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 2016  ottobre 04 Martedì calendario

DA SALINGER A FOLLETT E AUSTEN QUANDO L’ANONIMATO È UNA VIRTÙ


La rivelazione dell’identità di Elena Ferrante rintrona nel circo mediatico quasi oscurando l’apocalisse permanente di questo 2016 che ormai volge all’ultimo trimestre. Sembra di rivedere Bouvard e Pécuchet, i due impagabili protagonisti di Flaubert, intenti al loro sciocchezzaio, incapaci di realizzare un percorso culturale compiuto. Oppure c’è qualcosa di più tipicamente italiano nell’accanirsi a violare la privacy di chi ha scelto di pubblicare sotto pseudonimo, l’invidia. I libri di Elena Ferrante hanno scalato le vendite dappertutto. Con lei la narrativa italiana ritrova anche all’estero una rinomanza perduta dopo la scomparsa di Calvino, Moravia, Pasolini e degli altri grandi, non certo ritrovata dai pastrocchi dei cannibali e dei cosiddetti “giovani autori”.
Della cosa si era occupato anche il Guardian lo scorso 19 marzo con un elzeviro di John Dugdale intitolato “L’alter ego segreto di Elena Ferrante durerà più a lungo di quello di Louisa May Alcott”. Ci si riferiva all’autrice di Piccole donne, che da uno studio di esperti effettuato negli anni ’40 del Novecento risultava aver pubblicato dei romanzi gotici vittoriani intorno al 1860 con il nom de plume di A. M. Barnard. Fecero lo stesso due sue contemporanee più illustri. Mary Anne Marian Evans firmò capolavori della letteratura britannica quali Adam Bede, Il mulino sulla Floss, Silas Marner e Middlemarch con l’identità maschile di George Eliot. Analogamente, dietro George Sand celava Amantine (o Amandine) Aurore Lucile Dupin.
Non cambiò fittiziamente di sesso Anne Desclos, che dapprima si ripropose sotto le mentite spoglie di Dominique Aury e poi esplose nel costume e nei record di vendite come Pauline Réage sulla copertina di Histoire d’O.
Per anni si è data la caccia a Jerome David Salinger, che con Il giovane Holden scrisse un ritratto dell’irruenza postadolescenziale valido per ogni epoca e latitudine. Nel suo caso le generalità non venivano trasmutate ma solamente “liofilizzate” nelle due iniziali del doppio nome. Lui, però, scelse di non farsi più fotografare, di rimanere immortalato allo stesso modo di Dorian Gray in quel ritratto giovanile che si stampò nei lettori per tante generazioni. Finché, qualche anno prima della sua morte, fu colto da un fotografo con un carrello della spesa all’uscita da un ipermercato. Si credette anche che Salinger fosse annidato nelle sconosciute fattezze di Thomas Pynchon, altro letterato sfuggente, italianizzato in Tommaso Pincio da Marco Colapietro.
Stephen King non disdegnò di trincerarsi dietro il nominativo di Richard Bachman per scrivere romanzi di fantascienza. Il più noto è L’uomo in fuga, uscito nel 1982, da cui cinque anni dopo il regista Paul Michael Glaser (lo Starsky della serie televisiva) trasse il film L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger.
Soltanto la critica si era accorta di Il richiamo del cuculo, di Robert Galbraith, ex militare che esordiva nel romanzo. Protagonista: Cormoran Strike, investigatore privato pieno di debiti e scarso di clientela. Il pubblico non si appassionava, e il libro non vendette che 1500 copie. Poi sul settimanale The Sunday Times apparve la verità. Il richiamo del cuculo l’aveva scritto Joanne Kathleen (JK) Rowling, l’autrice della saga di Harry Potter. La seconda edizione fu un trionfo e il ciclo di Cormoran proseguì con Il baco da seta e La via del male.
Ken Follett, un altro campione di incassi, seguì il consiglio del suo agente, che gli disse: «Non sprecare il tuo vero nome per i romanzi con cui ti fai le ossa. Usalo quando ne sfornerai uno davvero buono». Lo scrittore di Cardiff venne allo scoperto con il primo enorme successo. La cruna dell’ago, del 1978. La vicenda al cardiopalma dell’agente nazista che ha scoperto i piani dello sbarco in Normandia fu portata sullo schermo da Richard Marquand nel 1981, con Donald Sutherland e Rate Nelligan. In precedenza Follett pubblicò libri firmandoli Simon Myles, Bernard L. Ross, Zachary Stone e Martin Martinsen.
Ellery Queen adombrava i cugini Daniel Nathan ed Emmanuel Lepofsky.
S. S. Van Dine, il creatore del raffinatissimo Philo Vance, investigatore dilettante e snob, era in realtà Willard Huntington Wright, esimio critico d’arte.
David Cornwell lavorava per l’intelligence britannica a Berlino nella Guerra Fredda. Quando decise di trasporre nei thriller le proprie esperienze, il Foreign Office gli impose di “camuffarsi”. Lui lo fece da John Le Carré.
Primo Levi scoprì la vocazione narrativa nel lager. Più tardi, in qualità di chimico, arricchì i materiali della scrittura. Nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila pubblicò da Einaudi le Storie naturali, una preziosissima antologia di racconti avveniristici e paradossali.
Luigi Preti rievocò struggenti episodi autobiografici in Giovinezza, giovinezza con lo pseudonimo di A. Mario Fabbri. Il romanzo vinse il Premio Bancarella del 1964 e nel 1968 fu portato al cinema da Franco Rossi.
«Che cosa c’è in un nome?» si chiede Giulietta nel secondo atto della sua tragedia con Romeo.