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 2016  ottobre 05 Mercoledì calendario

FACCIAMO LA GUERRA


Il sole è già sorto. L’istruttore Gold, capelli rossi a spazzola e muscoli scolpiti, attraversa lo spiazzo diretto verso un gruppo di tende. Suona il fischietto. «Pidjom!» sbraita. Sveglia!
Subito si sentono fruscii e rumori di movimento. Le cerniere delle tende si aprono, e dall’interno spuntano i visi insonnoliti di bambini di otto anni. Adolescenti smilzi e con le borse sotto gli occhi frugano in cerca delle scarpe fra parolacce e spintoni. Dopo essersi lavati i denti li aspetta la prima attività di addestramento: una lunga corsa intervallata da frequenti serie di dieci flessioni.
L’Azov è un battaglione volontario ucraino che, a 25 anni dall’indipendenza del Paese (1991), combatte contro i separatisti filo-russi nelle regioni orientali. Da due estati organizza anche campi giovanili, come questo nei boschi intorno alla capitale Kiev. Nel giro di 12 giorni, 50 bambini di età compresa fra gli 8 e i 16 anni vengono trasformati in patrioti d’eccezione.
Dopo la colazione, i ragazzini si radunano intorno alla bandiera vestiti in tenuta mimetica. All’ordine di Gold, si tolgono il cappello e con il pugno sul petto ripetono a squarciagola le sue parole: «Ucraina, santa madre degli eroi, entra nel mio cuore. Rinvigorisci la mia anima e illuminala della tua gloria. Tu, sacra più di tutto ciò che è sacro, sei la mia vita e la mia gioia». Poi viene issata la bandiera: sul blu e giallo dell’Ucraina campeggia l’immagine di un soldato.
Intorno all’ora di pranzo vengono portati i Kalashnikov. Tarkan, un’esilissima tredicenne di Kiev dai capelli lunghi e lisci, impiega appena 36 secondi a completarne la manutenzione. «Togliete il caricatore e la leva di bloccaggio, estraete il cilindro del gas. Poi rimontate tutto. E attenzione: non puntate mai l’arma contro una persona. A meno che non siate sicuri di voler sparare».
Nel tardo pomeriggio, quando il rovente sole estivo comincia a calare, i ragazzini fanno un’esercitazione di posizionamento. Servendosi di fucili di legno e armi ad aria compressa, con piccoli proiettili di plastica che fanno male solo un po’, simulano situazioni di combattimento: devono comunicare fra loro, scegliere una posizione, girarsi di novanta gradi e sparare. «Bam, bam, bam, bam, bam», gridano.
Gli istruttori hanno già tutti combattuto al fronte con il battaglione Azov. Gold lo ha fatto vicino a Donetsk, dove si dice abbia salvato la vita allo zio di uno dei ragazzi. Bear faceva il tiratore scelto, Borja il medico. Gold, con i suoi 27 anni, è l’istruttore più anziano, tutti gli altri ne hanno poco più di venti.
«Gli istruttori ci insegnano cos’è la guerra», dice Tarkan. «Facciamo lezioni di pronto soccorso. Ci spiegano come sopravvivere nella foresta. In questo modo capiamo com’è fare il soldato».
Tarkan è figlia di un combattente dell’Azov. Come lei, molti di questi ragazzini. Non vengono dalle classi povere. Sono ben vestiti, educati, e soprattutto curiosi. Smolny, un piccolo saputello con gli occhiali, viene da Leopoli, nell’Ucraina occidentale, ed era un anno che aspettava di venire al campo.
«Mio padre è nell’Azov, e adesso io sono al campo dell’Azov. È un sogno che si avvera».
L’addestramento è rigoroso e funziona. «Non ce la farò mai, ho pensato all’inizio vedendo il percorso a ostacoli», racconta Smolny. «Devi camminare su un’asse in equilibrio mentre i tiratori ti sparano, e poi attraversare un campo minato. Io pensavo di cadere, e che tutti mi avrebbero fatto “buuu”. Ma se sono sicuro di me stesso ce la faccio».
Quando comincia a farsi buio è di nuovo il momento della preghiera. «Brucia la debolezza del mio cuore, perché non conosca paura o dubbio. Rendi forte il mio spirito». Segue l’ammainabandiera. Si cantano canzoni intorno al fuoco. La più popolare finisce con le parole «Morte ai russi».

