Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 02 Domenica calendario

IL GRANDE CROGIUOLO DI INCERTEZZE DOVE È NATO IL BAROCCO

Le scoperte geografiche dell’Europa moderna diedero completezza allo scibile geografico, ma la vastità delle civiltà lontane incrinò il ruolo della Chiesa. Per Guicciardini le esplorazioni avevano “confuso gli scrittori di cose terrestri” e “dato qualche angoscia agli interpreti delle scritture sacre”. Cercando di rappresentare fedelmente un mondo pieno di anfratti, nacquero deformazioni destinate a durare e un’estetica fondata sulla difficoltà della forma a incarnarsi in una materia instabile, cui si attribuirono le turbolenze della storia. Incoraggiato da questo clima, nel 1543 Copernico dimostrò che la terra girava attorno al sole e nel 1608 Keplero che si muoveva su orbite ellittiche. Nessuna delle forme perfette del passato fu a lungo osata dagli artisti, ossessionati dalla geometria increspata del reale. Dal cerchio, figura divina per eccellenza, si ripiegò sull’ovale, al quadrato si preferì il rettangolo, all’arco, l’arco ribassato.

Le radici del barocco affondano nello choc del Sacco di Roma del 1527, nel dilagare della Riforma protestante e nelle guerre tra cristiani. Ma il salto nella mentalità si deve alle conseguenze delle esplorazioni, tra cui la grande inflazione del XVII secolo. Nel 1548, gli Esercizi spirituali di Ignazio de Loyola cercarono un’altra realtà oltre il sensibile, mortificando il corpo per liberare lo spirito dalla materia e dal peccato. Nel 1584, Giordano Bruno pubblicò De l’infinito, universi e mondi, ipotizzando un’infinità di mondi paralleli mentre, i matematici Niccolò Tartaglia, prima, e il gesuita Bonaventura Cavalieri, dopo, gettarono le basi del calcolo infinitesimale. Nel grande e nel piccolo la realtà sembrò scandita da contrazioni e cedimenti. Rinunciando al segreto della sua solidità, Caravaggio si appuntò sulla luce che faceva esistere le cose nella camera oscura più che alla loro consistenza corporea. Quando Andrea Pozzo celebrò sant’Ignazio, lo fece con la grande decorazione anamorfica della Casa Professa, la sua cellula monastica di Roma. L’affresco del 1681 è leggibile se si guarda da un angolo preciso, metafora della ricerca di un punto da cui decifrare il caos dell’universo.

Anche l’univocità della matematica tradizionale costituì un problema e si tornò a guardare agli esperimenti arabi per andare oltre la geometria euclidea, alla ricerca di universi regolati da leggi alternative e complementari. In architettura, si giunse a forme articolate, basate sulla sintesi plastica dei modelli noti. Francesco Borromini fece di San Carlino, a Roma, il suo manifesto. L’edificio, dice il mito, è grande quanto uno dei pilastri della cupola di San Pietro chi varca la sua soglia è come se aprisse la porta ed entrasse in un muro. Poiché la materia è pura potenzialità, prese tutte le forme possibili: la struttura della chiesa assomma un impianto ellenistico, una pianta ellittica e una a croce greca. Guarino Guarini aggiunse la dimensione della storia e i suoi capolavori torinesi resero omaggio alla radice araba della scienza moderna, citando le cupole islamiche di Cordova. L’architettura diventò un viaggio nelle pieghe del tempo e non solo dello spazio.

Multiforme apparve la luna, che Galileo aveva scoperto piena di crateri e non la sfera liscia della tradizione aristotelica. Il Cigoli la rappresentò nel 1612 con le sue asperità nella Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore. Sarebbe successo senza la scoperta dei limiti della teologia alle prese con la vastità del mondo? Probabilmente no, così come Galileo non sarebbe andato a cercare imperfezioni col suo cannocchiale. Solo il provincialismo dell’arte francese del tempo poté insistere con le cristalline composizioni del Rinascimento. L’arte fuori moda di Poussin, ispirata scolasticamente ad Annibale Carracci e al Domenichino, crebbe un secolo dopo grazie al predominio postumo del classicismo. Per il resto, l’Italia riuscì a far convergere le scoperte dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo in una nuova sintesi. Lo ribadisce l’incrocio tra arte e scienza dei globi che Vincenzo Coronelli eseguì per Luigi XIV nel 1683: uno terrestre, l’altro celeste.

Eppure la Penisola era tagliata fuori dagli scambi. Da Amsterdam, le rotte arrivavano in Indonesia; da Lisbona, in Giappone, in Angola, in India e in Brasile; da Cadice, i domini spagnoli fecero di Carlo V l’uomo sul cui impero il sole non tramontava mai. Il Mediterraneo, via di transito, scoprì il destino di un mare chiuso su cui affacciano popoli in conflitto. Quanto ai deserti, le rotte carovaniere stipate di convogli ritrovarono il silenzio delle aree inospitali. La penisola, perennemente divisa da conflitti fratricidi, venne disegnata da protettorati, con gli spagnoli insediati a Nord e a Sud. Se le condizioni erano mutate, perché non finì sospinta alla periferia? Poiché dispose al suo interno della varietà del mondo.

Superate le secche della controriforma, una popolazione di spagnoli, fiamminghi, tedeschi, francesi, inglesi, tedeschi contribuì dall’Italia a una delle stagioni artistiche più feconde che fecero dell’arte la lingua comune dell’Europa. Simon Vouet ebbe scuola a Roma, e se il ritratto moderno rinacque da Genova, fu grazie a Van Dyck. Dalla corte mantovana dei Gonzaga, Rubens portò con sé il manierismo maturo nelle Fiandre, mentre Ribera sperimentò a Napoli le vie del luminismo caravaggesco.

La dinamica degli incroci riguardò innanzitutto gli italiani. Borromini era ticinese e, da modenese, Guarini disegnò il volto sacro di Torino. Bernini, nato a Napoli da padre scultore e fiorentino, fece fortuna a Roma mentre Caravaggio rigenerò la pittura infondendole lo spiritualismo lombardo, portato a Sud da Cosimo Fanzago. Come scrisse nel 1891 Adolfo Venturi: “I Fiorentini eleganti s’incontrarono con gli Umbri divoti, i Veneti magnifici coi vigorosi Lombardi; e intorno a essi s’aggirano artisti di tutti i paesi, i figli dell’arte parlano tutti una stessa lingua, quella dell’entusiasmo”. Se, divisa e in guerra, l’Italia non abdicò neanche questa volta alla sua missione, fu grazie a un inveterato cosmopolitismo.