Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 2/10/2016, 2 ottobre 2016
LINO BANFI: «CON ME RIDEVANO TUTTI, MA SOLO ADESSO HANNO IL CORAGGIO DI CONFESSARLO» – Vita reale, esterno giorno: “Sono a Milano e dall’altra parte della strada vedo un macchinone nero con la bandierina dello Stato Vaticano sul cofano anteriore
LINO BANFI: «CON ME RIDEVANO TUTTI, MA SOLO ADESSO HANNO IL CORAGGIO DI CONFESSARLO» – Vita reale, esterno giorno: “Sono a Milano e dall’altra parte della strada vedo un macchinone nero con la bandierina dello Stato Vaticano sul cofano anteriore. L’autista mi saluta, io mi avvicino e mi accorgo che dietro di lui c’è un cardinale. ‘È spagnolo’, dice l’uomo alla guida, è in imbarazzo ma vorrebbe tanto dirle una cosa. ‘Eminencia – rispondo – dica quello che vuole’. Il porporato si lascia andare e sillaba un: ‘Porca puttena’. Poi sorride: ‘In Vaticano non posso farlo mai’”. In camicia hawaiana, Lino Banfi reagisce all’autunno raccontando di fratelli vestiti di grigio nelle decadi più rigide: “Giuseppe faceva l’agente di custodia alla Carceri Nuove di Torino negli anni delle Br”, e di abiti per tutte le stagioni che è stato difficile togliersi di dosso: “C’era tanta gente che con i miei film rideva ma non lo poteva dire. Si vergognavano e adesso, forse perché ho 80 anni, me lo confessano: ‘Scusaci, ci pisciavamo addosso per le risate ma non potevamo ammetterlo’. Ho incontrato tanta gente con la puzza sotto il neso. Mi dispiaceva, ma li perdonavo”. Nelle more di quella che lui chiama “Metamorfosi banfiota”, attraverso la fame, la dura gavetta nell’avanspettacolo, i premi, il sacro, il profano e il registro drammatico alternato all’ilarità dopo una vita di sola commedia: “Una benedizione perché si deve ridere e piangere allo stesso tempo e io mi ero rotto le palle di fare solo il buono”, Banfi ha scritto un libro: “Sulla prima copia mi sono fatto una dedica da solo: ‘Grazie all’amico intimo e mio ispiratore, Pasquale Zagaria. Senza di te non avrei mai potuto scrivere un chezzo”. Con voluto refuso, Hottanta voglia di raccontarvi… la mia vita e altre stronzète (Mondadori Electa) celebra età e incontri. Risi, Peppino De Filippo, Totò e Fellini. Alle pareti c’è una lettera del maestro: 10 ottobre 1991: “Caro Lino, scusa se ti scrivo a macchina, ma ho una calligrafia che fa venire i nervi anche a me… dovrebbe capitare una volta o l’altra che ci si trovi in qualche occasione di lavoro”. Fellini si augurava di poterla avere in un suo film. Non è successo, come non è successo con Scola o con Monicelli. Mario diceva che avevo i tempi giusti. E Federico se ne è andato troppo presto. Nel libro gli rispondo con 25 anni di ritardo. Fellini sapeva che venivo dall’avanspettacolo e amava farsi raccontare delle storie. Una volta, mentre doppiava La Voce della Luna, rise così tanto ascoltando i miei aneddoti che scivolò dalla poltrona. Lei cosa aveva raccontato? La storia – vera – del gay che alla compagnia chiedeva di poter recitare e non ballare perché tutte le volte che accennava a un passo, dalla platea, una platea spietata che Federico mise poi in Roma, piovevano fischi e urla. ‘Frocio’, ‘checca’, ‘invertito’. Un giorno questo ragazzo si ribellò, entrò in scena e senza che lo sketch lo prevedesse prese la parola: ‘Ahò, fate parlà anche me?’. Il pubblico fece silenzio e lui iniziò: ‘Sono arrivato alla stazione di Pescara – disse – e non appena sceso dal treno un signore mi ha apostrofato con un preciso nome di verdura. Non è sedano e non è carota, se qualcuno ha sentito può aiutarmi?’