varie, 5 ottobre 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - IL CASO FERRANTE REPUBBLICA.IT Continua la saga di Elena Ferrante. Anche online, tra falsi tweet, confessioni fasulle e "coming out" di impostori
APPUNTI PER GAZZETTA - IL CASO FERRANTE REPUBBLICA.IT Continua la saga di Elena Ferrante. Anche online, tra falsi tweet, confessioni fasulle e "coming out" di impostori. Un account Twitter che l’Ansa ha associato nella notte ad Anita Raja, traduttrice per la casa editrice e/o e indicata da un recente articolo del Sole 24 ore come la misteriosa e celebre scrittrice italiana, ha postato nella notte una serie di messaggi, in cui rivelava di essere proprio Elena Ferrante: "Apro questo profilo e presto lo chiuderò. Sarò qui solo per il tempo necessario a spiegare". Ma la casa editrice e/o smentisce a Repubblica la notizia: "Si tratta di un fake". E in giornata il profilo viene sospeso. Lo confermo. Sono Elena Ferrante. Ma questo ritengo non cambi nulla nel rapporto dei lettori con i libri della Ferrante. — Anita Raja (@AnitaRajaStarn) 4 ottobre 2016 La notizia era stata diffusa dall’agenzia Ansa ed effettivamente un profilo a nome di @AnitaRayaStarn (Starn sta per Domenico Starnone, celebre scrittore italiano e marito di Raya) era stato aperto ieri in tarda serata: su di esso c’è la fotografia della traduttrice-scrittrice, Anita Raya. "Lo confermo. Sono Elena Ferrante. Ma questo ritengo non cambi nulla nel rapporto dei lettori con i libri della Ferrante. Non parlerò mai di Elena Ferrante, né risponderò a suo nome, né dirò nulla riguardo ai suoi libri. Vi ringrazio. Vorrei solo chiedere, ora che la curiosità che durava da anni è stata esaudita, di lasciarmi vivere (e scrivere) in pace", aveva scritto una sedicente "Anita Raja" in una breve serie di post su Twitter. IL DIRITTO ALL’ASSENZA - di Michele Serra Ma, interpellata da Repubblica, Sandra Ossola, editrice di e/o che pubblica Elena Ferrante in Italia, smentisce categoricamente: "E’ evidentemente un falso, Anita in questo momento è in viaggio e non ha aperto alcun account Twitter. Non ha voglia di parlare di questa storia". E anche Giulio Passerini, già ufficio stampa e ora editor di e/o, conferma questa versione, contattato anche lui da Repubblica: "È un fake, non ci sono dubbi. Anita non ha mai scritto una cosa del genere". Twitter: @antoguerrera L’INCHIESTA DI CLAUDIO GATTI PER IL SOLE 24 ORE – Il Sole 24 Ore , domenica 2 ottobre 2016 «Non domandatemi chi sono… è una morale da stato civile. Regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere», affermò Michel Foucault quasi cinquant’anni fa. E per quasi un quarto di secolo anche l’autrice della tetralogia napoletana de L’amica geniale ha rigettato quella morale celandosi dietro allo pseudonimo di Elena Ferrante. Di lei, dunque, non sono mai state pubblicate foto. Né è mai stato stabilito chi sia veramente. Come riporta la quarta di copertina di ogni suo libro, si sa solo che «è nata a Napoli». Allo stesso tempo Ferrante ha saputo parlare molto di sé, concedendo innumerevoli interviste mediate dalla casa editrice e scrivendo un volume sedicentemente autobiografico, La Frantumaglia. Un’inchiesta condotta da Il Sole 24 Ore e pubblicata oggi anche dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito di giornalismo investigativo francese Mediapart e da quello della rivista americana The New York Review of Books, fa ora emergere evidenze “documentali” che danno un contributo senza precedenti all’opera d’identificazione della misteriosa scrittrice. Anziché su un’immaginaria figlia di una sarta napoletana, come si presenta l’autrice in La Frantumaglia, le prove da noi raccolte puntano il dito su Anita Raja, traduttrice residente a Roma la cui madre era un’ebrea di origine polacca prima sfuggita all’Olocausto e poi trasferitasi a Napoli. Sposata con lo scrittore napoletano Domenico Starnone, Raja ha da tempo uno stretto rapporto di collaborazione con Edizioni e/o, la casa editrice di Ferrante, per la quale da anni lavora come traduttrice dal tedesco. Per un breve periodo è stata anche coordinatrice della Collana degli Azzurri, una collana che, nella sua brevissima esistenza negli anni ’90, secondo la responsabile dell’ufficio stampa di Edizioni e/o, ha pubblicato «un totale di tre o quattro libri, tra cui il primo romanzo di Ferrante». La responsabile stampa ha spiegato che Raja è una semplice traduttrice freelance e «assolutamente non una dipendente» della casa editrice. Questo ruolo non potrebbe mai spiegare i compensi pagati nell’ultimo paio di anni da Edizioni e/o a Raja, che dalla nostra inchiesta risulta essere stata la principale beneficiaria del successo commerciale dei libri di Ferrante. Un’analisi dei redditi registrati da Edizioni e/o e da Anita Raja negli ultimi anni, quelli del boom della tetralogia de L’amica geniale, è illuminante. Nel 2014 il bilancio di Edizioni e/o Srl riporta ricavi per 3.087.314 euro, con un aumento di oltre il 65% sul 2013. Nell’anno successivo, il 2015, il balzo è ancora più significativo: i bilanci si chiudono a 7.615.203 euro, pressappoco il 150% in più rispetto al 2014. Lo stesso trend in forte ascesa è replicato dai compensi che ci risultano essere stati pagati da Edizioni e/o a Raja. Abbiamo infatti appurato che nel 2014 sono aumentati di quasi il 50%, mentre nel 2015 hanno fatto un ulteriore balzo di oltre il 150 per cento. Il compenso totale pagato l’anno scorso da Edizioni e/o a Raja è arrivato a superare di oltre sette volte il compenso del 2010, quando il successo dei suoi libri era ancora circoscritto all’Italia e ancora non era stato pubblicato il primo volume della tetralogia. Questo balzo, di cui non ci risulta abbia beneficiato alcun altro dipendente, scrittore o collaboratore di Edizioni e/o, non può essere giustificato da un incremento della mole di lavoro di traduttrice, notoriamente pagato poco. La spiegazione più logica è che sia dovuto al successo dei libri di Ferrante. Anche perché i