulla legge elettorale — «mette in salvaguardia il sistema. Anche di fronte ad una legge elettorale maggioritaria o che preveda un premio». Quanto all’Italicum, «c’è un punto che può essere modificato: le pluricandidature e la scelta di colui che è eletto. Credo che l’eletto debba esserlo là dove ha ricevuto più consensi e non nel collegio per cui decide di optare». Temi che verranno affrontati anche nella direzione del Pd di domani. Altra difesa della riforma costituzionale quella del ministro Maria Elena Boschi: «La scelta è oggi, non domani, non tra sei mesi. Il testo approvato riduce di un terzo i parlamentari, uno su tre non rientra». E alle accuse che parlano di riforma «frettolosa» replica: «C’è stato confronto vero in Parlamento e i dati non sono secondari: abbiamo superato 5.600 votazioni, fronteggiato oltre 83 milioni di emendamenti delle opposizioni, superato le votazioni con una maggioranza sempre tra il 57 e il 59 %, più ampia di quella che sostiene il governo». INTERVISTA A BERSANI DALLA NOSTRA INVIATA PIACENZA «È un anno che l’Italia mangia solo pane e riforme, ora basta». Pier Luigi Bersani ha deciso. Con sofferenza pari solo alla preoccupazione per il futuro del Paese l’ex segretario del Pd è rassegnato ad ufficializzare il suo No al referendum, domani in direzione nazionale: «Renzi proverà a stanarmi con una proposta sull’Italicum? Chiacchiere. Lo riteneva ottimo e perfetto, tanto che lo approvò con la fiducia. E ora non mi venga a dire che darà l’incarico a Zanda e Rosato di trovare un sistema migliore. Non mi si può raccontare che gli asini volano. Vediamo in direzione, ma io non mi aspetto nulla». Uno strappo che il leader della minoranza considera inevitabile, non tanto per il merito di una riforma votata anche dalla sinistra dem, quanto per le prospettive politiche disegnate dal «combinato disposto» con l’Italicum. È un Bersani deluso e turbato quello che alle 23 di venerdì era ancora lì a ragionare e a sfogarsi nel gremito Auditorium Sant’Ilario, durante un confronto con Giuliano Pisapia organizzato dall’associazione Alice: «Se parlo fuori è perché nel Pd non si può. In un anno e mezzo non ho mai avuto occasione di discutere di riforme nel partito. E dire che un po’ ci capisco». Si sente messo da parte, come D’Alema? «Anche con me non sono andati per il sottile, sono stato trattato come un rottame. Non ho ragioni per difendere D’Alema, ma deve esserci un limite a questa cosa volgare del vecchio e nuovo, che riguarda le idee e i protagonisti di una stagione. Nell’Ulivo c’erano anche idiosincrasie e liti furibonde, ma perbacco c’era una cosa da tenere assieme e c’era il rispetto, tanto che D’Alema propose Veltroni segretario e Prodi presidente della Commissione europea». Luca Lotti ha mancato di rispetto all’ex premier? «Quando questo Lotti dice a D’Alema che è accecato dall’odio per una poltroncina va fuori dal seminato. C’è un limite, perché se sei dove sei c’è sempre qualcuno che ti ci ha portato. Invece ora tutto quello che c’è prima è da sputarci su... Così vai a sbattere». Davvero non pensa alla scissione? «Noi abbiamo cercato di salvare il salvabile, ma a volte trattenersi è molto difficile. E anche adesso dico quel che dico perché un pezzo del nostro popolo non vada via, restando vittima di cattivi pensieri. Non puoi sempre farti vedere con Marchionne e Polegato». Non le basta che Renzi abbia spersonalizzato? «Perché riconoscesse l’errore c’è voluto Jim Messina, ma Jim Bettola glielo va dicendo da mesi gratis — scherza Bersani parafrasando il nome del guru americano con quello della sua cittadina di origine —. Tu che sei il premier non puoi dire al mondo che il tuo Paese è davanti al giudizio di Dio, sull’orlo di un abisso, perché così dai adito a tutte le speculazioni. Perché alzi la posta sulla Costituzione? È un precedente gravissimo. Abbassiamo i toni e rassicuriamo il mondo. È solo una cosa italo-italiana». Per i renziani lei non parla del merito perché ha già deciso di votare No. «Riformiamo il Titolo V? Bene. Meno navetta tra le due Camere? Ottimo. Ma non stiamo cambiando il sistema, quindi voliamo basso, non carichiamo la molla spaccando l’Italia e il centrosinistra». Non è esagerato l’allarme sulla tenuta democratica? «È il tema prioritario, e la legge elettorale è la cartina di tornasole. Aver impugnato la Costituzione quasi in direzione di un meccanismo plebiscitario è consono a una semplificazione troppo drastica». Però scusi, la riforma non cambia la forma di governo. «Da sola no, ma in combinazione con la legge elettorale la cambia radicalmente. Si va verso il governo di un capo, che nomina sostanzialmente un Parlamento che decide tutto, anche con il 25% dei voti». Se la riforma passa, potrà ridiscutere l’Italicum... «Ci credo poco. In tutta Europa si cercano sistemi in grado di rappresentare quel magma che c’è, e noi ci inventiamo il governo del capo? C’è da farsi il segno della croce. Nella legge elettorale bisogna metterci dentro un po’ di proporzionale, invece che prendere tutta altra strada per sapere alla sera del voto chi comanda». Ha già la testa al congresso del Pd? «Al congresso sosterrò la tesi che non si può tenere assieme segretario e premier. Vorrei che il Pd si accorgesse