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 2016  ottobre 04 Martedì calendario

SETTEMBRE 2002, LA SUA PRIMA INTERVISTA A UN QUOTIDIANO. E LEI SCELSE L’UNIT


[Elena Ferrante]

L’8 settembre del 2002, in occasione dell’uscita de I giorni dell’abbandono Elena Ferrante concedeva la sua prima intervista a un quotidiano, l’Unità. Quello che segue è un lungo frammento di quella intervista rilasciata a Stefania Scateni e che troverete nella versione integrale nella seconda edizione de La Frantumaglia (e/o, pagg. 373, 19 euro)

Lei è una scrittrice senza volto e il mistero della sua identità ha alimentato le ipotesi e le fantasie più varie. La magia dell’invisibilità non aggiunge nulla ai suoi libri. Le sono grata anche per questo. Il suo romanzo descrive un momento terribile della vita di una donna e lo fa con una sincerità cruda, specialmente nei confronti della protagonista. Crede che il suo «anonimato» sia stato di aiuto?
«Non so. Ho avuto sempre la tendenza a separare la vita di tutti i giorni dallo scrivere. Per tollerare l’esistenza, mentiamo e soprattutto ci mentiamo. A volte ci raccontiamo favole belle, a volte ci diciamo bugie meschine. Le menzogne ci proteggono, attenuano il dolore, ci permettono di evitare lo spavento di riflettere sul serio, annacquano gli orrori del nostro tempo, ci salvano persino da noi stessi. Invece quando si scrive non bisogna mai mentire. Nella finzione letteraria è necessario essere sinceri fino all’insostenibile, pena la vacuità delle pagine. È probabile che separare nettamente ciò che siamo nella vita da ciò che siamo quando scriviamo aiuti a tenere a bada l’autocensura».
Perché ha scelto di non diventare un personaggio pubblico?
«Per un desiderio un po’ nevrotico di intangibilità. La fatica di scrivere tocca ogni punto del corpo. Quando il libro è finito, è come se si fosse stati perquisiti senza rispetto, e non si desidera altro che riacquistare integrità, tornare a essere la persona che comunemente si è, nelle occupazioni, nei pensieri, nel linguaggio, nelle relazioni. Pubblica del resto è l’opera: lì c’è tutto quello che abbiamo da dire. Oggi a chi importa veramente della persona che l’ha scritta? L’essenziale è il lavoro fatto».
La sua scrittura sembra una scrittura non destinata a lettori, che nasce come scrittura privata, senza altro interlocutore che il foglio (o il computer) o se stessi. È così?
«No, non credo. Io scrivo perché i miei libri siano letti. Ma mentre scrivo non è questo che conta, conta solo trovare le energie per scavare in profondità dentro la storia che sto raccontando. L’unico momento della mia vita in cui non mi lascio impressionare da nessuno è quello in cui cerco di trovare le parole per andare oltre la superficie di un gesto ovvio, di una formula banale. Non mi spaventa nemmeno scoprire che scavare è inutile e sotto la superficie non c’è niente».
Leggendo il suo libro ho pensato alla vita che «fa» scrivere, che il tempo del vivere è quello dello scrivere. È per questo che ha scritto due libri in dieci anni?
«Devo ammettere con un po’ di imbarazzo che non ho scritto due libri in dieci anni, ne ho scritti e riscritti parecchi. Ma L’amore molesto e I giorni dell’abbandono mi sono sembrati quelli che mettevano più decisamente il dito dentro certe mie ferite ancora infette, senza distanza di sicurezza. Ho raccontato anche, in altri momenti, di ferite pulite o felicemente rimarginate, e l’ho fatto con il distacco regolamentare e con le parole giuste. Ma poi ho scoperto che non è quella la mia strada».
Sempre a proposito di questo, la sua scrittura è molto concreta, fisica, come se il corpo si facesse portatore di parole. È una scrittura fatta di gesti, quei gesti quotidiani, resi fluidi dall’abitudine, che poi si spampanano nel momento della «malattia». Insomma, è una scrittura femminile. Ci sono scrittrici (e anche scrittori) a cui si sente vicina?
«Quand’ero molto giovane, puntavo a scrivere esibendo un polso virile. Mi pareva che tutti gli scrittori di gran livello fossero di sesso maschile e che quindi bisognasse scrivere da vero uomo. In seguito mi sono messa a leggere con molta attenzione la letteratura delle donne e ho sposato la tesi che ogni piccolo frammento in cui fosse riconoscibile una specificità letteraria femminile andasse studiato e messo a frutto. Da qualche tempo però mi sono scrollata di dosso preoccupazioni teoriche e letture e sono passata a scrivere senza chiedermi più cosa dovessi essere: maschile, femminile, di genere neutro. Mi sono limitata a scrivere leggendo di volta in volta libri che mi facessero non bella, ma buona compagnia mentre scrivevo. Ne ho un discreto elenco, li chiamo libri di incoraggiamento: l’Adele di Tozzi, Dalla parte di lei della De Cespedes, Lettera a un editore della Manzini, Menzogna e sortilegio o L’isola di Arturo della Morante ecc.. Per quanto possa sembrare incongruo, il libro che più mi ha accompagnato mentre lavoravo a I giorni dell’abbandono è La principessa di Cleves di Madame de La Fayette».
Olga aveva trovato un significato della sua esistenza in un rapporto, nei riti di un rapporto. Rimasta sola, deve ricostruirsi da zero, si accorge dell’errore e approda a un altro rapporto, quello con Carrano, armata di molto disincanto. Cosa pensa dell’amore?
«Il bisogno d’amore è l’esperienza centrale della nostra esistenza. Per quanto possa sembrare insensato ci sentiamo veramente vivi solo quando abbiamo un dardo nel fianco che ci trasciniamo dietro notte e giorno, ovunque andiamo. Il bisogno d’amore spazza via ogni altro bisogno e d’altra parte motiva tutte le nostre azioni. Si legga il IV libro dell’Eneide. La costruzione di Cartagine si ferma quando Didone si innamora. Poi la città seguiterebbe a crescere potente e felice se Enea restasse. Ma lui va via, Didone si uccide e Cartagine da potenziale città dell’amore si trasforma in città con una missione d’odio. Gli individui e le città senza amore sono un pericolo per sé e per gli altri».
“I giorni dell’abbandono” potrebbe persino sembrare un romanzo «femminista»... Si sente in sintonia con Simone de Beauvoir e il suo “Una donna spezzata”?
«No, non più. Ho usato quel libro, nella storia di Olga, così come avrei potuto usare la Didone abbandonata che erra per la città fuori di sé e si trafigge con la spada di Enea, uno dei “ricordi” che lui le ha lasciato. In realtà Olga è donna d’oggi che sa di non dover reagire all’abbandono spezzandosi. Nella vita come nella scrittura mi interessa l’effetto di questo sapere nuovo: come agisce, che resistenza oppone, come combatte contro la voglia di morte e si conquista il tempo necessario per imparare a sopportare il dolore, quali stratagemmi o finzioni mette in atto per riaccettare la vita».
Cosa pensa del progetto di Roberto Faenza di trasformare “I giorni dell’abbandono” in un film? Sta seguendo il progetto?
«No, per adesso no. Amo il cinema ma non so niente del linguaggio filmico. Spero che il suo I giorni dell’abbandono venga migliore del mio».