Giacomo Papi, il venerdì 7/10/2016, 7 ottobre 2016
L’ULTIMO ANIMISTA FA TORNARE TUTTO
[Antonio Marras]
MILANO. Poi mi è venuto in mente Odradek, il più misterioso dei personaggi di Kafka, una specie di folletto fatto di cose consumate e rianimate. È «un rocchetto piatto, a forma di stella, con intorno... pezzi di filo diversi per qualità e colore, consunti, vecchi, annodati e ingarbugliati» che sta «dritto sulle gambe» e a volte sbuca dalla «soffitta, per le scale, nei corridoi».
Odradek è vitale, «mobilissimo e impossibile da agguantare». Anche Antonio Marras, sembra uno furiosamente impegnato ad aggiustare macchinari inesistenti. Il suo spazio a Milano è un negozio, una casa, una specie di bar, dove le persone vanno e vengono, i disegni e i computer si ammassano sul tavolo, circondati dai suoi abiti – «i miei stracci» – di fianco a cesti di frutta tagliata, chinotti e gassose, e alle sue agende popolate di disegni, scarabocchi, ritagli di fotografia così fitti da inghiottire ogni punto bianco e cancellare la possibilità stessa di fissare appuntamenti.
Marras parla di sé, della sua infanzia, del suo lavoro di stilista – «ma io il cinema volevo fare» –, e intanto muove le mani, collega le cose, batte le dita sul tavolo, con un’energia turbinosa e ospitale. Quando lo incontro sembra agitato: «Sabato ho la sfilata» dice, «non so la data esatta perché ho problemi a memorizzare i numeri, mi ricordo che mio figlio è nato il 29 settembre per via della canzone di Battisti, ma non so in che anno». Ad agitarlo di più, però, è la mostra antologica che la Triennale gli dedica dal 22 ottobre al 21 gennaio 2017. L’ha intitolata Nulla dies sine linea, una frase di Plinio il vecchio che significa che ogni giorno bisogna scarabocchiare qualcosa.
Dall’entusiasmo con cui mi mostra le sue cose, e dall’urgenza con cui chiede alla moglie Patrizia, o a Geppi Cucciari che passa di lì, di portargli altri quaderni e computer per mostrarne altre ancora, è evidente che la selezione gli costa molto. Gli domando se scartare è doloroso, e nel suo sguardo passa un’ombra: «Sì, anche perché è una mostra molto articolata, 1.200 metri quadri, ci lavoriamo da un anno». Si tratta di fare ordine, gli dico. «Ad Alghero ho uno spazio mio, è lì che produco. Ci faccio entrare pochissime persone. Per giorni creo il caos, che si accumula e accumula, fino a quando mi devo fermare, è come se sentissi che tutto sta per esplodere, così faccio tabula rasa, i tavoli vengono sgombrati, ma poi, in una notte, i tavoli si rianimano di cose che riemergono dai cassetti e si compongono, si accostano, e alla fine compare, forse, quello che avevo in mente fin dall’inizio».
Mi mostra le foto di una serie di scatole in legno di vecchie icone russe in cui ha sistemato pezzi di cose, incollato frammenti, disegnato – Quante sono? «Quattrocento...» – e decine di cornici spaiate che spesso ha ribaltato. Il retro e lo scarto sono fratelli. Preferisce le superfici consumate: disegna su resti di colla, conti del macellaio, appunti, incolla ritagli. «Quando vado in aereo non riesco a dormire, così tiro fuori i ritagli e mi metto al lavoro». Senza forbici? «L’ultima volta me le ha portate una hostess russa, l’ho trovato stupendo». Mi mostra soltanto cose vecchie, consunte. Gli chiedo come quest’ansia di recuperare riesca a stare insieme a un’attività, la moda, che si fonda sull’apparizione eterna del nuovo? «A me inquieta quello che è nuovo» risponde, chiedendo alla moglie di portargli camicie composte da otto frammenti di camicie diverse, naturalmente usate, o un abito nero di chiffon con inserti di giacche mimetiche. Un miscuglio che si ripeterà, due giorni dopo, alla sua sfilata milanese ispirata al fotografo del Mali Malick Sedibé: maglie dei Chicago Bulls e dei Boston Celtics cuciti a stoffe floreali, sfilano intorno a donne nere che sotto caschi da parrucchieri sfogliano riviste africane anni Settanta.
Come ci è arrivato allora alla moda? «Io ci sono nato in mezzo alle stoffe. Ad Alghero mio padre aveva un emporio, poi un negozio di tessuti, con sete meravigliose che conservo ancora in archivio, infine una boutique. Da bambino, intorno al 1970, mi portò nell’hangar di Elio Fiorucci a Buccinasco, vicino a Milano. Fu il mio primo viaggio. Era pieno di qualunque cosa, non c’erano abiti, conteneva tutto, c’era la quintessenza di tutto ciò che mi sarebbe piaciuto trovare in un posto: bracciali arrivati dal Mali, secchi di latta dal Perù, maglioni dell’Uruguay, borse fatte con le tele dei sacchi hawaiani. Scatenava ragazzi in giro per il mondo, per captare delle cose e mandargliele. Un’infinita serie di cose disperate...». Forse voleva dire disparate... Marras si ferma, ride: «Disparate/ disperate... è bello come lapsus, no?».
Tra frammento e disperazione c’è un rapporto? «Non mi faccio mai domande» risponde. «L’incontro con Maria – Maria Lai, artista sarda morta nel 2013 a 94 anni – ha cancellato il mio senso di vergogna, ma non il mio pudore. Ho anche capito che non bisogna sapere troppo di tecnica perché altrimenti ti poni dei limiti nell’immaginare. Io non so niente di maglieria, così posso chiedere cose impossibili». Una libreria di cassetti recuperati e inchiodati tra loro in modo sghimbescio avvolge e nasconde la colonna di cemento al centro della stanza, dove veleggia la voce di Mina. Ho la sensazione che l’uomo con cui sto parlando sia un animista, l’ultimo animista del mondo.
«Sono attratto dagli ospedali e dalla malattia, forse perché temo la malattia più della morte». Forse perché la morte non esiste, se si crede di poter resuscitare le cose. «Conservo vecchie dentiere, mozziconi di matita, pezzi di vecchi letti, metri buttati dai muratori». Oggetti che finiscono dentro le sue opere, e forse lo sono. «Per me un oggetto espulso è più bello». Mi mostra i bicchieri, tutti diversi. «Mi piace che abbiano ancora le ditate, che siano sbeccati, deformati da chi li ha usati per bere. Solo gli oggetti modificati dall’uso mi interessano. L’oggetto trattiene, racconta, trasmette. Dà, ma solo quando trova la giusta collocazione, l’incontro, per rimanere se stesso e diventare un altro». Per ridiventare nuovo, pur rimanendo vecchio. Butta mai via qualcosa? Marras alza le spalle, poi dice: «Sì, ma immancabilmente, appena lo faccio, mi accorgo che era proprio quello che mi serviva».
Sul tavolo scorrono le pagine delle sue agende, fitte di immagini e linee che richiamano alla mente quelle di altri artisti – Carol Rama, Maria Lai, Lucio Fontana – come se anche l’arte fosse un baule. Quando mi dà il suo numero di telefono, che ovviamente non ricorda a memoria, mi accorgo che si è registrato «Antonio Io», quasi che quell’io fosse la frenesia che tiene insieme le cose che si scollano. «A una certa età» dice «capisci quali sono le persone con cui vuoi passare del tempo». E forse, anche, quali sono le cose che vuoi salvare dal tempo.
Giacomo Papi