compensi del 2014 e 2015 appaiono coincidere proprio con le somme generate dai diritti di autore. A confutare la tesi che i libri siano stati scritti da Raja a quattro mani con il marito Domenico Starnone è il fatto che quest’ultimo non ci risulta aver ottenuto retribuzioni equivalenti da parte della casa editrice di Sandro Ferri e Sandra Ozzola (anche se non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale). Da visure catastali abbiamo poi appreso che nel 2000, dopo il successo del film ispirato al primo romanzo di Ferrante per la regia di Mario Martone, L’amore molesto, Anita Raja ha acquistato, da sola e non con il marito, un appartamento di sette vani in una zona nobile di Roma e nel 2001 ha poi comprato una piccola casa di campagna in un paesino della Toscana noto per essere frequentato dall’élite giornalistico-letteraria italiana. Ma come abbiamo detto, da un punto di vista dei risultati economici, i libri di Ferrante hanno preso il volo solo dopo i successi registrati molto più recentemente nei mercati in lingua inglese, in particolare quello americano, dove e/o pubblica tramite una sua sussidiaria. Ed è quindi significativo che quattro mesi fa, nel giugno scorso, Domenico Starnone risulti aver comprato un altro appartamento a Roma a pochi passi da quello intestato a sua moglie. Si tratta di 11 vani e mezzo per un totale di 227 metri quadri all’ultimo piano di un’elegante palazzina dei primi del ’900 in una delle strade più belle di Roma il cui valore di mercato si aggira tra 1,2 e 2 milioni. Il fatto che l’appartamento sia intestato a Starnone ovviamente non significa che il denaro utilizzato sia suo e non di sua moglie perché, come noto, in regime di separazione dei beni quando un coniuge ha già una casa intestata conviene sempre che la seconda sia intestata all’altro. Per i dovuti riscontri, il Sole 24 Ore ha lasciato messaggi al cellulare di Domenico Starnone e del fratello di Anita Raja elencando le prove trovate e le conclusioni a cui siamo giunti. Ma la traduttrice non ha mai risposto o accettato il contraddittorio. Anche Sandra Ozzola e Sandro Ferri, i due comproprietari di e/o, hanno respinto il confronto. In una breve conversazione telefonica, Ferri è stato perentorio: «Se mi dice che fa un articolo in cui fa delle rivelazioni, io le dico subito che non le possiamo né dare i nostri dati né io le posso rispondere. (…) Noi siamo abbastanza seccati da questa violazione della privacy, nostra e di Ferrante, e se l’articolo è in quella direzione, le dico che mi dispiace ma noi non possiamo collaborare». Certo è che da 24 anni, da quando cioè ha pubblicato il suo primo libro, Ferrante si cela dietro un nome studiato a tavolino in evidente omaggio a Elsa Morante. E da allora, con la complicità della sua casa editrice, più o meno controvoglia, l’autrice ha partecipato a questo gioco mediatico sfamando la vorace curiosità di giornalisti, critici e lettori, prima con informazioni sporadiche e poi con un epistolario pubblicato su impulso dei suoi editori. A sollecitarlo era stata una lettera aperta in cui Sandra Ozzola osservava che la curiosità dei lettori «meriterebbe forse una risposta più generale. Non solo per placare quanti si perdono nelle ipotesi più arzigogolate sulla tua reale identità, ma anche per un sano desiderio dei tuoi lettori di conoscerti meglio». Era nata così La Frantumaglia, unica opera non fiction pubblicata da Ferrante nel 2003 e di cui è appena uscita in Italia un’edizione aggiornata. In quelle pagine i lettori avevano appreso che la scrittrice ha tre sorelle, che la madre era una sarta napoletana incline a esprimersi «nel suo dialetto», e che lei aveva vissuto a Napoli fin quando non ne era «scappata via» avendo trovato lavoro altrove. Nessuno di questi dettagli corrisponde alla vita di Anita Raja. Come la madre di Elsa Morante, la sua era infatti un’insegnante, non una sarta. E non era affatto napoletana. Ebrea (come la madre di Morante) era nata a Worms, in Germania, da una famiglia emigrata dalla Polonia e parlava italiano con un evidente accento teutonico (si veda l’articolo nella pagina seguente). In più Raja non ha sorelle, solo un fratello minore, e a Napoli è nata ma ha passato solo i primi tre anni di vita. In realtà è cresciuta e ha sempre vissuto a Roma. Ma in La Frantumaglia, Ferrante aveva avvertito i lettori. Non una, bensì due volte. «Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona», aveva scritto. E, poco più avanti, aveva aggiunto: «Italo Calvino nel 1964 scriveva a una studiosa che chiedeva informazioni personali: “Mi chieda pure quel che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità. Di questo può star sicura”. Questo passo mi è sempre piaciuto e almeno parzialmente l’ho fatto mio». Mentendo – o meglio, annunciando che, qua e là avrebbe mentito – a nostro giudizio la scrittrice ha però compromesso il diritto che ha sempre sostenuto di avere (e che comunque solo parte del vasto mondo dei lettori e dei critici le hanno riconosciuto): quello di scomparire dietro ai suoi testi e lasciare che essi vivessero e si diffondessero senza autore. Anzi, si può dire che abbia lanciato una sorta di guanto di sfida a critici e giornalisti. Continua a pagina 20 Claudio Gatti Continua da pagina 19 Finora a cimentarsi nella ricerca dell’identità della creatrice di Lila e Lenù sono stati critici letterari, che hanno usato metodi di ricerca filologica e letteratura comparata. Convenzionali e non. Una decina di anni orsono, su richiesta dell’italianista Luigi Galella, un team di fisici e matematici dell’Università La Sapienza di Roma diretto da Vittorio Loreto aveva per esempio usato un programma da loro elaborato per analizzare i primi libri di Ferrante. Arrivarono alla conclusione che c’era un’alta probabilità che fossero stati scritti da Domenico Starnone, da allora inserito nella lista dei “possibili Ferrante”. Con lui in quell’elenco c’è anche sua moglie Anita Raja, da tempo segnalata da Dagospia («Lo sanno anche