I russi odiano il battaglione Azov, che è invece popolare fra gli ucraini. In questa guerra sono i battaglioni volontari a fare il lavoro sporco. Quelli dell’Azov vanno fieri del loro ruolo nella battaglia di Shyrokyne, una località marittima sulla costa di quel Mar d’Azov da cui prendono il nome. Risale al febbraio del 2015. Dopo feroci combattimenti, i separatisti sostenuti dalla Russia hanno dovuto abbandonare le loro mire sul «ponte di terra» che collega la Russia alla Crimea, la penisola annessa militarmente nel marzo 2014.
Al momento i combattenti sono fermi nella loro base, un paesino sul mare di Azov non lontano dalla città di Mariupol, nell’estremità sudorientale dell’Ucraina. Il Protocollo di Minsk, siglato l’anno scorso, prevedeva tra le altre cose un cessate il fuoco. Anche se le parti in conflitto non ne rispettano i termini, i fanatici combattenti dell’Azov non hanno altra scelta se non allenarsi allo sfinimento in una palestra in riva al mare. Qui uomini alti come alberi, con nasi da pugile, addominali in rilievo e muscoli luccicanti, passano il loro tempo fra pesi e bilancieri.
«Le mie uniche prestazioni mediche, al momento, sono gli infortuni da palestra», spiega Mama, il medico (donna) del battaglione. «Qualcuno che magari ha bevuto troppa acqua fredda». Mama, 30 anni e una lunga treccia di capelli scuri, due anni fa ha fatto la scelta consapevole di unirsi a questa «forza d’élite», come i membri dell’Azov amano definire il loro battaglione. «Il nostro obiettivo è scacciare il nemico dal Paese. Vogliamo combattere ed essere dotati di equipaggiamenti in linea con gli standard europei e Nato», aggiunge Mama, che come medico era presente alla battaglia di Shyrokyne. «Molti combattenti avevano appena 16, 18 anni, e io pensavo che potevano essere figli miei»: ecco perché il suo soprannome. Ripensando al coraggio di quei ragazzini sorride. «Erano reduci da un attacco di mortaio e giuravano di tornare sul campo di battaglia non appena gli avessi tolto le schegge. Si vantavano del numero di proiettili sparati contro il nemico». Eppure, anche se così giovani, molti di loro sono morti. Nel febbraio del 2015 il battaglione ha conosciuto il suo record di vittime e feriti, qualcosa come 72. «Shyrokyne era un avamposto dell’inferno». Un giorno Mama ha dovuto evacuare un soldato ferito, ma non aveva abbastanza lacci emostatici per fermare le emorragie. Cossack, così si chiamava, è morto dissanguato durante il trasporto in ospedale. «Aveva solo 20 anni».
I giovani combattenti crescono in fretta, dice Mama. «Molti andavano ancora a scuola. Dopo cinque giorni di bombardamenti li ho guardati negli occhi. Sembravano invecchiati di dieci anni».
«La guerra è spaventosa perché soffrono tutti. Anche il nemico», osserva Tarkan. Sua madre organizza i funerali dei combattenti dell’Azov caduti in battaglia. «La guerra è un bagno di sangue», le fa eco Smolny. «E chi muore diventa un eroe».

