1 ottobre 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - DOPO LA MORTE DI CAPROTTI
Il Dottore, come amavano chiamarlo gli oltre 22mila dipendenti di Esselunga, se potesse leggere lo stuolo di messaggi apparsi in sua memoria sui social e sulle agenzie di stampa, probabilmente farebbe spallucce e direbbe ai suoi interlocutori: “Pensiamo alle cose serie”.
Bernardo Caprotti era così, badava alla sostanza e non aveva interesse ad apparire. Parlava di rado, lasciava che fosse la sua azienda a parlare per lui. E le condizioni in cui ha lasciato Esselunga, con quasi 8 miliardi di fatturato e utili costanti gli hanno sempre dato ragione.
Pierluigi Bersani - uno che appartiene a una cultura del tutto opposta a quella di Caprotti, quella emiliano-romagnola delle Coop rosse - ha usato parole di stima e di affetto nei suoi confronti: “Era un uomo che aveva un rapporto intimo con le sue attività, fino alle sue propaggini più estreme. Più di una volta l’ho visto girare nei suoi negozi, sapeva tutto di ogni singolo scaffale, si fermava a conoscere e a parlare con tutti i dipendenti”.
Anche Matteo Salvini ha usato belle parole per il Dottore, definendolo come un “genio” e un “grande uomo”. E che dire del sindaco grillino di Livorno Nogarin, che ha postato addirittura un selfie con lui, fatto in occasione del via libera ad aprire nella (ex) rossa città toscana?
Molti cittadini milanesi, che oggi salutano Caprotti continuando ad affollare i negozi, si sarebbero aspettati una dichiarazione simile anche dal sindaco di Milano, Beppe Sala, ma le uniche parole provenienti da Palazzo Marino sono state: “Ambrogino d’Oro alla memoria a Caprotti? Il consiglio comunale ci ragionerà su”.
Non una parola di cordoglio, nessun ricordo per uno degli imprenditori più importanti della storia milanese e non solo. Solo un ragionamento burocratico buttato lì quasi con fastidio, dimenticando che Caprotti lo rifiutò più volte perché non era nel suo stile accettare riconoscimenti personali. Uno scivolone per il sindaco, un’occasione mancata per ricordare uno dei simboli più illustri della città che amministra. Peccato davvero.
Bernardo Caprotti era un uomo curioso, dotato di uno spiccato coraggio imprenditoriale. Nella sua vita gli unici sconti che ha fatto sono stati quelli per i suoi clienti. Non ha mai fatto sconti neanche ai suoi due figli di primo letto, Giuseppe e Violetta. Il padre concesse loro in via fiduciaria alcune quote del suo impero, ma poi le ritirò in quanto non li ritenne all’altezza per guidare Esselunga: “Non posso lasciare un’azienda nelle mani di persone che non sono responsabili. Devo pensare alla governance e sotto questo profilo ho ritenuto che non siano all’altezza”. Da questa decisione ne derivò una battaglia legale, vinta da Caprotti fino all’ultimo grado di giudizio. E poi ancora un’altra causa, dopo che Giuseppe rilasciò un’intervista a L’Espresso in cui diffamava il padre.
Ma ciò che importava davvero al Dottore erano i collaboratori (mai chiamarli dipendenti), le loro famiglie e la soddisfazione dei clienti. Per loro girava a sorpresa tra gli scaffali, il sabato mattina, controllando che tutto fosse a posto. L’amore per l’arte e l’architettura era secondo solo a quello per la moglie Giuliana e per la figlia Marina, che lo hanno abbracciato fino all’ultimo, quando se ne è andato quasi in punta di piedi. Chi voleva per forza criticarlo diceva che aveva un brutto carattere. Ma, come sosteneva Montanelli, un altro burbero dal cuore grande, il carattere puoi averlo brutto solo se ne hai uno
REPUBBLICA.IT
MILANO - All’età di 91 anni, Bernardo Caprotti, fondatore e proprietario del gruppo di supermercati Esselunga si è arreso a un male incurabile. Ma soltanto fino a pochi mesi fa si era presentato in ufficio, come sempre negli ultimi 50 anni. Perché di andare in "pensione" non ne aveva mai voluto sentire parlare e tanto meno di vendita a qualche gruppo straniero, nonostante avesse ricevuto più di una offerta. Tanto è vero che il progetto di vendita di Esselunga nasce solo negli ultimi mesi, con l’aggraversi della malattia.