i sassi che Elena Ferrante è Anita Raja», ha scritto). Ma anche gli stessi comproprietari di e/o, Sandro Ferri e Sandra Ozzola. E poi gli scrittori Goffredo Fofi, Erri De Luca, Fabrizia Ramondino e svariati altri, inclusa la sua traduttrice americana Ann Goldstein. Ultima arrivata è la professoressa Marcella Marmo, ordinaria di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, identificata sul Corriere della Sera dal dantista Marco Santagata sulla base di paralleli linguistici, ambientazioni e i rapporti con la Normale di Pisa, frequentata da Lenù, la protagonista della tetralogia, e dalla professoressa Marmo. Ma nessuna di queste ipotesi è stata finora sostenuta da prove concrete come quelle da noi trovate. Gli elementi di “evidenza contabile” non sono tra l’altro gli unici che abbiamo identificato. A questi se ne aggiungono infatti svariati altri. Cominciamo dai nomi. Quello di Elena, che la scrittrice ha scelto per il proprio pseudonimo e ha attribuito alla voce narrante della tetralogia (Elena Greco, detta Lenù) era il nome di una zia molto amata di Raja, sorella di suo padre Renato. Poi c’è Nino, nome dato al grande amore di Lenù, che è il nome con cui viene chiamato in famiglia Domenico Starnone. Ci sono poi le coincidenze. In L’amica geniale si sottolinea l’importanza avuta dalla biblioteca rionale nella crescita culturale di Lila: «Mi mostrò fieramente tutte le tessere che aveva, quattro: una sua, una intestata a Rino, una a suo padre e una a sua madre. Con ciascuna prendeva un libro in prestito, così da averne quattro tutti insieme». In Italia il valore delle biblioteche pubbliche è raramente apprezzato. Ma Anita Raja è stata per anni direttrice della Biblioteca europea di Roma. Per quel che riguarda il collegamento con la Scuola Normale di Pisa, abbiamo scoperto che a essere stata “normalista” è stata sua figlia, Viola Starnone (seguendo le orme della madre ha tradotto libri dal tedesco per Edizioni e/o). Veniamo ora all’analisi dei testi. Dopo aver tradotto autori del calibro di Franz Kafka e Hans Magnus Enzesberger, Raja si è “specializzata” nella traduzione di scrittrici della Germania dell’Est. In un articolo da lei pubblicato su «Noi Donne», storica rivista del movimento femminista italiano per la quale in Storia della bambina perduta pubblica un pezzo anche Lenù (altra coincidenza), manifesta la sua ammirazione per una narrativa in grado di produrre «un corpo sociale femminile emancipato e perciò capace di (…) esprimere voci che sintetizzano narrativamente questa capacità di autoriflessione». Il riferimento è a Helga Schubert, Helga Konigsdorf, Maxie Wander, Sarah Kirsch, ma soprattutto a Christa Wolf. Nel corso degli anni, con quest’ultima scrittrice Raja aveva stabilito un rapporto estremamente profondo: «Ho conosciuto Christa Wolf nel 1984, conoscenza che negli anni si è trasformata in amicizia (…) Per me questo è stato molto istruttivo (…) Il suo lavoro di verbalizzazione ha agito sul mio più povero e comune lavoro di accoglienza nella mia lingua, e lo ha potenziato, costringendomi a vie che non mi sarebbe mai venuto in mente di tentare». L’italianista della New York University Rebecca Falkoff è convinta che il legame tra Raja e Wolf confermi che dietro allo pseudonimo di Ferrante si nasconde la traduttrice di Edizioni e/o. «Dal punto di vista tematico le opere di Ferrante si incrociano considerevolmente con quelle di Wolf. La tetralogia di Ferrante inizia con la scomparsa di Lila e Riflessioni su Christa T., della Wolf, racconta la storia di una donna che ricostruisce le tracce di un’amica perduta. Si pensi poi a Medea e Cassandra, due rivisitazioni di Wolf di testi classici, e al fatto che anche I giorni dell’abbandono di Ferrante si ispira ai miti di Medea e Didone, mentre, con la sua pericolosa preveggenza, Lila ricorda la figura di Cassandra. Nel descrivere il suo rapporto di apprendistato letterario con Wolf, che divenne per lei una madre simbolica, Raja spiega che traducendo le parole di Wolf ha trovato il coraggio e il linguaggio per osare quello che altrimenti non avrebbe osato. Può darsi che si riferisse alle traduzioni, ma credo piuttosto che alludesse alla sua decisione di pubblicare i suoi scritti». L’influenza di Wolf, morta nel 2011, spiega anche come mai il programma del professor Loreto, il fisico de La Sapienza, abbia individuato legami tra i testi di Ferrante e quelli di Starnone. Con tutta probabilità il loro comune denominatore è stata Christa Wolf, scrittrice che ha fortemente influenzato sia marito che moglie. A dirlo sono loro stessi. In un articolo pubblicato su «Il Mattino» il 18 marzo 2009, Raja e Starnone scrivono: «Ogni libro di Christa che ho tradotto in italiano è diventato, tra noi due, per mesi, oggetto di discussione, un’occasione per riflettere, per apprendere. Non era solo passione letteraria, voglia di venire a capo di un testo complesso (…) Christa ci ha sedotto». Abbiamo pensato di chiedere aiuto a Jana Simon, nipote della scrittrice tedesca, giornalista del settimanale «Die Zeit» e autrice di un libro sulla nonna. Ma quando le abbiamo detto di voler parlare dell’influenza di Wolf su Ferrante, ci ha risposto con un breve sms: «Sfortunatamente non posso dire niente». E quando abbiamo insistito nel volerle parlare ci ha detto: «Mi piacerebbe molto, ma il fatto è che non ho niente da dire. Il primo libro della Ferrante sarà pubblicato in Germania solo a settembre». La cosa pareva strana. E ci è stato facile appurare che, nonostante il primo libro della tetralogia sia in uscita solo adesso, tre libri precedenti sono stati pubblicati a partire da oltre un decennio fa. Ancora più problematico era il resto del messaggio: «Naturalmente so della sua ammirazione per Christa Wolf, ma non so dire della sua influenza perché la mia famiglia non conosce i libri di Ferrante». Insomma, la stessa persona che diceva di non saper nulla su Ferrante, diceva di sapere invece della sua ammirazione per la nonna. Curioso, perché