Mara Accettura, D, la Repubblica 1/10/2016, 1 ottobre 2016
LE SUPER SCUOLE
Intorno a un tavolo basso e rotondo, un gruppo di bambini di età diverse, la maggior parte scalzi, sta facendo lezione di matematica. L’insegnante è seduta con loro e spiega. Dopo un po’ si alzano e vanno a prendere i loro iPad per completare il compito, alcuni si risiedono al tavolo, altri si sdraiano su un divano, insolitamente tranquilli e concentrati per essere alle elementari.
La Steve Jobs School (nessuna affiliazione con Apple) è nata ad Amsterdam nel 2013 e in soli tre anni il suo modello è stato adottato da altre trenta scuole in Olanda e una in Sudafrica. È considerata una delle sperimentazioni didattiche più innovative del mondo e non solo perché ha adottato il tablet come strumento principale dell’insegnamento. La sua missione è ridefinire i parametri dell’istruzione in un mondo che cambia sempre più velocemente. «Qualche anno fa dovendo iscrivere la mia ultima figlia a scuola ho visitato quella già frequentata dagli altri figli negli anni 80», racconta Maurice de Hond, fondatore. «Non era cambiato nulla. Perché? E che cosa poteva insegnare di nuovo a una bambina che già a due anni smanettava sull’iPad?». De Hond ha messo su un team di educatori e ha studiato una scuola ad hoc per i nativi digitali dove l’intero programma è concepito per il tablet che i bambini usano per metà del tempo dedicato allo studio. Per esempio imparano i rudimenti della programmazione – in sostanza, logica – prima di leggere e fanno compiti stile videogiochi, terminando gli step nel tempo che gli è più congeniale. Le risposte esatte li fanno salire di livello.
La tecnologia permette di creare delle classi non suddivise per età ma per competenza: «Se un bambino di sei anni riesce molto bene in matematica perché deve stare con dei coetanei?», chiede de Hond. «Si annoierebbe. In quelle ore starà con scolari più grandi». Un’altra caratteristica è che l’insegnamento è personalizzato. Ogni sei settimane l’alunno discute con un coach e i genitori a che punto è e che cosa vorrebbe studiare. Se è immaturo per la scrittura ma è portato per la lettura, per un determinato periodo si concentrerà su quella e poi, più naturalmente, recupererà la scrittura. I genitori a casa possono seguire sull’iPad i progressi del figlio. Il curriculum è uguale a quello di qualsiasi altra scuola, dice de Hond, alla fine gli esami sono sempre quelli, solo che si insegna in modo un po’ più creativo e interessante. Se mettiamo in dubbio questa dipendenza dai gadget che, tra le altre cose, danneggia la memoria, risponde: «Lei toglierebbe a un falegname un martello? La tecnologia è utile. Bisogna parlare un linguaggio adatto ai bambini. Nella mia esperienza la maggior parte di chi soffre di deficit di attenzione non ha un disturbo. È solo annoiata perché la scuola è lontana dalla vita».
De Hond non è l’unico a rendersi conto dei limiti del sistema tradizionale. Le scuole Montessori, Steiner e Sudbury hanno elaborato da anni sistemi ad hoc. «Le scuole tradizionali sono autoritarie e promuovono la competitività invece della collaborazione. I bambini non sono rispettati come membri indipendenti di una società democratica. Pensiamo solo a tutte quelle ore passate seduti fermi nei banchi: una violazione dei diritti umani», dice Marko Koskinen, educatore finlandese formato secondo i principi della Sudbury e inventore di Knowledge Constructors, sistema online di home schooling. In più, con la loro definizione ristretta dell’intelligenza, che glorifica chi ha successo nelle materie accademiche, ammazzano la creatività.