I ragazzini si sfregano gli occhi assonnati. Durante la notte ci sarà un «allarme», come lo chiamano loro. Alle tre del mattino, nel buio più assoluto, li sveglierà un rumore di esplosioni. Dovranno abbandonare le tende e stabilire la loro posizione in un caos di fumogeni. Ma soprattutto vincere il panico.
L’obiettivo del campo, però, non è preparare i bambini alla guerra, sottolinea l’istruttore Gold. «Li formiamo al nazionalismo e al patriottismo», dice, «tra le altre cose facendo venire gente dal fronte orientale a raccontare cosa succede lì. Anche i ragazzini devono sapere cosa sta succedendo in Ucraina».
«Nessuno di noi pensa davvero di andare in guerra», ammette Tarkan. «Non è che dopo il campo io prendo un’arma e mi metto a sparare alla gente». Lei alle superiori vuole studiare educazione fisica e matematica. Pensa che in Ucraina esista poca solidarietà, e questo deve cambiare. «Tanti pensano solo a loro stessi. I veri ucraini hanno il senso della patria e vogliono combattere per la libertà. E lo fanno aiutandosi uno con l’altro. È questo che li fa diventare una nazione, anziché solo un popolo».
Il concetto di «nazione» sta alla base dell’ideologia dell’Azov, che per il resto è avvolta da una certa ambiguità. Il battaglione non ha assolutamente nulla a che vedere con il neonazismo, rispondono decisi gli istruttori alle frequenti accuse rivolte dai media occidentali e russi. Il simbolo dell’Azov somiglia molto alla Wolfsangel («trappola per lupi») nazista, ma Azov sostiene che si basi sulla combinazione delle lettere «I» e «N»: «Idea Natia», ovvero «idea nazionale».
Al campo giovanile le simpatie naziste sono punite con severità. Quando nel diario di una tredicenne spunta una svastica, l’intero gruppo viene radunato. «Noi non siamo neonazisti, chiaro?», sbraita un istruttore indignato alla ragazzina.
A differenza di altri battaglioni, l’Azov preferisce rifarsi ai valori della natura anziché a quelli cristiani. «La nostra ideologia ha poco a che vedere con dio», spiega il portavoce del battaglione Volodimir Svidenko. «Quello che conta per noi è la terra, il nostro Paese».
«Ai ragazzi insegniamo ad amare il loro territorio e a rispettare la natura», aggiunge l’istruttore Gold. «Perché la natura è più forte dell’uomo».

Tra le attività previste al campo c’è la pulizia dei boschi dai rifiuti. Ma i ragazzini si dicono disposti a morire per il loro Paese. «Io lo capisco», commenta Smolny. «Meritarlo è un onore».
«L’interesse del Paese è più importante di quello personale», dice Tarkan. «Se noi diamo la vita per l’Ucraina, la prossima generazione potrà vivere meglio e in pace».
Malgrado l’odio che trasuda dai testi delle canzoni, i pareri dei ragazzi sui russi sono miti. «Sono persone anche loro», dice Tarkan. «Alcuni sostengono l’Ucraina, altri no. Chi non lo fa è perché crede a tutto quel che gli dice la televisione».
«I traditori esistono anche in Ucraina», aggiunge Smolny. «Lavorano per il nemico».
Il fatto è che la realtà dell’Ucraina è diversa da quella dei Paesi occidentali, risponde Mama quando le chiedo se non è strano che dei bambini crescano in mezzo alle armi. «Purtroppo siamo costretti», dice. «Non sappiamo quanto durerà questa guerra. Magari cinque anni, ma potrebbero anche essere cinquanta, come in Israele. Loro devono potersi difendere, e difendere i loro figli».
Mama ha soltanto parole di lode per i giovani combattenti dell’Azov, che a suo avviso sono un esempio per tutti gli ucraini. «Combattono perché i loro padri non lo fanno. Vogliono evitare che la guerra gli arrivi in casa».
A sentire Mama, il campo giovanile ha un’importanza decisiva per l’Ucraina. «Grazie al cielo i ragazzi non sanno com’era l’Unione Sovietica. E nemmeno hanno conosciuto l’orrore degli anni Novanta, quando mancavano il cibo, il riscaldamento, il lavoro. I nostri politici ci vogliono schiavi, e noi dobbiamo fare in modo che questi ragazzi diventino più intelligenti, più coraggiosi e più liberi di noi».
(traduzione di Matteo Colombo)