Giulio Silvano, l’Unità 6/10/2016, 6 ottobre 2016
SEMPRE DI VENERDì ELOGIO DI PETRARCA LONTANO DAL LICEO
Come facciamo a tornare ad amare autori che siamo stati costretti a studiare al liceo? Quanto ci vuole perché un poeta diventi simpatico una volta usciti da quelle aule di noia e terrore? (Lo dico subito, solo i mediocri hanno buoni ricordi del liceo). Un modo per accelerare il processo è vedere il lato umano di questi maestri, trasformandoli in persone e buttando a terra il loro cappello istituzionale.
I nostri professori malpagati erano troppo annoiati, e noi troppo distratti, per trovare questa umanità nelle loro opere, soprattutto se queste erano in latino, in egloghe e cercavano di insegnarti come vivere o amare o mantenere la castità. Francesco Petrarca rientra perfettamente in questa categoria. E perché mai a quindici anni dovrei stare dalla parte di uno che ti dice di restare puro? Certo, Dante o Boccaccio si riprendono in mano, per conto proprio, dopo il liceo: Dante per via di René Guénon, Boccaccio perché è il vero padre della commedia all’italiana, (ad esempio nel Decameron c’è una badessa che dopo aver dormito con un prete indossa in testa le sue mutande e va in giro senza accorgersene).
Petrarca rimane invece fuori dal gruppo dei tre moschettieri della letteratura italiana, è quello noioso e trascurabile, proprio perché è quello che parla meno di sesso, violenza e vendetta.
Esiste un modo per riportarlo nelle nostre vite, e pentirsi di questo snobismo verso il pretendente di Laura, ed è capire che il “primo umanista” era un uomo, arrivista e truffaldino, impostore e vanitoso. E questo lo scopriamo leggendo I venerdì del Petrarca di Francisco Rico, che esce in questi giorni nella sempre graziosa Piccola Biblioteca di Adelphi.
Sappiamo molto di Petrarca, dice Rico, ma quasi tutto quello che conosciamo di lui viene dalle lettere e dagli appunti di Petrarca stesso. «In quei testi egli non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine ideale che vorrebbe dare di se medesimo, o al limite l’immagine che lui ha di se medesimo».
Insomma, un po’ quello che facciamo tutti noi sui social network. La foto dove si cerca di fare i seri, lo status dove ci mostriamo preoccupati per un’elezione politica, le immagini delle vacanze dove per forza ci si sta divertendo, tutti cerchiamo di far vedere che siamo felici, profondi, ricchi, pensierosi, menefreghisti, e via così. Ecco, lo faceva pure Petrarca con «un temperamento con tutti quei sintomi di senso di colpa, depressione, ossessività, scrupoli assillanti, che sono distintivi degli introversi, sovente cerca di proteggere la propria identità dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso». Non vi sta già più simpatico? Noi usiamo Facebook e Instagram, lui i sonetti in latino.
Quando Petrarca parla di sé «nulla è innocente», è tutto calcolato o abbellito, o risistemato.
Il chierico poeta era fissato col venerdì (giorno di digiuni e astinenze) così cerca di far cadere in quel giorno molti avvenimenti emblematici della propria esistenza, tanto da spostare la data della morte del figlio. Rico inizia questo viaggio tra le carte e le poesie del Petrarca alla scoperta del «perché venerdì?», e quanto della sua vita ha cambiato per mostrare una certa immagine a sé e agli altri, e forse, a Dio? Lo stesso giorno – di venerdì! – gli arrivano gli inviti, nel 1340, a diventar poeta laureato, raggiungere la propria aspirazione professionale. Ma l’alloro «non gli procurò né scienza né eloquenza», e così «il poeta si ripara all’ombra dell’albero della sapienza». Ma è anche di venerdì incontra Laura. «Probabilmente prima di amare Laura, Francesco amò la laurea», certo. Ma chi era Laura? È forse la sovrapposizione di più donne? E via così. Tra viaggi e miraggi. Ma tutti calcolati, come da un regista, che ci mostra solo quello che vuole lasciare ai posteri, mentre tutto il resto lo lascia fumoso e misterioso, cucendo e smontando.
Sapeva che gli studiosi avrebbero analizzato con la lente i suoi commenti, lasciati di lato ai codici che studiava, ed è lì soprattutto che infila le informazioni autobiografiche abbellite, migliorate, incastrate ad effetto nella propria cronologia d’esistenza; pronto a inserire tutto in un grande libro della vita, forse per stare meglio con se stesso, per sfuggire alla paura del tempo che scorre, per diventare uomo e opera d’arte insieme, personaggio del suo stesso romanzo.
Dal momento in cui non possiamo più fidarci tutto diventa narrazione, tutto diventa libro. «Marco Santagata ha parlato della “sublime nevrosi petrarchesca di riscriversi senza posa”. Riscriversi, è chiaro, per riviversi. Il suo era il carattere tipico del nevrotico».
Ecco qui, trovata la soluzione, non umanizzare le istituzioni, ma togliere il velo ginnasiale di autorevolezza dall’anima, potenziata dall’accademia, di artisti che come noi volevano apparire, sembrare intelligenti e guadagnare qualche soldo dalla propria vocazione. Abbasso il liceo, viva le biografie. Così si può leggere il Canzoniere e goderne. “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’1 core / in sul mio primo giovenile errore...”.