. In Platea? Un delirio di grida: finocchio di qua, finocchio di là. All’ultimo ‘finocchio’, il ragazzo si ferma, guarda dritto l’urlatore, fa la giusta pausa e dice: ‘Finocchio! È quella! Ma allora se il signore è stato a Pescara prima di me, è senz’altro esperto della materia’. A quel punto fa il gesto dell’ombrello ed esce nel tripudio. Lei all’epoca si chiamava Lino Zaga. Una riduzione di Pasquale Zagaria, il mio nome. A Totò, da cui il proprietario del teatro omonimo Graziano Jovinelli mi mandò con un biglietto di raccomandazione, Lino Zaga non piaceva: ‘I diminutivi dei nomi portano bene, quelli dei cognomi male’. Gli promisi di cambiarlo. Tempo dopo, mentre trattavo con l’impresario di turno un ingaggio malpagato, a un tratto, dissi che Lino Zaga non c’era più. Raccontai di Totò e dopo un breve momento d’attenzione, l’altro la fece breve: ‘Fai come ti pare, ma scegli. Devo stampare i manifesti’. Ero indeciso e un po’ diffidente: ‘Mettimi il chezzo di nome che vuoi, basta che mi paghi’. ‘Facciamo così – disse lui, che faceva il maestro elementare e aveva voglia di tagliare la testa al toro – adesso tiro fuori il mio registro di classe e tu scegli un cognome a caso’. Puntai il dito su Aurelio Banfi. Lino Banfi nacque così. Festeggiamo con Frascati e gazzosa. Mezzo litro. Una cosa tremenda. L’avanspettacolo era faticoso? Non avevamo una lira e campavamo di supplì. Al ristoratore che a noi disgraziati faceva credito, chiedevamo una mezza pasta e fagioli abbondante e in quel piatto con il sugo inzuppavamo il pane fino a saziarci. Eravamo morti di fame. Da Totò c’ero andato per quello. Per trovare un lavoro? Per avere un’occasione. ‘I soldi – mi aveva chiesto tartagliando Jovinelli nella catechesi che precedette il mio incontro – non li devi prendere per nessuna ragione’. Totò era un generoso e li dava a tutti. Andai. Pioveva. Con un impermeabile trasparente come un profilattico, magro da far paura, mi misi in attesa. Totò apparve in accappatoio bordeaux con una busta in mano. Dopo avermi ascoltato me la porse. La tenni in mano e poi la restituii: ‘Non posso principe, io non ho bisogno di soldi, ho bisogno di lavorare. Poi ho promesso che non li avrei presi, sono pugliese, ho una parola sola’. Al fruscio, banconota più banconota meno, stimai almeno 50 supplì. Totò apprezzò il gesto e in fondo fui contento di non aver ceduto alla tentazione. Jovinelli mi voleva bene. Mi vedeva come un intellettuale. Uno che non si smarriva nelle trappole del condizionale e del congiuntivo. ‘Andiamo da Lino che è colto’, diceva. Mi trattava come un plurilaureato, a me che a stento avevo varcato la porta del Liceo. In principio lei ha avuto la valigia sempre in mano. La prima vera emigrazione fu da Canosa a Napoli dove a 18 anni mi iscrissi all’ufficio di collocamento come attore. A Napoli sono stato iniziato al sesso. Venivo dal seminario e cercavo un bordello per fare la mia prima scopata. ‘Il migliore si chiama il 18’. Prendo l’indirizzo e l’11 luglio, nel pieno del caldo afoso, mi presento alla porta. Ero caruccio, snello, con il capello ondulato, ma ero un ragazzino: ‘Guagliò, che vai cercando?’. Spiego e vedo la matrona dubbiosa: ‘Ma tu ce l’hai gli anni che dici?’