Silvia Guerriero, SportWeek 1/10/2016, 1 ottobre 2016
IVAN, NON SEI POI COSÌ TERRIBILE– [Ivan Zaytsev] Nella vita di tutti i giorni Ivan il terribile è un tranquillo ragazzone tutto casa e famiglia, che si addolcisce anche solo a parlare della moglie e va in brodo di giuggiole davanti al “nano”, come chiama suo figlio
IVAN, NON SEI POI COSÌ TERRIBILE– [Ivan Zaytsev] Nella vita di tutti i giorni Ivan il terribile è un tranquillo ragazzone tutto casa e famiglia, che si addolcisce anche solo a parlare della moglie e va in brodo di giuggiole davanti al “nano”, come chiama suo figlio. Fanno subito colpo gli Zaytsev: altissimi, biondissimi, bellissimi. Sembrano la famiglia del Mulino Bianco, tanto più che hanno appena trovato casa in una vecchia cascina ristrutturata proprio dove c’era un mulino, appena fuori Perugia, dato che è stata la Sir Safety Conad ad accalappiarsi il giocatore simbolo dell’Italvolley argentata a Rio. Sembra, però. Perché tra una chiacchierata, qualche foto e un piatto di lasagne vien fuori che al figlio del grande Vjaceslav, uno dei migliori palleggiatori nella storia della pallavolo (un oro e due argenti ai Giochi con l’Urss dal 1971 all’88), non è stato regalato nulla, anzi. E anche alla splendida Ashling, ex modella italo-irlandese, la vita non ha regalato niente. Quando si sono conosciuti, nel 2010, lui era sul punto di buttare all’aria un talento incredibile e lei si stava riprendendo da un periodo terribile. «Ci hanno presentati una sera a Roma, in discoteca, eravamo ’mbriachi: gli amici ci davano il tempo di un’estate», invece hanno bruciato le tappe: dopo due settimane sono andati a convivere («per la gioia delle nostre madri...»), nel 2013 si sono sposati, l’anno dopo è nato Sasha e piano piano i tasselli delle loro vite si sono ricomposti. E incastrati alla perfezione. «Quando ci siamo incontrati facevo il ribelle senza sapere nemmeno a cosa mi ribellavo. Asha mi ha salvato. Girando sempre per il mondo non ho molti amici, lei è l’unica con cui mi confido. Abbiamo parlato tantissimo: mi ha fatto calare la maschera, scoprire un altro me stesso». Difatti in casa lo Zar del volley, che di russo oltre al cognome ha solo la faccia, ha un’altra espressione rispetto a quell’aria da “ti spiezzo in due” che spesso mostra in campo, come a Rio contro gli Usa, quando da solo ci ha portato in finale. «Fuori sono totalmente diverso. Tranquillo, preciso e pigro, amo prendere le cose con calma. In casa faccio poco: mi piace giocare con mio figlio e, se mi restano energie, cucinare. La mia è una vita normale, perché quella anormale la faccio già in palestra sclerando, correndo per il campo, facendo il cafone: lì esce il mio istinto». La volta in cui ha sclerato di più? «World League 2014 a Firenze contro il Brasile: lì ho sbroccato di brutto, ma ero arrivato al limite della sopportazione di determinate dinamiche che si erano create in squadra per colpa del c.t., che allora era Berruto. Dal campo l’ho mandato platealmente a quel paese, volevo togliermi la maglia e lasciare la Nazionale. Eravamo ai ferri corti da tempo, siamo andati avanti a combattere ancora. Fino alla famosa cacciata da Rio». Un anno dopo l’esclusione sua, di capitan Travica, Sabbi e Randazzo per la presunta “notte brava” a due giorni dalle finali della World League 2015, ci racconta la verità? «Certo, c’ho le foto! Io immortalo tutto sul telefonino, vi faccio vedere esattamente quello che abbiamo fatto, tra l’altro dopo quattro-mesi-quattro di ritiro a Cavalese, roba da uscire pazzi... Ecco: abbiamo fatto i turisti, abbiamo visto l’Escadaria Selarón, la scalinata nel quartiere degli artisti, e ci siamo bevuti due-caipirinhe-due. All’una e mezza eravamo in albergo. Il giorno dopo era libero; la sera ci hanno comunicato che l’indomani saremmo stati messi su un volo di ritorno. D’altronde eravamo reduci da un Mondiale disastroso (13° posto) e la squadra non girava, Berruto si sentiva in discussione perché gli bruciavano le chiappe e non gli è parso vero di poter dire: “Guardate che gruppo di coglioni sto allenando...”