Il problema non è nuovo. Nelle sue famose conferenze per Ted, l’educatore Ken Robinson (autore di Fuori di testa. Perché la scuola uccide la creatività, Erickson) fa notare come il nostro modello scolastico sia nato in età industriale e modellato sulle fabbriche. La campanella, i banchi uno accanto all’altro, i posti assegnati, il sistema dei test, tutto ha lo scopo di produrre in modo efficiente individui standardizzati, a scapito della capacità che hanno tutti i bambini di produrre idee originali che hanno un valore. «Se portiamo avanti un sistema educativo che sopprime l’individualità, l’immaginazione e la creatività, non sorprendiamoci se poi abbiamo quel risultato», dice. Peccato che il mondo per cui è stata concepita quella scuola non esista più. I lavori ripetitivi sono delegati alla robotica. E le lauree, così inflazionate, non garantiscono più un posto di lavoro. La società contemporanea infatti richiede competenze diverse. «Quella di cerare e filtrare le informazioni e quella di trovare soluzioni a dei problemi», dice de Hond. «Adattabilità ai cambiamenti e creatività nel generare nuove idee», dice Robinson. «L’istruzione dovrebbe mettere in grado gli studenti di aprire il mondo in cui vivono e i loro talenti, in modo da formare individui soddisfatti e cittadini attivi e compassionevoli».
Molte scuole nel mondo hanno raccolto la sfida, rifiutando l’approccio tradizionale. In Germania, Die Evangelische Schule Berlin Zentrum è una delle più riconosciute. Non ci sono voti fino a 15 anni, né materie obbligatorie (tranne Tedesco, Matematica, Inglese e Social Studies). I ragazzi decidono autonomamente quando fare gli esami. Per misurarne lo spirito di iniziativa, la capacità organizzativa e il senso di responsabilità gli educatori affidano loro progetti da realizzare e un budget.
A Copenhagen nell’Ørestad Gymnasium non ci sono aule. Più di un migliaio di alunni seguono classi (anche virtuali) in un open space suddiviso in zone di apprendimento che dovrebbe stimolare il senso di comunità e la flessibilità di pensiero. A New York, Iallaa Blue School, nata dal Blue Man Group, gruppo di genitori che lavorano nel mondo del teatro, le ultime scoperte sul cervello vengono incorporate nella pedagogia in modo che i bambini abbiano sin da piccoli consapevolezza e linguaggio per le proprie emozioni. Anche la Blue School lavora molto su abilità sociali e organizzative, per esempio se si decide con i bambini di fare una visita a un museo, viene delegato a loro il compito di organizzarla: dove andare a seconda di quello che vogliono apprendere, come arrivarci, cosa fare prima e dopo la visita.
A Parigi l’Ecole Dynamique, costola della Sudbury, non ha un vero curriculum: permette ai bambini di fare quello che vogliono accompagnandoli nella scoperta dei propri talenti in modo da raggiungere l’eccellenza. «I filosofi della Rivoluzione francese hanno garantito agli adulti libertà di azione, parola, associazione e vita privata. Non c’è nessun motivo per trattare i bambini in modo diverso», dice il fondatore, Ramin Farhangi. Ad alcuni il sistema sembrerà folle. Inaspettatamente, «l’80% degli studenti usciti dal sistema Sudbury va in università, anche esclusive come Harvard», riprende Farhangi. Un caso eccellente è quello di Laura Poitras che alla Sudbury ha imparato a leggere a 13 anni perché tutto quello che le interessava fare era fotografare. Questo non le ha impedito di laurearsi e vincere un Oscar col documentario Citizen Four sulla vicenda di Edward Snowden.
Tutte sono ancora realtà piccole e sperimentali. «Considerate alternative perché si basano sull’apprendimento personalizzato, il senso di comunità, le attività extracurricolari, i sostegni all’insegnamento. Se queste realtà fossero ovunque non ci sarebbe bisogno di istruzione alternativa», dice Robinson, ricordando che l’istruzione ha luogo nelle aule e non nei ministeri e bisogna riportarla alle persone in modo da farle prosperare. Lui è convinto che il cambiamento stia prendendo slancio. Perché? «Il contesto in cui viviamo rende necessario che questi diversi approcci vengano compresi in pieno e applicati su larga scala. Le tecnologie rendono possibile personalizzare l’istruzione. Infine in molte parti del mondo cresce in modo spontaneo la sensazione che sia arrivato il momento di dare una scossa tellurica al modo in cui pensiamo e pratichiamo l’educazione». Per la scuola la rivoluzione è appena iniziata.