Gian Luca Pellegrini, QuattroRuote 10/2016, 4 ottobre 2016
APPLE E LA SUA
iCAR UNA SCONFITTA INATTESA–
Dopo mesi di indizi ingannevoli, di cose verosimili ma difficilmente vere, di congetture, di indiscrezioni, di immaginifiche interpretazioni di eventi altrimenti trascurabili, c’è finalmente qualcosa di concreto da commentare a proposito del misteriosissimo progetto Titan, cioè l’auto della Apple: il programma iCar (nome d’invenzione, s’intende) sarebbe stato messo nel congelatore dall’azienda diretta da Tim Cook. Difficile dire se la decisione – accompagnata, pare, da uno tsunami di licenziamenti – significhi davvero l’abbandono del piano o vada letta come un riallineamento tattico (magari alla luce di costi imprevisti legati al caso delle tasse non pagate/non dovute in Irlanda). Senza dubbio si tratta di una decisione sofferta: nonostante la parossistica privatezza che ha sin dall’inizio circondato l’intera vicenda, addirittura superiore a quella riservata da Cupertino ai propri prodotti “classici”, da lungo tempo il mondo parlava della Applemobile. E dover ammettere la sconfitta, per un’azienda che ha fatto dell’innovazione la propria bandiera, non dev’essere stato facile. Certo, Cook potrà sempre sostenere di non aver mai ammesso l’esistenza di un piano per esordire nel business della mobilità, come testimoniano i capolavori retorici che sono sempre state le sue dichiarazioni sul tema: «Non intendo rivelare nulla. Ma nel mondo dei trasporti avverranno cambiamenti significativi nei prossimi anni, tra elettrificazione e guida autonoma. E ci sarà bisogno di focalizzarsi sull’interfaccia uomo-macchina». Oppure, in un crescendo di arzigogoli parabolici destinati a frustrare i legittimi interrogativi degli investitori: «Vi ricordate di quando, da piccoli, arrivava il Natale e ci si eccitava nel pensare a che cosa stava accadendo al piano di sotto? Ecco, per un po’ vivremo una ininterrotta vigilia». Però non è mai stato smentito che un anno fa la Apple avesse conferito a Titan lo status di priorità; ed è certo che – al momento di staccare la spina – vi lavoravano addirittura un migliaio di persone, alcune dirottate da altri settori della compagnia, molte pescate sul mercato (con relativa, altera irrisione da parte di Elon Musk della Tesla, assai seccato dal corteggiamento Apple verso i suoi ingegneri: «Ci rubano gente che noi abbiamo o avremmo licenziato: chi non ce la fa qui, va a Cupertino»).
Nella Silicon Valley ora si mormora che Bob Mansfield, ex uomo di fiducia di Steve Jobs richiamato dalla pensione per dirigere Titan al posto del dimissionario Steve Zadesky, potrebbe spostare il baricentro del progetto da una driverless elettrica (si ipotizzava un lancio per il 2020-2021) alla definizione di un sistema operativo – sempre per la guida autonoma – da offrire ai costruttori tradizionali, un po’ come succede sul fronte dell’infotainment con l’Apple CarPlay. Se così fosse, sarebbe l’ennesima testimonianza di quanto sia complesso inventare dal nulla una macchina, senza avere il know-how di gruppi industriali abituati a sfornare prodotti sicuri, affidabili e privi di data di scadenza: non è un caso che Google vada stipulando partnership con i costruttori per proseguire lo sviluppo del suo veicolo. Se così fosse, sarebbe altresì la fine del sogno di Jobs, che sin dal 2008 (come ha rivelato Tony Fadell, per dieci anni leader della divisione iPod) pensava ai contenuti della “sua” automobile; e che ancora nel 2010, poco prima della morte, dispensava consigli a una startup intenzionata a produrre una citycar in compositi. Quella società, nonostante l’interesse di Jobs, fallì. Ed è incredibile scoprire oggi che quella vettura è la stessa che la LCV voleva realizzare nell’ex stabilimento pugliese della OM. Anche loro sono scomparsi senza lasciare traccia, dopo tante promesse. Evidentemente, “think different” – nell’automotive – è un’esortazione che non funziona.
Gian Luca Pellegrini