. E in effetti lo siamo stati, dandogli la possibilità di farlo. Poi la cosa gli si è rivoltata contro ed è finita con l’argento un anno dopo». Già, strana la vita: da Rio a Rio, da reietto a eroe nel giro di un anno... «La cosa positiva è che, nel bene e nel male, si è parlato di pallavolo. L’anno scorso non ci conosceva nessuno e per una settimana siamo finiti su tutti i giornali e in tv! Guardate, quattro scemi che se fanno caccià dal ritiro... Purtroppo poi di quei quattro, una volta cambiato c.t. (Blengini, il vice, al posto di Berruto; ndr), alla fine sono rimasto solo io. Che per la Nazionale farei tutto, mentre Berruto mi faceva passare per quello egoista, che si faceva solo i cavoli suoi. Lui diceva di essere l’uomo squadra, mentre era vero proprio il contrario». Lei non ha perso occasione per dimostrarlo. «Infatti quando a settembre mi ha richiamato Blengini, per la Coppa del mondo, sono tornato motivato a mille: penso che non rifarò mai più un torneo stratosferico come quello. Che si è concluso quasi perfettamente con l’Olimpiade: peccato per la finale, una volta che arrivi lì ci fai la bocca. Un anno fa avremmo pagato tutto quello che avevamo per arrivarci, ma a Rio abbiamo fatto un percorso incredibile. Peccato. Io poi sono stato estrapolato da questo contesto di squadra come uomo immagine, ma di personaggi e belle storie in questa Italia ce ne sono tanti». Lei però ha fatto innamorare la gente: è diventato un simbolo sui social network e il replay del suo servizio a 127 km/h (record dei Giochi) è stato super cliccato. Si identifica come il personaggio che può far appassionare la gente al volley come lo sono stati i “fenomeni” di Velasco negli Anni 90? «Lì c’era un supporto mediatico differente, si andava in tv, le partite erano in chiaro. Non avevamo mai avuto un risalto come questa volta, dobbiamo cercare di sfruttarlo. Ho già fatto presente che la federazione non lo sta facendo, è assurdo: io per esempio dopo i Giochi non ho ricevuto alcuna chiamata, se non un invito giratomi dal presidente Magri per il Forum Ambrosetti a Villa d’Este. Per esempio: c’è stata la presentazione del campionato. Fatela in piazza, in mezzo alla gente! No: al palazzo del Coni, tra di noi. Ma che senso ha?! Non credo che nessuno di noi sia stato invitato in tv o a uno shooting...». Tra l’altro a Rio c’è stato pure il grande risultato del beach. «Un altro argento, e quando mai ti ricapita? Anche loro hanno fatto una gran cosa, sono molto contento per Lupo e Nicolai, che oltretutto conosco benissimo. E la federazione che fa? Niente. Se ne sta chiusa nel suo mondo». A proposito: lei ha giocato (e vinto) anche sulla sabbia, a 20 anni: era un momento di fuga dall’indoor? «Sì, perché la pallavolo non andava bene: non era più la mia priorità, avevo iniziato a fare sempre tardi la sera. In quel periodo si erano sommati vari problemi. In primo luogo sentivo il peso di essere “il figlio di”, perché giocavo palleggiatore come mio padre e dovevo diventare per forza il migliore, come lui. Solo che non avevo la testa per farlo, e quella responsabilità era troppo pesante. In più durante l’estate mi ero messo a giocare a beach e avevo vinto lo scudetto così, dal nulla: mi divertivo, facevo serate, cuccavo, stavo in spiaggia tutto il giorno e giocavo con un gran ragazzo, Giorgio Domenghini. E devo dire che a me il beach piace molto di più della pallavolo, perché io sono un uomo di mare: pesce, sole, una birra ghiacciata... È una passione che mi tengo buona per il futuro, chissà mai che non riesca a fare come Karch Kiraly, una leggenda, che ha vinto prima indoor e poi nel beach». Sì, ma Kiraly ha conquistato l’oro olimpico in entrambe le discipline! Dice che, dopo il bronzo e l’argento, “deve” arrivare il metallo più prezioso? «Oddio, quattro anni sono lunghi. Bisogna vedere che squadra avremo a Tokyo. Nei miei sogni mi sarebbe poi piaciuto fare Roma 2024 in spiaggia, però la Raggi...». Dal futuro al passato: quando ha cominciato a giocare a pallavolo? «Subito! Avevo sei anni, mi divertiva, anche se all’inizio volevo fare il portiere di hockey su ghiaccio: stavo in Russia, il movimento lì è una bomba... Però papà mi ha detto: “Senti, ma che stai a fa’!”