Con Caprotti se ne va il pioniere della grande distribuzione in Italia. Nato a Milano nel 1925 (avrebbe compiuto gli anni il prossimo 7 ottobre), è figlio di un imprenditore del settore tessile. Terminati gli studi in legge, nel 1951 il padre lo manda negli Stati Uniti per fare esperienza nell’industria del cotone e della meccanica tessile. Ma al ritorno, dopo un periodo passato alla guida dell’azienda familiare per la morte del genitore, nel 1957 ha l’occasione che gli cambierà la vita: investe nella prima società fondata in Italia con l’obiettivo di realizzare supermercati, che vede come socio principale il miliardario americano Nelson Rockfeller. Fino al 1965, rimane alla guida della sua azienda tessile, ma con l’uscita di scena dell’impreditore statunitense rileva l’intero pacchetto azionario e si dedica a tempo pieno alla nuova attività.
Da allora, lo sviluppo di Esselunga non si è mai fermato. Se Milano rimane il suo quartier generale, la società si aspande fino agli attuali 150 punti vendita, presenti soprattutto nel nord e centro Italia, e 22mila dipendenti. Con una quota di mercato attorno al 9,7 per cento, a fine 2015 il fatturato complessivo ha superato i 7 miliardi di euro. Oltre a una grande capacità di lavoro, Caprotti ha sempre messo una cura maniacale nell’organizzazione dei suoi supermercati fino a controllare personalmente la disposizione dei prodotti sugli scaffali. Con tanto di ispezioni a sorpresa, regolarmente il sabato mattina, il momento in cui si concentra il maggior numero di clienti.
Dotato di una forte personalità, Caprotti passerà alla storia non solo per i suoi successi imprenditoriali, ma anche per i suoi scontri sia all’interno della sua famiglia sia con i rivali storici della Coop. In entrambi i casi, la vicenda è finita nella aule di giustizia. I figli del primo matrimonio, Giuseppe e Violetta, hanno fatto causa per riavere le quote di Esselunga che il padre aveva prima loro assegnato e poi revocato. Il figli hanno perso in Cassazione, ma hanno presentato un nuovo ricorso.
Contro la Coop, Caprotti scrisse un libro "Falce e Carrello", in cui accusava il colosso delle cooperative "rosse" di aver ostacolato il suo sviluppo commerciale in alcune regioni italiane. Querelato, fu condannato a sei mesi per diffamazione, ma almeno in un caso l’Antitrust gli ha dato ragione.
Solo negli ultimi mesi, è stato avviato un progetto di cessione di Esselunga:
due settimane fa la banca americana Citigroup è stata incaricata di svolgere un ruolo di consulenza per scegliere il compratore. I funerali si terranno lunedì, in forma strettamente privata.
RITA QUERZE STAMATTINA
«Entro metà ottobre Bernardo Caprotti farà il punto sulle offerte per la sua Esselunga». Questo il titolo di un lancio di agenzia di pochi giorni fa. Il patron della quarta catena italiana della grande distribuzione se ne è andato ieri sera. Senza poter mettere l’ultima firma alla trattativa a cui teneva di più: quella per dare un futuro di solida crescita alla sua creatura.
Caprotti avrebbe compiuto 91 anni tra pochi giorni, il prossimo 7 ottobre. Ad annunciare la morte è stata la moglie Giuliana. Tra le ultime volontà, le esequie che dovranno svolgersi in forma strettamente privata e il desiderio che non vengano pubblicati necrologi.
Caprotti era da mesi in trattativa con diversi fondi di private equity. In primis Cvc Capital partners e Blackstone. Di recente si era aggiunto anche il londinese Bc partners. La catena della grande distribuzione è valutata tra i 4 e i 6 miliardi di euro, a seconda che vengano considerati o meno immobili e aree di sviluppo. Caprotti aveva rinunciato a tutte le funzioni operative nel 2013 ma continuava ad avere l’ultima parola su ogni decisione strategica che riguardasse Esselunga. L’imprenditore non intendeva vendere ad altri operatori del settore dopo che in passato, a più riprese, si era parlato di trattative con l’americana Walmart, la britannica Tesco e la spagnola Mercadona.
Su un punto chi gli è stato vicino concorda: la prima richiesta ai fondi interessati all’acquisto è sempre stata la disponibilità a mantenere il marchio Esselunga nel lungo periodo e a garantire la continuità del business.
