Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 07 Venerdì calendario

ECCO PERCHÉ È ESPLOSA LA BOLLA DEI CONTAINER


Babbo Natale è disperso in mare. I suoi regali, a essere precisi, rischiano di non arrivare in tempo se la situazione non si sbloccherà. Parliamo dei 14,5 miliardi di merci trasportate da 66 navi della sudcoreana Hanjin Shipping, la settima compagnia di portacontainer al mondo, che ha dichiarato fallimento alla fine di agosto. Da allora quasi altrettanti porti hanno deciso di non farle attraccare in mancanza di garanzie sui pagamenti dei diritti di scarico e questi leviatani mercantili sono rimasti alla fonda, aspettando che la loro sorte si decida. Se la Hanjin è morta, undici dei dodici più grandi spedizionieri hanno registrato perdite abissali come le fosse delle Marianne. I cali medi, stando all’indice Clarkson, sono del 30 per cento rispetto all’anno scorso e dell’80 rispetto alla fine del 2007. Far viaggiare un box dalla Cina all’Europa costa oggi la metà che nel 2014. Andando al nocciolo è un problema di sovracapacità: per abbassare i costi – e far fuori i piccoli – i giganti dello shipping hanno costruito navi sempre più capienti, più di quanto effettivamente serviva (troppa offerta). Aggiungete il rallentamento dei traffici post crisi finanziari (poca domanda) e il disastro è servito. L’unico aspetto positivo della vicenda è farci capire, con lo spauracchio dell’abete natalizio desolatamente spoglio, quanto dipendiamo dalla distribuzione globale. Compito che si accolla Giorgio Grappi, ricercatore all’università di Bologna, nel suo Logistica (Ediesse, pp. 268, euro 12), che mette in un contesto accademicamente critico un aspetto tanto essenziale quanto poco sexy del capitalismo contemporaneo.
Quando e perché la logistica è diventata così importante?
«Tra gli anni 50 e 70, a partire dagli Stati Uniti, si è iniziato a considerare che le funzioni di trasporto, anziché essere solamente dei costi per le aziende, potevano diventare momenti per creare valore per le imprese. La distribuzione, sino a quel momento un’attività che gestiva gli esiti della produzione, è diventata una funzione di coordinamento di tutte le attività che vanno dagli acquisti alle vendite, al fine di realizzare e distribuire “i giusti prodotti, nella giusta quantità, nel posto giusto e nelle condizioni giuste”. La rivoluzione logistica ha cambiato il modo di vedere la produzione: non più un qualcosa che avviene all’interno di una singola fabbrica, ma una concatenazione di processi e momenti che avvengono in siti diversi e coordinati tra loro».
Di che numeri parliamo?
«L’industria logistica in senso stretto è un comparto il cui valore diretto costituisce l’8 per cento del Pil degli Stati Uniti, il 18 per cento del Pil cinese e il 7 di quello italiano. Tuttavia, secondo l’Organizzazione Internazionale del lavoro, oggi almeno un quinto della forza lavoro è impiegata all’interno di supply chain globali, mentre si stima che almeno un terzo dei commerci mondiali avvengano tra aziende».
È di queste ultime settimane lo spettacolare fallimento della sudcoreana Hanjin, con le sue navi reiette che nessun porto vuole più accettare. Perché è successo?
«Il crack di Hanjin è il frutto più visibile di una tendenza dell’industria navale a rispondere a logiche di tipo finanziario e speculativo che si sono progressivamente allontanate dalla reale richiesta del mercato. Le navi sono diventate asset finanziari, investimenti, prima ancora che mezzi di trasporto. In seguito alla corsa a costruire navi sempre più grandi la capacità di trasporto sono aumentate ad un ritmo maggiore di oltre un terzo rispetto alle reali esigenze. Il risultato è che questa industria ha accumulato enormi debiti e quando, come successo con Hanjin, si vede rifiutare ulteriore credito, si arriva alla bancarotta. Nessuno nel settore è al riparo».