dei rischi, separasse le funzioni e mettesse questo gesto a disposizione di un campo largo di centrosinistra». E Alfano, Verdini, il partito della nazione? «Qualcuno sta rompendo i ponti con la tradizione convinto di prendere i voti della destra, ma non ci metto la firma su una prospettiva così. Se passa il Sì, temo che Renzi prenda l’abbrivio e vada dritto con l’Italicum. Ma non sono disposto a mettere in mano il sistema a quella roba inquietante che sento venir su dal profondo del Paese». Sente aria di elezioni e teme che il sistema finirà in mano a Grillo? «A turbarmi non è Grillo ma l’insorgenza di una nuova destra in formazione, aggressiva, non liberale, protezionista, che, da Trump a Orbán, cerca le sue fortune. Il ripiegamento della globalizzazione ha portato un aumento bestiale delle disuguaglianze. La sinistra deve trovare una nuova piattaforma di base di diritti del lavoro. La ricetta? Welfare, fedeltà fiscale, basta bonus e voucher». Lei e Pisapia sarete nella stessa alleanza alle prossime elezioni? «C’è una urgenza estrema di organizzare un campo largo di centrosinistra». Un tweet su Ignazio Marino assolto? «Se il modo ancor l’offende, francamente non ha tutti i torti». LA STAMPA Carlo Bertini In vista della Direzione di domani, chi è vicino al premier è scettico, «se i vari democristiani al lavoro trovano un accordo con i compagni bene, se no Matteo menerà fendenti. I sondaggi interni ci dicono che i nostri elettori votano quasi tutti sì, allora perchè dannarsi se questo strappo non si riverbera sul consenso?». Che il pensiero del “dopo” 4 dicembre alberghi in ogni testa e che il clima non sia disteso pure nella tolda di comando, lo dimostra la battuta al vetriolo di Renzi all’indirizzo di Franceschini ieri a Firenze: «L’ultimo ferrarese che è passato di qui», gli ha detto alludendo a Savonarola che morì sul rogo, «ha fatto una brutta fine, una finuccia...». Risate e lazzi, ma il pensiero primario ora è vincere. Dunque, pur dovendo fare i conti con Alfano e Verdini che devono garantire i loro senatori che c’è una scialuppa di salvataggio pronta nel nuovo Italicum, il premier vuole togliere ogni alibi alla minoranza dei suoi irriducibili oppositori. La mossa del cavallo «Io sono pronto a discutere di tutto, credo che l’Italicum sia una buona legge però sono disponibile a confrontarmi senza alcun tabù». Fissando bene in terra alcuni paletti, come il sì a una legge che non abbia come sbocco le larghe intese, domani il leader-segretario dovrebbe fare un discorso di questo tenore, per tentare l’ultima conciliazione con l’ala dura dei ribelli, quella che fa capo a Pier Luigi Bersani. Un discorso che potrebbe dar la stura ad una rivoluzione di sistema, una mano tesa di chi è pronto a sacrificare perfino il totem del ballottaggio sull’altare di un accordo: apertura che i «compagni» potrebbero cogliere al balzo come cambio di passo significativo - della serie mettiamoci al lavoro insieme su un testo del Pd e andiamo a vedere le carte degli altri - oppure chiudendo la porta, tempo scaduto, ormai siamo fuori. Come si capisce, dai discorsi informali tenuti in queste ore dalle «colombe» come Guerini o Delrio, o i leader dei «turchi» Orlando e Orfini, le diplomazie si muovono sul filo e la situazione è tesissima. Colloqui con tutti i gruppi Sì perché in queste ore tutta la battaglia dentro il Pd si gioca su una parola, passare da una legge che «garantisce» la governabilità, ad una che la «favorisce», ovvero dà un premietto in seggi a chi arriva primo, ma non assicura la maggioranza. La mossa per stanare Bersani e compagni e metterli alle strette sul referendum, Renzi l’ha già in tasca, se la giocherà in Direzione dipenderà dai toni e dal clima. A sentire i suoi, è intenzionato a fare questa apertura: mostrandosi disposto a dar vita ad un’iniziativa in Parlamento; ma anche a far cadere un tabù, quello del doppio turno: la diga che in questa fase separa le truppe del Sì da quelle del No nel grande esercito di graduati e militanti del Pd schierati sul campo nella campagna referendaria. Sì perché è noto che il ritocco del premio di maggioranza alla coalizione, invece che alla lista, non basta ai «compagni» per abbandonare il fronte del No. Serve il turno unico per poter dire che tutto il potere in Italia non finisce nelle mani di una sola forza politica. Comunque sia, mentre è sicura la decisione di affidare la verifica delle posizioni degli altri gruppi sui tempi e sul merito a una delegazione Pd formata da Guerini e i capigruppo Rosato e Zanda - qualcuno propone pure di allargarla a esponenti della minoranza come Speranza o Cuperlo - si sta valutando pure se mettere ai voti in Direzione un documento. Che contenga le posizioni che Renzi ha assunto, prendendo atto delle richieste di aggiornamento dell’Italicum anche nel gruppo Pd. «Usando questa formula verrebbe superato il paletto sul secondo turno», spiega un addetto ai lavori. «Perché mentre all’inizio prevaleva il dogma che il ballottaggio è essenziale, oggi non c’è più il veto». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI Protesta Un uomo protesta sul tetto della Scala esponendo uno striscione per il no. I vigili del fuoco mettono in salvo il contestatario pag. 2 di 2