nelle numerose interviste concesse nel corso degli anni, Ferrante ha nominato svariate autrici e pensatrici femministe da lei stimate e alle quale ritiene di essere debitrice, ma non ha mai citato Christa Wolf. Probabilmente perché avrebbe fornito un chiaro indizio sulla sua identità. Quando abbiamo chiesto dove Simon avesse sentito parlare dell’ammirazione che la Ferrante nutriva per sua nonna, la giornalista tedesca, che fino a quel momento era stata sempre puntuale nelle risposte, si è data latitante, non rispondendo a nessuna delle ripetute richieste elettroniche di spiegazione di quella che evidentemente era stata una sua gaffe accidentale. La scelta dello pseudonimato da parte della scrittrice napoletana risale a prima della pubblicazione di L’amore molesto, quando scrisse una lettera aperta a suoi editori dicendo: «Io sarò lo scrittore meno costoso della casa editrice. Vi risparmierò perfino la mia presenza». In un’epoca di ricerca della notorietà a ogni costo, la scrittrice chiedeva che non si sapesse nulla della sua vita privata. Una scelta a nostro giudizio dettata da due fattori ben più nobili del “mercantilismo” di cui è stata accusata in alcuni circoli intellettuali italiani. Il primo era di natura caratteriale: «Ero spaventata dal pensiero di uscire dal mio guscio e la timidezza ha prevalso». Il secondo riteniamo sia invece stato frutto di una convinzione letteraria basata sulle idee formulate alla fine degli anni 60 da Michel Foucault (e prima di lui da Roland Barthes): «Credo che i libri, una volta scritti, non abbiano bisogno dei loro autori» ha scritto Ferrante. Nel saggio Che cos’è un autore? Foucault aveva proposto una nuova categoria letteraria, quella della “funzione-autore”, che si sostituisse al soggetto scrivente in quanto individuo. Come una scoperta scientifica, a suo parere un’opera doveva essere validata e apprezzata a prescindere dall’autore, in modo che il linguaggio potesse affermarsi libero dal suo creatore. Era la risposta novecentesca all’approccio del secolo precedente in base al quale un’opera letteraria veniva studiata per scoprire l’individualità nascosta dell’autore. Un quarto di secolo fa l’autrice de L’amica geniale ha optato per la via di Foucault. Forse si potrebbe provare ora una via di mezzo. http://gradozeroblog.it Claudio Gatti *** MICHELE SERRA, LA REPUBBLICA 4/10/2016 – LASCIATE IN PACE ELENA FERRANTE – A proposito del disvelamento dell’identità di Elena Ferrante è stato già detto da più parti che il metodo investigativo “follow the money”, evidentemente molto intrusivo, si addice a un malavitoso o a un evasore fiscale. La latitanza fisica di un autore è, al cospetto dell’opinione pubblica, altrettanto grave e perseguibile? A giudicare dai molti attestati di solidarietà che i lettori di Ferrante indirizzano al suo editore, e dagli umori che si raccolgono in queste ore sul web e di persona, l’opinione pubblica è invece, nel merito della vicenda, perlomeno divisa. Mi annovero tra quelli che ci sono rimasti male. Un poco perché il diritto all’assenza è, nella società presenzialista, uno dei più precari e dei più violati: dunque dei più ammirevoli. Un poco perché lo smascheramento di Ferrante mi sembra perfettamente coerente con un processo di svalutazione del testo, e di sopravvalutazione del contesto, che è uno dei grandi mali culturali della società mediatica. Quali sono gli effetti del presunto svelamento dell’identità della scrittrice? Forse nessuno per i suoi tanti lettori che non lo percepiscono come un problema A dare un nome e un cognome (completo di visure catastali: le “prove del reato”) a Elena Ferrante non è stata una testata di gossip. È stato un pool giornalistico prestigioso, l’inserto culturale del Sole 24 ore e la New York Review of Books tra gli altri, anzi prima degli altri e con maggiore responsabilità editoriale, in quanto “tecnicamente” vocati alla materia letteraria. Ma in una nota diffusa nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione dell’inchiesta, l’editore di Ferrante (e/o) contrapponeva, diciamo così, alla visura catastale a carico della sua autrice una visura editoriale a carico del Sole 24 ore e del suo inserto di cultura. Facendo presente, in un breve comunicato, il «silenzio con cui il Domenicale accoglie da almeno un lustro l’opera di Elena Ferrante, silenzio rotto solo poche settimane fa con un taglio basso di Goffredo Fofi». Al netto di eventuali malumori di un piccolo editore che si sente trascurato da un grande giornale, significa che lo stesso quotidiano che pubblica, nel suo inserto letterario, un’inchiesta sensazionale sull’identità di Ferrante, è accusato di avere ignorato la sua opera, e proprio negli anni di maggiore successo. Le scelte editoriali, ovviamente, sono libere e intangibili (almeno quanto dovrebbe esserlo il diritto all’anonimato). Ma ne discende che anche in questo caso il testo, ovvero i libri di Elena Ferrante, ha avuto molto meno rilievo del contesto, ovvero il “giallo” del suo nome anagrafico. Dico “anche in questo caso” perché la tendenza è generale e dilagante, e non risparmia nessuno. Vanno fortissimo il dietro le quinte, il gossip, bene che vada la registrazione (o la costruzione?) di polemiche d’ambiente o i rendiconti preoccupati della eterna crisi dell’editoria. Figuriamoci poter rivelare il “vero nome” di uno dei più importanti scrittori italiani; e più letti nel mondo. Quanto ai libri, il famoso “tramonto della critica” è (anche) un eccellente pretesto per parlarne sempre meno per ciò che i libri sono – scrittura allo stato puro – e sempre di più come “casi” o come pezzi di ricambio utili da spendere nel dibattito socio-politico. I libri, bene che vada, come sintomi di tendenze sociali o mode culturali; male che vada, come molto trascurabile pretesto per parlare di tutt’altre cose. Fortunatamente il pubblico, almeno in questo caso, se la cava benissimo da solo. Ferrante ha milioni di lettori, con una battuta (e per far capire che non si