La battuta d’arresto della globalizzazione che ne deriva è temporanea o permanente?
«Quello della crescita perenne è un mantra che non permette di osservare i cambiamenti strutturali. Ciò che invece la logistica permette di vedere è che la globalizzazione ha portato con sé una trasformazione materiale che ha modificato le geografie interne al mondo della produzione e agli stessi Stati. Il punto non è stabilire la fine o meno della globalizzazione, ma capire in che modo oggi sia diventato decisivo per tutti l’essere parte di reti interdipendenti di infrastrutture, comunicazioni, energia e scambi finanziari. Oggi la globalizzazione guidata dai consumi è in una fase di stallo, ma in tutto il mondo esiste una forte pressione verso una nuova fase di industrializzazione e la costruzione di infrastrutture».
Cos’è la reverse logistics, o logistica inversa, e perché sta crescendo molto?
«È quell’insieme di attività che vanno dal cliente al fornitore, anziché viceversa. Da una parte è stata spinta dalle vendite online, al fine di ricercare la soddisfazione dei clienti è ormai prassi prevedere meccanismi per la restituzione di prodotti difettosi o che semplicemente non incontrano il gradimento del cliente. Dall’altra dalla crescente attenzione alle tematiche ambientali e del riciclo, con l’incremento di servizi dedicati alla restituzione degli imballaggi o di componenti riutilizzabili dei diversi prodotti. La sua crescita, tra fornitori e aziende, deriva anche dalla valorizzazione di elementi prima considerati di scarto all’interno di quella che viene definita come economia circolare».
Dagli oceani alla terra ferma, logistica sono anche i magazzini della Gls di Piacenza dove un addetto egiziano è stato travolto durante un picchetto. Contro quali condizioni di lavoro protestava e perché quel settore impiega così tanti immigrati?
«Gli operai migranti della logistica nel Nord Italia si sono rivoltati in questi anni contro una precarietà lavorativa fatta dell’assenza di ogni tutela contrattuale, e contro l’arbitrio pressoché assoluto dei datori di lavoro, spesso cooperative di piccole o medie dimensioni affiliate a grandi consorzi, per avere un salario migliore e diritti basilari come la malattia. Lo hanno fatto appoggiandosi ai sindacati di base e dovendosi scontrare con la complicità dei sindacati maggiori e una risposta spesso violenta. Si tratta di un settore dove i migranti sono chiamati a ricoprire le mansioni più dure, come quella del facchino, e sono doppiamente ricattati a causa del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro».
Cosa cambierà negli scambi mondiali con l’allargamento recente del canale di Panama?
«Sino ad oggi, il termine Panamax era uno standard che indicava la dimensione massima di una nave che poteva attraversare il canale. Il mondo delle post-Panamax funzionava dunque secondo geografie che non prevedevano l’attraversamento. L’allargamento permette il loro passaggio e apre nuove possibilità per riconfigurare le rotte di distribuzione globali tra l’Asia, l’Europa e le Americhe in momento di crisi dell’industria dello shipping. Già oggi esistono tuttavia navi giganti per le quali il canale è ancora troppo piccolo».
Cosa possiamo aspettarci per il futuro di questa industria?
«La costante crescita del commercio elettronico in tutto il mondo, a partire da Paesi come India e Cina, lascia pensare che l’importanza della logistica continuerà a crescere. Un’importanza economica ma anche sociale, perché modifica gli stili di vita. Ciò che la logistica permette di vedere è come oggi le condizioni locali – da quelle del lavoro a quelle che coinvolgono il modo in cui cambiano le città e le priorità pubbliche – sono connesse attraverso geografie che sorpassano i confini di un singolo territorio. Ciò rende necessario analizzare i conflitti nei luoghi di lavoro e dove si costruiscono le infrastrutture, e pensare il modo in cui organizzarsi per ottenere miglioramenti o far valere i propri diritti, facendo i conti con questa scala».
Riccardo Staglianò