. Mostro la carta di identità e quella si accorge che è il mio compleanno: ‘Carmelina, Assunta, correte’. Arrivarono le donnine nude. Una festa, una sorta di ammucchieta. È difficile immaginarla come un adone. E invece mi ingaggiarono anche per i fotoromanzi. Magari non nel ruolo del protagonista, ma per un po’ di tempo arrotondai con quelli. Era facile e non c’era bisogno di grande impegno recitativo: se dovevi dire un vaffanculo bastava alzare un dito, fare la faccia dura e rimanere immobile. Chi la aiutò agli inizi? Una gran mano involontaria me la diede Montesano. Litigò con Lando Fiorini al Puff di Trastevere e la discussione degenerò: ‘Me ne vado’, disse Enrico. ‘Vai pure – rispose l’altro – ti sostituisco con il primo stronzo che trovo all’Ambra Jovinelli’. Il primo stronzo fortunatamente ero io. Mentori meno occasionali? Dino De Laurentiis che mi fece un’esclusiva di due anni da un milione al mese, perché una sera – forse dopo un litigio con Silvana Mangano – era rimasto a casa e mi aveva visto in tv, e poi Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Ciccio era un mio amico fraterno e una spalla nata. Aveva bisogno di fare il pupazzaro. Di prendere al lazo la gente, di agguantarla, di tenerla desta. Ecco perché si chiamano lazzi: ricordano il lazo, afferrano l’attenzione con la risata. Lei quanta parte aveva a iniziare da L’Esorciccio nella scelta di certi titoli? Quasi nessuna. Dopo una sfilza di bidelli, insegnanti e liceali, l’unico ruolo che mi mancava di interpretare era quello del provveditore. Chiesi udienza in Medusa e in vista de Il diavolo e l’acquasanta, un film più ambizioso di altri che avrei dovuto girare con Gloria Guida, chiesi al distributore Felice Colaiacomo la formale promessa di non aggiungere null’altro al titolo. ‘Hai ragione, hanno stancato’. Mi diede la sua parola e siglò la promessa su un pacchetto di sigarette. Risultato? La liceale, il diavolo l’acquasanta. Li mandai a fare in culo: ‘Scegliete il titolo che volete, ma non chiedetemi più niente’. Che cinema era quello delle commedie erotiche degli Anni 70/80? Nelle nostre storie, trovate e trame non mancavano mai. Magari erano esili o facili, ma come dicevamo per scherzare, quelli non erano film sporchi. Pulitissimi al limite, 6 o 7 docce con le grandi fiche del nostro cinema, le bellissime ragazze nude che popolavano l’immaginario degli italiani, non mancavano mai. Era un cinema generoso, girato in 3 o 4 settimane, con ritmi forzati e approssimazioni legate al budget e alla rapidità. Se giravi una scena con un certo tipo di luce e poi magari la completavi 20 giorni dopo in altre condizioni, il regista diceva di non preoccuparsi: ‘La sistemamo ar doppiaggio’. E così faceva. Bastava una frase generica sul meteo un: ‘Come cambia il tempo in fretta’, e il gioco era fatto. Passava qualsiasi cosa. Anche l’improvvisazione. Molte battute venivano fuori mentre giravamo. Esempi? In Fracchia la belva umana interpreto il commissario Auricchio a caccia di un Villaggio sdoppiato con tanto di sosia. Organizzo una retata al ristorante e vengo accolto dal menestrello: ‘E benvenuti a ‘sti frocioni/ belli grossi e capoccioni/ e tu che sei/ un po’ frì frì/ e dimme un po’ che ciài da dì’. La scena sarebbe dovuta finire con il mio personaggio, che tirato fuori il tesserino della Polizia, faceva portare via l’uomo. Ma quella sera improvvisai. Dissi al musico di continuare e proseguii a cantare: ‘Non sono frocione/non mi chiamo frì frì/ son commisserio/ e ti faccio un culo così’. Risero tutti. Neri Parenti, il regista, non aveva dato lo stop. La tenemmo. Neri chiamava le mie trovate caccole, ma sapeva che almeno 7 su 10 erano caccole utili. Un talento che non è che avessero proprio tutti. I frocioni, le “tettole”, “l’eccitamento al diapason del cervello”, le preghiere storpiate: “Corno di bue, latte scremèto, proteggi