tratta di una polemica aziendalista) più del Sole 24 ore e di Repubblica messi insieme. E avere milioni di lettori, se non è una garanzia di qualità (esistono anche best-seller molto brutti) è però garanzia di lettura. Di un rapporto diretto, non intermediato, con chi legge quello che hai scritto. Vuol dire che quei libri, ovvero quelle parole e solo quelle, sono stati molto letti, e in qualche modo messi in salvo da ogni lettore a suo modo: per un lettore, esattamente come per uno scrittore, un libro è solo le parole che lo compongono. L’inesistenza dell’autore, nel caso di Ferrante (ma penso anche alla disperata e paradigmatica fuga dai media di Salinger) non è percepita come un “problema” dai suoi lettori. Per essere lettore, così come per essere scrittore, basta l’esistenza del libro. PS – Tra le ricadute della “rivelazione”, la più prevedibile è il solito piccolo florilegio di commenti risentiti, ai blogger non sfugge niente, vedi, lo sapevo io, lavora nel dorato mondo dell’editoria, è una della casta, ha la casa in Toscana, piove sul bagnato, è nel giro giusto, il marito è scrittore, per questo ha avuto tanto successo… E io che mi ero illuso che potesse essere una parrucchiera, o una suora, o un portantino dell’ospedale… Invece è una traduttrice dal tedesco, si sa quanto potere hanno, già in partenza, i traduttori dal tedesco. E chi ci assicura che tutta questa baraonda sul nome non sia una montatura pubblicitaria per vendere ancora più copie e comperarsi una seconda casa in Toscana? La ricaduta meno prevedibile è invece che anche io, nel mio piccolo, sono dispiaciuto di non poter fare più congetture poetiche sulla “vera identità”, e appunto pensarla anche io parrucchiera o suora o portantino dell’ospedale. Era più interessante il silenzio, il non nome, la non faccia, le non fotografie. Ho già nostalgia di Elena Ferrante innominata. Continuerò sempre a non nominarla. *** SILVIO PERRELLA, IL MESSAGGERO 3/10/2016 – CHI È ANITA RAJA, LA PRESUNTA ELENA FERRANTE – Anita Raja, chi è costei? È una donna inseguita dall’ipotesi di essere Elena Ferrante. Inseguita non solo nelle pieghe della sua vita espressiva, ma anche adesso nelle sue dichiarazioni dei redditi. Anita Raja è una traduttrice. Lavora portando nella nostra lingua autori di lingua tedesca (l’ultimo suo lavoro le è stato commissionato da Mario Martone per il suo più recente spettacolo). In molti hanno elogiato il suo lavoro su Kafka. Fuori dal mondo delle parole, Raja è associata al nome di Domenico Starnone. È con lui, come sua consorte, che da un certo momento in poi condivide la vita, dove possiamo immaginare che le scritture reciproche stiano l’una accanto all’altra. Anni fa mi fu chiesto da Mario Baudino de La Stampa chi fosse Elena Ferrante. Pur avendo letto e recensito i suoi primi libri (in particolar modo legandomi a I giorni dell’abbandono e ad alcune pagine de La frantumaglia), non mi era mai scattata la curiosità sulla reale identità dell’autrice di quelle pagine. ITALIANISTA Un italianista aveva trovato delle corrispondenze tra alcuni brani de L’amore molesto e di Via Gemito, il bel libro di Domenico Starnone. Nel rispondere a Baudino, mi venne da dire: e se la Ferrante fosse la somma delle immaginazioni dello stesso Starnone e di Anita Raja? Feci la mia ipotesi, e allo stesso tempo provai un sentimento di disagio. Mi ero prestato a un gioco che in realtà non avevo voglia di giocare. A tenere a battesimo il primo libro della Ferrante era stata proprio Anita Raja, perché era lei a dirigere la collana della casa editrice e/o nella quale vide la luce quell’esordio. E forse uno degli elementi che m’indusse a fare proprio il suo nome fu questo. ANNI Sono passati alcuni anni, e col crescere del successo della Ferrante, le ipotesi su chi si celasse dietro quel nome e quel cognome si sono moltiplicate. E quando è stato fatto anche il nome di Marcella Marmo, lei per difendersi dagli attacchi dei media ha detto: per me Elena Ferrante è Silvio Perrella, cioè l’autore dell’articolo che state leggendo. GIORNALI Raggiunto dai giornali, decisi di non commentare e di asternermi da possibili interviste. Però di nuovo sentii una forma di disagio. Con i miei improvvisi interlocutori telefonici, dovevo quasi scusarmi di non essere proprio io la persona che loro cercavano. In quell’occasione, ho capito che essere inseguiti, come capita di nuovo ad Anita Raja in questi giorni, per qualcosa che si è scritto e che si è deciso di non accompagnare con la proprio identità non è proprio qualcosa di piacevole. Resta il fatto che i media vogliono sapere. E dunque, la manzoniana domanda: Anita Raja, chi è costei?, squillerà ancora per un po’. *** CLAUDIO GATTI DIFENDE LA SUA INCHIESTA SU ELENA FERRANTE CLAUDIO GATTI, IL SOLE 24 ORE 4/10 – Dal New York Times alla radiotelevisione australiana, da Libération alla Bbc, da Der Spiegel alla Radio National De España, i media di tutto il mondo hanno ripreso lo scoop sulla vera identità di Elena Ferrante pubblicato dal supplemento Domenica del Sole 24 Ore. E ancora più intensa è stata la reazione dei fan della scrittrice partenopea nei social media. L’unica a non reagire è stata la più diretta interessata, e cioè la traduttrice Anita Raja, da noi identificata come autrice della tetralogia de “L’Amica Geniale”, la quale non ha in alcun modo commentato i risultati della nostra inchiesta. Il suo editore, Sandro Ferri, comproprietario di Edizioni e/o con la moglie Sandra Ozzola, ha invece criticato con violenza il lavoro di inchiesta fatto da Il Sole 24 Ore per trovare le prove documentali che attestassero chi aveva beneficiato del successo commerciale dei libri di Ferrante. Ma Ferri non ha contraddetto una singola informazione fornita dalla nostra inchiesta. Né ha esposto possibili spiegazioni alternative. Le argomentazioni avanzate nei giornali da Ferri e nei social media dai fan di Ferrante sono essenzialmente due: sono state utilizzate risorse e tecniche di giornalismo investigativo