Carlo Di Foggia, Il Fatto Quotidiano 4/10/2016, 4 ottobre 2016
TUTTI GUARDANO MONTEPASCHI MA IL VERO GUAIO È UNICREDIT
I nodi della crisi del sistema bancario stanno giungendo al pettine. Ieri, al ministero del Tesoro Pier Carlo Padoan ha chiamato a rapporto i massimi esponenti della Banca d’Italia e dei principali istituti. Presenti, il governatore Ignazio Visco, il capo della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, il presidente della Cassa Depositi e Prestiti Claudio Costamagna, i vertici di Intesa San Paolo, Unicredit e Ubi, insieme a quelli dell’Acri (Fondazioni) e del fondo Atlante, nato per acquistare le sofferenze (i crediti inesigibili) e coprire gli aumenti di capitale delle due popolari venete. Una “riunione di routine”, ha fatto filtrare il Tesoro, con al centro le strategie per trovare una soluzione alla vendita delle 4 banche “salvate” dal governo a novembre (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti). Sul piatto, però, ci sono altre partite che rischiano di complicarsi, al netto del pasticcio Montepaschi (vedi pezzo qui sotto).
Il capitolo più spinoso riguarda Unicredit. L’unica banca italiana “sistemica” ha bisogno di capitale per risolvere il nodo delle sofferenze (51 miliardi il valore lordo) e le debolezze ereditate dalla campagna acquisti dei tempi di Alessandro Profumo nell’Europa dell’Est. Lo scenario sul tavolo dell’ad Jean Pierre Mustier non è dei migliori. Il nuovo management lavora ventre a terra per chiudere entro l’autunno il piano industriale da presentare a dicembre e varare un aumento di capitale da fare nei primi mesi del 2017. Da giorni i rumors finanziari indicano in una cifra non inferiore a 13 miliardi il fabbisogno di patrimonio di Piazza Gae Aulenti, ben più alto dei 7-8 finora circolati.
Dalla ricognizione avviata da Mustier sarebbe infatti emerso un quadro sconfortante dell’eredità di Profumo e del blocco prolungato di alcune partite avviate dall’ex ad Federico Ghizzoni che a maggio scorso, prima di lasciare, aveva smentito l’ipotesi ricapitalizzazione. Complessivamente il fabbisogno sarebbe intorno ai 18 miliardi. Una cifra gigantesca che ha spinto Mustier a fare subito alcune cessioni, liquidando quote di minoranza (pari al 10%) di Fineco, la banca online, e della controllata polacca Pekao. Due asset molto redditizi. Non basta: ora si punta a una vendita completa. Pekao varrebbe 3-3,5 miliardi, altrettanti Pioneer, il gestore di risparmio della banca e 1,5 Fineco. Difficile, stimano gli analisti, che questo possa far scendere di molto la cifra da chiedere al mercato (si arriverebbe intorno ai 10 miliardi).
Qui si apre un altro capitolo spinoso: come remunerare chi ci mette i soldi. Vendere tutto ciò che garantisce utili (circa 500 milioni nel 2015) non è infatti un bel biglietto da visita da presentare agli investitori. A che serve mettere in cantiere oltre 10 mila esuberi per puntare sui servizi online se poi vendi il gioiello Fineco? Le realtà che non vanno bene, poi – come la controllata austriaca – rimarrebbero in pancia all’istituto (nella lista c’è anche la Turchia, ma pesa il caos politico). Con i tassi bassi (e l’economia ferma), la banca commerciale retail non è abbastanza redditizia senza una fortissima riduzione dei costi. Un aumento di capitale con queste premesse avverrebbe a forte sconto (intorno a 1,2 euro per azione, contro i 2 espressi ora dalla Borsa), col rischio di indebolire l’azionariato stabile delle Fondazioni (Crt e Cariverona) e trasformare la banca in terreno di scommesse per i grandi fondi speculativi.
Da inizio anno, Unicredit ha perso il 58% del suo valore in Borsa, oggi capitalizza 12,3 miliardi con un patrimonio Cet1 (il più importante ai fini della vigilanza) al 10,53%, di poco superiore alla soglia minima stabilita dalla Bce. Ma c’è di più: all’aumento di capitale lavorerà Jp Morgan, la banca d’affari guidata in Italia dall’ex ministro del Tesoro Vittorio Grilli già impegnata a trovare investitori per l’aumento di capitale da 5 miliardi di Mps, che dovrebbe partire a fine anno. Al mercato verrebbero quindi chiesti nello stesso periodo quasi 18 miliardi di euro, in un momento critico. Quale dei due titoli consiglierà alla sua clientela il colosso bancario Usa? È questo ingolfamento che spaventa il settore, anche se l’ormai scontato coinvolgimento (volontario, per ora) degli obbligazionisti subordinati nell’operazione Montepaschi potrebbe far scendere le cifre.
“Nessuna urgenza sulle banche”, ha provato a rassicurare ieri Padoan. Il comparto, però, deve affrontare la grana della vendita delle quattro “nuove banche” nate dalle ceneri delle vecchie Etruria & C. e affidata a Roberto Nicastro, sempre più in stallo. La pretendente caldeggiata da Bankitalia, la Ubi di Victor Massiah, ha offerto la cifra simbolica di 400 milioni (a fronte degli 1,8 miliardi versati dal settore per ricapitalizzarle) escludendo CariFerrara: il sistema bancario avrà così una perdita ben superiore al miliardo. La vigilanza Bce ha però fatto sapere che l’acquisto di 3 istituti in difficoltà comporterà un aumento di capitale per rispettare i parametri di sicurezza. Aumento che Massiah non vuole fare.
Il malumore dei banchieri per i paletti imposti dalla Bce è alle stelle ma non basterà a sbloccare l’impasse, al punto che si ricomincia a parlare di un coinvolgimento del Fondo di garanzia dei depositi (Fitd) su base volontaria, dopo che il fallimento di quello guidato dal governo nell’autunno scorso ha dato il via allo smottamento del settore. L’altro fronte caldo sono le due popolari venete (Vicenza e Veneto Banca) salvate dall’intervento del fondo Atlante (azzerando 11 miliardi in mano a 110 mila risparmiatori) ma che nei primi 6 mesi dell’anno hanno macinato perdite: la cessione (allo studio) della grande mole di sofferenze che piombano i bilanci comporterebbe nuovi aumenti di capitale. L’obiettivo del governo è non far arrivare i nodi al pettine tutti insieme. “Non vedo la necessità di nazionalizzare alcuni istituti”, ha detto ieri Padoan.