questa casa dall’innomineto”. Oggi si potrebbe? E si potrebbe nello stesso modo? Non lo so, trionfa il politicamente corretto e anche se in fondo non lo siamo per niente, ci sforziamo di mostrarci educatini e perbenini. I rapporti con le ragazze che spiava dal buco della serratura? Ottimi con tutte. La prima volta che toccai il seno di Edwige Fenech lo feci con tanto pudore e imbarazzo che un tecnico me lo fece notare: ‘Lino, guarda che non stai a cambià una lampadina’. Altri erano più mistici e suggerivano rimedi estremi: ‘Dai retta, non lavarti più le mani’. Poi c’era il culo di Nadia Cassini, una storia a parte. Ce la racconta? Nadia aveva fatto assicurare il culo per 2 miliardi di lire. Chiesi al marito – l’attore greco Yorgo Voyagis – come gli fosse venuta in mente una tale assurdità: ‘Perché avete messo sotto tutela quest’opera d’arte? Avete paura che toccandola ve la rovini?’. Poco tempo dopo arrivò Luciano Salce a dirigerla in Vieni avanti cretino… Quanto ci siamo divertiti. Luciano rideva e spostava la macchina da presa. Io lo cazziavo: ‘Smettila che il film viene tutto mosso’. Il film rappresentò uno slancio di Fulvio Frizzi, allora direttore commerciale della Cineriz di Angelo Rizzoli: ‘I film da Festival restituiscono prestigio, ma non incassano un chezzo. Bisogna girare una commedia che porti la gente al cinema. Chiamiamo Banfi’. Mi telefonò Giovanni Bertolucci, cugino di Bernardo. Di lì a poco iniziammo a girare. Crede di aver avuto più di quanto non abbia dato? Semmai il contrario. E non solo artisticamente. Facevo incassare e rimanevo a bocca asciutta. Ho fatto un conto approssimativo delle copie vendute in dvd da certi titoli. Tra L’allenatore nel pallone, le dottoresse, i colonnelli e i cornetti alla crema. Se avessi avuto mezzo euro a copia sarei miliardario. Invece all’epoca gli attori prendevano poco e di diritti proprio non se ne parlava. Le soddisfazioni sono arrivate da altre cose. Cavaliere di Gran Croce, Grande Ufficiale, Commendatore e anche Ambasciatore Unicef. Cose belle o bellissime nel caso dell’Unicef. La mia grande soddisfazione artistica è stata aprire la porta alla comicità pugliese. Prima di allora nella mia Regione non c’era stato nessuno. Ora è arrivato Zalone. È bravissimo e me ne ero accorto fin dai tempi in cui seguivo Telenorba. È straordinario lui ed è straordinaria la sintonia che ha con il suo regista, Gennaro Nunziante. La sintonia lei l’aveva soprattutto con Sergio Martino. Ma anche con Mariano Laurenti o con Dino Risi. Durante Il commissario Lo Gatto con Dino, a Favignana, ci divertimmo molto. ‘Perché non ho incontrato quest’uomo trent’anni fa?’, diceva alla troupe. Nel libro c’è una foto in cui lei è con sua moglie Lucia e i suoi figli. “Siamo felici – si legge – perché finalmente ci siamo liberati di tutti i debiti”. Nel 1967 per tirare avanti subaffittammo una parte dell’appartamento e prendemmo in prestito i soldi dai cravattari. Mezzo milione di lire che aumentava di mese in mese. Venivano a casa, a esigere il credito c’era sempre un ceffo: ‘Che bella collanina’ – diceva a Lucia – e poi se la prendeva insieme alle posate o alle lenzuola ricamate. Quando a ‘sti stronzi riuscii a pagare finalmente tutti i debiti, come è ovvio, esultai. Cosa le manca davvero? Sono diventato un lettore compulsivo, ma una laurea mi piacerebbe averla. Una laurea Honoris Pausa. Le conosco bene le pause, in fondo. E cos’altro sa o conosce? So che per ridere insieme bisogna essere almeno in due, ma per piangere bene bisogna essere da soli.