su un soggetto che non lo giustificava. E soprattutto c’è stata una pesante violazione della privacy della scrittrice. Ma, in quanto autrice di libri divenuti best-seller in tutto il mondo, Elena Ferrante è ormai un importante personaggio pubblico. Anzi si può dire che sia attualmente la più nota italiana al mondo (come peraltro dimostrato dalle reazioni dei media e dei social). Milioni di suoi lettori avevano dunque un legittimo desiderio di sapere qualcosa circa la persona dietro l’opera. A sostenere questo non è stato però il Sole 24 Ore. Sono stati la stessa autrice e i suoi editori, che hanno pubblicamente riconosciuto come «sano» questo desiderio. In una “lettera aperta” all’autrice, Sandra Ozzola aveva infatti sostenuto che la curiosità dei suoi lettori avrebbe meritato «una risposta più generale, al di là delle interviste ai giornali, non solo per placare quanti si perdono nelle ipotesi più inverosimili sulla tua vera identità, ma anche da un sano desiderio da parte dei tuoi lettori (…) di conoscerti meglio». Era nata così «La Frantumaglia», il saggio sedicentemente autobiografico dal quale i lettori hanno appreso che la scrittrice ha tre sorelle, che la madre era una sarta napoletana incline a esprimersi “nel suo dialetto”, e che lei aveva vissuto a Napoli fin quando non ne era “scappata via” avendo trovato lavoro altrove. La nostra inchiesta ha dimostrato però che niente di tutto questo corrisponde alla vita personale della scrittrice. Insomma, la prima a violare la privacy di Elena Ferrante è stata… Elena Ferrante. Ma lo ha fatto fornendo ai suoi fan informazioni assolutamente non vere, per di più su richiesta di quegli stessi editori che oggi attaccano Il Sole 24 Ore per aver fornito invece dati veri che peraltro non sminuiscono in alcun modo la qualità dei libri, né tantomeno impediranno all’autrice di continuare a scriverne degli altri e ai fan di continuare ad amarli. Sapendo però chi li ha veramente partoriti, la sua storia, il suo milieu culturale e i suoi riferimenti letterari presentati nel dettaglio dalla nostra inchiesta. *** LUCA SOFRI, IL POST 4/10/2016 – Non sono perdonabili le invadenze giornalistiche aggressive nei confronti di nessuno, né persone qualunque terremotate, né politici in quanto tali, né sindaci, né divi del cinema, né celebrities varie. E invece ce ne sono esempi quotidiani, un vero formato contemporaneo, molestie e linciaggi su cui ci sono estese indulgenze e claques. Chi da oggi si mettesse a infastidire la signora sospettata di “essere Elena Ferrante” in questo genere di modi, non è quindi perdonabile, e più che un giornalista sarebbe un teppista. Ma chi invece ha deciso di indagare con metodi giornalistici su chi sia realmente l’autore/autrice che ha deciso di scrivere sotto pseudonimo quello che è diventato uno dei più notevoli e discussi successi editoriali mondiali di questi anni, non ha fatto niente di riprovevole, e ha fatto esattamente il lavoro del giornalista: seguire una storia, scoprirne le cose ignote, raccontarle. E che si tratti di una storia, è indiscutibile. E benché siano comprensibili i fastidi dell’editore che su questo segreto ha investito molto, quello che ha fatto Claudio Gatti non è diverso da quello che qualche mese fa fece il professor Santagata tra scandali molto minori: cercare di scoprire un mistero. La differenza, sembra, è che il giornalista Gatti ha trovato più di quello che trovò lo studioso Santagata, e nel generare ora reazioni più scandalizzate hanno un peso o i risultati o le qualifiche. Poi che ci siano lettori affezionati che preferiscono non sapere, o le cui simpatie per l’autore/autrice muovono maggiori solidarietà nei suoi confronti, è una cosa comprensibile: ma è prepotente e arrogante attribuirsi diritti maggiori degli altri in quanto lettori. Certo che “per l’opera non ha nessuna importanza”: proprio perché non ce l’ha non si devono confondere le due storie (e scagli la prima pietra il lettore che si è sottratto in questi anni alle conversazioni sull’identità di Elena Ferrante). È meno comprensibile che si chieda invece per una scrittrice un riguardo che si nega ad altri protagonisti pubblici di grande successo. Perché raccontare chi sia Elena Ferrante non è diverso da raccontare il divorzio tra Brad Pitt e Angelina Jolie – e probabilmente più interessante -, o chi fosse Gola Profonda. Svelare i conti di un editore non è più disdicevole di raccontare quelli di un candidato alla presidenza americana. Chi cita con qualche compiacimento i grandi autori pseudonimi del passato rivela strani modi di leggere e capire l’oggi, e confonde storia della letteratura e giornalismo. E immagino che se oggi qualcuno rivelasse che i primi libri di Philip Roth li ha scritti suo cugino, l’attenzione di tutti sarebbe enorme (la vicenda di Gordon Lish e Raymond Carver, per dirne una vera, attira attenzioni da sempre). La storia c’è. E anzi, il deliberato e rivendicato mistero intorno all’autore/autrice, e addirittura le estese teorizzazioni sulle ragioni “politiche” di questa scelta di anonimato da parte sua e degli editori, le sue interviste e comunicazioni sul tema, annullano ogni obiezione sulla “scelta di silenzio” eccetera. L’articolo di Gatti ha una sola fragilità che permette di criticarlo: non arriva a conclusioni certe, per sua stessa ammissione. È infatti discutibile eventualmente la scelta di pubblicare o no le cose che ha scoperto, in mancanza di certezza. Per questo se l’ipotesi si rivelasse errata la signora citata, irritata per qualunque ragione legittima, avrebbe buon diritto di non volere responsabilità che non sono sue e seccature che non ha cercato. Ma per questo bisogna che almeno dica “è falso” (lo fece, ridendo, la precedente sospettata), rispetto a un’ipotesi discretamente argomentata: e allora che Gatti e il Sole si scusino di avere tirato in ballo la persona sbagliata senza le dovute cautele. Altrimenti, è giornalismo. *** LA PRIMA INTERVISTA DI ELENA FERRANTE A UN GIONALE, L’UNITA’ NEL 2002 L’8 settembre del 2002, in occasione dell’uscita de I giorni dell’abbandono Elena Ferrante concedeva la sua prima intervista a un quotidiano, l’Unità. Quello che segue è un lungo frammento di quella intervista rilasciata a Stefania Scateni e che troverete nella versione integrale nella seconda edizione de La Frantumaglia (e/o, pagg. 373, 19 euro) Lei è una scrittrice senza volto e il mistero della sua identità ha alimentato le ipotesi e le fantasie più varie. La magia dell’invisibilità non aggiunge nulla ai suoi libri. Le sono grata anche per questo. Il suo romanzo descrive un momento terribile della vita di una donna e lo fa con una sincerità cruda, specialmente nei confronti della protagonista. Crede che il suo «anonimato» sia stato di aiuto? «Non so. Ho avuto sempre la tendenza a separare la vita di tutti i giorni dallo scrivere. Per tollerare l’esistenza, mentiamo e soprattutto ci mentiamo. A volte ci raccontiamo favole belle, a volte ci diciamo bugie meschine. Le menzogne ci proteggono, attenuano il dolore, ci permettono di evitare lo spavento di riflettere sul serio, annacquano gli orrori del nostro tempo, ci salvano persino da noi stessi. Invece quando si scrive non bisogna mai mentire. Nella finzione letteraria è necessario essere sinceri fino all’insostenibile, pena la vacuità delle pagine. È probabile che separare nettamente ciò che siamo nella vita da ciò che siamo quando scriviamo aiuti a tenere a bada l’autocensura». Perché ha scelto di non diventare un personaggio pubblico? «Per un desiderio un po’ nevrotico di intangibilità. La fatica di scrivere tocca ogni punto del corpo. Quando il libro è finito, è come se si fosse stati perquisiti senza rispetto, e non si desidera altro che riacquistare integrità, tornare a essere la persona che comunemente si è, nelle occupazioni, nei pensieri, nel linguaggio, nelle relazioni. Pubblica del resto è l’opera: lì c’è tutto quello che abbiamo da dire. Oggi a chi importa veramente della persona che l’ha scritta? L’essenziale è il lavoro fatto». La sua scrittura sembra una scrittura non destinata a lettori, che nasce come scrittura privata, senza altro interlocutore che il foglio (o il computer) o se stessi. È così? «No, non credo. Io scrivo perché i miei libri siano letti. Ma mentre scrivo non è questo che conta, conta solo trovare le energie per scavare in profondità dentro la storia che sto raccontando. L’unico momento della mia vita in cui non mi lascio impressionare da nessuno è quello in cui cerco di trovare le parole per andare oltre la superficie di un gesto ovvio, di una formula banale. Non mi spaventa nemmeno scoprire che scavare è inutile e sotto la superficie non c’è niente». Leggendo il suo libro ho pensato alla vita che «fa» scrivere, che il tempo del vivere è quello dello scrivere. È per questo che ha scritto due libri in dieci anni? «Devo ammettere con un po’ di imbarazzo che non ho scritto due libri in dieci anni, ne ho scritti e riscritti parecchi. Ma L’amore molesto e I giorni dell’abbandono mi sono sembrati quelli che mettevano più decisamente il dito dentro certe mie ferite ancora infette, senza distanza di sicurezza. Ho raccontato anche, in altri momenti, di ferite pulite o felicemente rimarginate, e l’ho fatto con il distacco regolamentare e con le parole giuste. Ma poi ho scoperto che non è quella la mia strada». Sempre a proposito di questo, la sua scrittura è molto concreta, fisica, come se il corpo si facesse portatore di parole. È una scrittura fatta di gesti, quei gesti quotidiani, resi fluidi dall’abitudine, che poi si spampanano nel momento della «malattia». Insomma, è una scrittura femminile. Ci sono scrittrici (e anche scrittori) a cui si sente vicina? «Quand’ero molto giovane, puntavo a scrivere esibendo un polso virile. Mi pareva che tutti gli scrittori di gran livello fossero di sesso maschile e che quindi bisognasse scrivere da vero uomo. In seguito mi sono messa a leggere con molta attenzione la letteratura delle donne e ho sposato la tesi che ogni piccolo frammento in cui fosse riconoscibile una specificità letteraria femminile andasse studiato e messo a frutto. Da qualche tempo però mi sono scrollata di dosso preoccupazioni teoriche e letture e sono passata a scrivere senza chiedermi più cosa dovessi essere: maschile, femminile, di genere neutro. Mi sono limitata a scrivere leggendo di volta in volta libri che mi facessero non bella, ma buona compagnia mentre scrivevo. Ne ho un discreto elenco, li chiamo libri di incoraggiamento: l’Adele di Tozzi, Dalla parte di lei della De Cespedes, Lettera a un editore della Manzini, Menzogna e sortilegio o L’isola di Arturo della Morante ecc.. Per quanto possa sembrare incongruo, il libro che più mi ha accompagnato mentre lavoravo a I giorni dell’abbandono è La principessa di Cleves di Madame de La Fayette». Olga aveva trovato un significato della sua esistenza in un rapporto, nei riti di un rapporto. Rimasta sola, deve ricostruirsi da zero, si accorge dell’errore e approda a un altro rapporto, quello con Carrano, armata di molto disincanto. Cosa pensa dell’amore? «Il bisogno d’amore è l’esperienza centrale della nostra esistenza. Per quanto possa sembrare insensato ci sentiamo veramente vivi solo quando abbiamo un dardo nel fianco che ci trasciniamo dietro notte e giorno, ovunque andiamo. Il bisogno d’amore spazza via ogni altro bisogno e d’altra parte motiva tutte le nostre azioni. Si legga il IV libro dell’Eneide. La costruzione di Cartagine si ferma quando Didone si innamora. Poi la città seguiterebbe a crescere potente e felice se Enea restasse. Ma lui va via, Didone si uccide e Cartagine da potenziale città dell’amore si trasforma in città con una missione d’odio. Gli individui e le città senza amore sono un pericolo per sé e per gli altri». “I giorni dell’abbandono” potrebbe persino sembrare un romanzo «femminista»... Si sente in sintonia con Simone de Beauvoir e il suo “Una donna spezzata”? «No, non più. Ho usato quel