. Comunque non mi ha mai costretto». Che ricordi ha di suo papà giocatore? «Riusciva sempre a fregare il muro, aveva ’sta faccia da bastardo, da “mo’ te la incarto io”... La cosa che mi ha colpito di più era il timore che leggevo negli occhi degli avversari di giocare contro di lui. Non ricordo molto perché ha smesso che ero ancora piccolo, ma ho guardato tante videocassette. Più che altro l’ho visto giocare ancora a 53 anni in serie C a Trevi, quando allenava lì e si erano infortunati entrambi i palleggiatori. Un giorno gli hanno fischiato una doppia, ancora un po’ tira giù l’arbitro dal seggiolone: “Tu fischiare doppia a me??”. Mio padre è così, abbastanza diretto, a volte arrogante, ma c’è da dire che ne sa, soprattutto nel mondo della pallavolo russa. Proprio per questo ha sempre fatto fatica a trovare degli sbocchi lavorativi, in Russia devi dare una botta al cerchio e una alla botte. Perlomeno ad alto livello nello sport è così. Infatti allena le giovanili, a Belgorod». Le ha detto qualcosa prima della finale di Rio, lui che i Giochi li ha vinti? «Prima solo complimenti, dopo mi ha detto “Bravo, hai fatto una gran cosa, però l’oro ce l’ho ancora io”. Mi ha preso parecchio per il culo, ma era fiero di me». Che rapporto ha con lui? «Ci sentiamo poco, a volte sbrocchiamo, poi però amici come prima. Da quando mi sono isolato dai miei il rapporto è migliorato. Crescendo ho preso il coraggio di dirgli in faccia tante cose che secondo me aveva sbagliato nella gestione familiare: ci siamo confrontati da uomini e da quel momento c’è stato rispetto reciproco». Anche sua mamma è stata una campionessa (Irina Pozdnyakova, argento nei 200 rana all’Europeo ’66): che cosa ha preso, caratterialmente, dai suoi genitori? «(ride) Non lo so... Forse la testardaggine e la cultura del lavoro, cosa che negli ultimi due anni in Russia avevo perso». Perché? «Perché lì era come timbrare il cartellino al lavoro: arrivavi, stavi in palestra due ore inutili e tornavi a casa. Senza senso». Come mai era andato a Mosca? «Ashling e io pensavamo che fosse il momento di cambiare aria. Da romani ce la cantiamo sempre: non funziona niente, la città è sporca, troppe tasse... Pensavamo che Mosca fosse una città della madonna e uscire dall’Europa un’idea fighissima, invece dopo due mesi volevamo già tornare a casa. Diciamo che abbiamo imparato ad apprezzare molto di più l’Italia». Ma lei non si sente un po’ russo? «Zero. Mi sento molto più italiano di tanti che sono nati qua. Conosco le due realtà e sono la persona giusta per dire come mi sento, per carattere, modi di pensare e apertura mentale sono il classico italiano. Infatti non vedevo l’ora di tornare». Prima di farlo si è però regalato una parentesi in Qatar, con tanto di vittoria in Coppa dell’Emiro e titolo di mvp: richiamo del vil danaro? «Più o meno sì. Ci sono stato un mese, l’ho presa come una vacanza attiva: è un’esperienza che volevo fare, ci sono passati un po’ tutti». Poi è tornato in Italia ripartendo proprio da Perugia, dove aveva iniziato nelle giovanili... «E ci ho fatto anche l’esordio in Serie A, a 17 anni. Ho rivisto tante facce familiari, gente con cui ho giocato in C. La città è bellissima, si sta bene, sono felice di essere tornato. La società non è più la stessa e il nuovo presidente, Sirci, ha creato un ambiente favoloso, attirando tanto pubblico col suo modo di fare sanguigno, passionale, fuori dagli schemi. È un po’ il Ferrero della pallavolo, ha portato tanto entusiasmo... e tanti soldi, per cui conviviamo con la pressione di vincere, ma è giusto così. È quello che vogliamo tutti». Tra l’altro Perugia viene da due secondi posti negli ultimi tre anni: non l’hanno presa a caso, vero? «No, hanno costruito una squadra molto forte. Dobbiamo ancora trovare gli equilibri, io devo tornare a giocare in banda, ma quando tutto si incastrerà bene possiamo fare grandi cose. La voglia c’è, la passione pure». Lei ha una passione che è diventata il suo lavoro, una bella famiglia, una bella casa: in questo momento può dire che ha tutto quello che desidera dalla vita o sente che manca qualcosina, dopo aver perso quell’oro che ha sognato per quattro anni? «Non mi manca niente: sono felice, davvero, non posso chiedere di più».