libro, nella storia di Olga, così come avrei potuto usare la Didone abbandonata che erra per la città fuori di sé e si trafigge con la spada di Enea, uno dei “ricordi” che lui le ha lasciato. In realtà Olga è donna d’oggi che sa di non dover reagire all’abbandono spezzandosi. Nella vita come nella scrittura mi interessa l’effetto di questo sapere nuovo: come agisce, che resistenza oppone, come combatte contro la voglia di morte e si conquista il tempo necessario per imparare a sopportare il dolore, quali stratagemmi o finzioni mette in atto per riaccettare la vita». Cosa pensa del progetto di Roberto Faenza di trasformare “I giorni dell’abbandono” in un film? Sta seguendo il progetto? «No, per adesso no. Amo il cinema ma non so niente del linguaggio filmico. Spero che il suo I giorni dell’abbandono venga migliore del mio». *** ENZO VERRENGIA, L’UNITA’ 4/10/2016 – DA SALINGER A FOLLETT E AUSTEN QUANDO L’ANONIMATO È UNA VIRTÙ– La rivelazione dell’identità di Elena Ferrante rintrona nel circo mediatico quasi oscurando l’apocalisse permanente di questo 2016 che ormai volge all’ultimo trimestre. Sembra di rivedere Bouvard e Pécuchet, i due impagabili protagonisti di Flaubert, intenti al loro sciocchezzaio, incapaci di realizzare un percorso culturale compiuto. Oppure c’è qualcosa di più tipicamente italiano nell’accanirsi a violare la privacy di chi ha scelto di pubblicare sotto pseudonimo, l’invidia. I libri di Elena Ferrante hanno scalato le vendite dappertutto. Con lei la narrativa italiana ritrova anche all’estero una rinomanza perduta dopo la scomparsa di Calvino, Moravia, Pasolini e degli altri grandi, non certo ritrovata dai pastrocchi dei cannibali e dei cosiddetti “giovani autori”. Della cosa si era occupato anche il Guardian lo scorso 19 marzo con un elzeviro di John Dugdale intitolato “L’alter ego segreto di Elena Ferrante durerà più a lungo di quello di Louisa May Alcott”. Ci si riferiva all’autrice di Piccole donne, che da uno studio di esperti effettuato negli anni ’40 del Novecento risultava aver pubblicato dei romanzi gotici vittoriani intorno al 1860 con il nom de plume di A. M. Barnard. Fecero lo stesso due sue contemporanee più illustri. Mary Anne Marian Evans firmò capolavori della letteratura britannica quali Adam Bede, Il mulino sulla Floss, Silas Marner e Middlemarch con l’identità maschile di George Eliot. Analogamente, dietro George Sand celava Amantine (o Amandine) Aurore Lucile Dupin. Non cambiò fittiziamente di sesso Anne Desclos, che dapprima si ripropose sotto le mentite spoglie di Dominique Aury e poi esplose nel costume e nei record di vendite come Pauline Réage sulla copertina di Histoire d’O. Per anni si è data la caccia a Jerome David Salinger, che con Il giovane Holden scrisse un ritratto dell’irruenza postadolescenziale valido per ogni epoca e latitudine. Nel suo caso le generalità non venivano trasmutate ma solamente “liofilizzate” nelle due iniziali del doppio nome. Lui, però, scelse di non farsi più fotografare, di rimanere immortalato allo stesso modo di Dorian Gray in quel ritratto giovanile che si stampò nei lettori per tante generazioni. Finché, qualche anno prima della sua morte, fu colto da un fotografo con un carrello della spesa all’uscita da un ipermercato. Si credette anche che Salinger fosse annidato nelle sconosciute fattezze di Thomas Pynchon, altro letterato sfuggente, italianizzato in Tommaso Pincio da Marco Colapietro. Stephen King non disdegnò di trincerarsi dietro il nominativo di Richard Bachman per scrivere romanzi di fantascienza. Il più noto è L’uomo in fuga, uscito nel 1982, da cui cinque anni dopo il regista Paul Michael Glaser (lo Starsky della serie televisiva) trasse il film L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger. Soltanto la critica si era accorta di Il richiamo del cuculo, di Robert Galbraith, ex militare che esordiva nel romanzo. Protagonista: Cormoran Strike, investigatore privato pieno di debiti e scarso di clientela. Il pubblico non si appassionava, e il libro non vendette che 1500 copie. Poi sul settimanale The Sunday Times apparve la verità. Il richiamo del cuculo l’aveva scritto Joanne Kathleen (JK) Rowling, l’autrice della saga di Harry Potter. La seconda edizione fu un trionfo e il ciclo di Cormoran proseguì con Il baco da seta e La via del male. Ken Follett, un altro campione di incassi, seguì il consiglio del suo agente, che gli disse: «Non sprecare il tuo vero nome per i romanzi con cui ti fai le ossa. Usalo quando ne sfornerai uno davvero buono». Lo scrittore di Cardiff venne allo scoperto con il primo enorme successo. La cruna dell’ago, del 1978. La vicenda al cardiopalma dell’agente nazista che ha scoperto i piani dello sbarco in Normandia fu portata sullo schermo da Richard Marquand nel 1981, con Donald Sutherland e Rate Nelligan. In precedenza Follett pubblicò libri firmandoli Simon Myles, Bernard L. Ross, Zachary Stone e Martin Martinsen. Ellery Queen adombrava i cugini Daniel Nathan ed Emmanuel Lepofsky. S. S. Van Dine, il creatore del raffinatissimo Philo Vance, investigatore dilettante e snob, era in realtà Willard Huntington Wright, esimio critico d’arte. David Cornwell lavorava per l’intelligence britannica a Berlino nella Guerra Fredda. Quando decise di trasporre nei thriller le proprie esperienze, il Foreign Office gli impose di “camuffarsi”. Lui lo fece da John Le Carré. Primo Levi scoprì la vocazione narrativa nel lager. Più tardi, in qualità di chimico, arricchì i materiali della scrittura. Nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila pubblicò da Einaudi le Storie naturali, una preziosissima antologia di racconti avveniristici e paradossali. Luigi Preti rievocò struggenti episodi autobiografici in Giovinezza, giovinezza con lo pseudonimo di A. Mario Fabbri. Il romanzo vinse il Premio Bancarella del 1964 e nel 1968 fu portato al cinema da Franco Rossi. «Che cosa c’è in un nome?» si chiede Giulietta nel secondo atto della sua tragedia con Romeo.