Caprotti, che veniva da una famiglia di imprenditori del tessile, fondò Esselunga nel ‘57 (allora si chiamava Supermarkets Italiani) in società con Nelson Rockefeller. Era stato un viaggio negli Stati Uniti a convincerlo che il nuovo modello di distribuzione americano potesse cambiare le abitudini di consumo degli italiani. Oggi il gruppo impiega 22 mila dipendenti. Nella crisi ha continuato a distinguersi per gestione e risultati. Nel 2015 Esselunga ha fatto meglio del mercato di riferimento con vendite in crescita (a rete corrente) del 4,3% a 7,3 miliardi di euro (la media del mercato è stata del 2,8%). Forse è proprio in questi numeri che si trova il suo più autentico commiato.
Rita Querzé
BERSANI
«Un insieme di tante cose. Innanzitutto, intuito nella localizzazione, poi un’idea chiara della pezzatura del negozio, capacità nella logistica, e soprattutto era un convinto sostenitore dell’importanza della formazione e dell’organizzazione del personale».
Una gestione dei dipendenti che però gli ha attirato non poche critiche.
«È vero che in lui c’era un elemento paternalistico, però alla fine riusciva a combinarsi con un’idea industriale di prima grandezza. Era un uomo che aveva un rapporto intimo con le sue attività, fino alle sue propaggini più estreme. Più di una volta l’ho visto girare nei suoi negozi, sapeva tutto di ogni singolo scaffale, si fermava a conoscere e a parlare con tutti i dipendenti».
SARA BENNEWITZ
SARA BENNEWITZ
MILANO.
Un imprenditore spigoloso, colto, geniale, generoso e calvinista. Bernardo Caprotti ha dedicato la vita al lavoro, alla sua impresa e a fare di Esselunga un’eccellenza della grande distribuzione, studiata e imitata da rivali come l’americana Walmart, la spagnola Mercadona, la britannica Tesco e la belga Delhaize.
Cinquantacinque anni fa Caprotti comprò il 51% di Esselunga dalla famiglia Rockefeller per 5 milioni di dollari, e a fine agosto ha ricevuto offerte che valutavano il gruppo fino a 6 miliardi di euro. In questi anni il leader italiano dei supermercati è stato corteggiato da tutti i generi di compratori, ma arrivato al dunque, Caprotti aveva sempre declinato anche le offerte più generose, per quella che di sicuro è stata l’impresa della vita. Poi con l’avanzare dell’età e della malattia, già a fine 2015 l’imprenditore si era spinto a incontrare diversi private equity interessati al controllo del gruppo. E così a metà settembre aveva incaricato la banca d’affari americana Citigroup di valutare le manifestazioni d’interesse di colossi come Blackstone e Cvc, pur di garantire al gruppo una governance dopo di lui. Se infatti l’operatività di Esselunga non è a rischio, perché da 16 anni le deleghe sono in mano a Carlo Salza e a un team di persone scelte da Caprotti - che formalmente è in pensione dal 2013 - la proprietà e la governance future di Esselunga rischiano invece di finire al centro in una lunga faida familiare, come quella che l’imprenditore ha condotto contro i figli dal 2011 ad oggi, e che è tutt’ora in corso nonostante la pronuncia della Cassazione della scorsa primavera. Nel ‘96, arrivato a 70 anni, Caprotti aveva infatti distribuito ai tre figli le quote dell’azienda dando al primogenito Giuseppe il 36% della società che controllava Esselunga, a sua sorella Violetta il 32% e il 32% all’altra figlia Marina, avuta con la seconda moglie Giuliana Albera, lasciata invece fuori. Poi nel 2011 il fondatore di Esselunga , dopo un violento litigio con il figlio Giuseppe, si era riassegnato le quote e aveva estromesso tutti i figli dalla proprietà dei supermercati. A questo punto non è scontato che gli eredi del patron di Esselunga terranno conto della volontà dell’imprenditore, che di fatto aveva intrapreso un processo per vendere l’azienda. In proposito ieri l’ad Salza e il presidente Vincenzo Mariconda, nell’inviare una lettera a tutti i dipendenti, hanno ricordato che «fino all’ultimo, come sempre del resto, la sua preoccupazione più grande è stata rivolta alle donne e agli uomini di Esselunga, alle loro famiglie, al loro presente e al loro futuro».
Le ultime volontà dell’imprenditore sono depositate presso lo studio del notaio Carlo Marchetti, e solo all’apertura del testamento si saprà cosa ha disposto per il futuro del suo patrimonio che per lo più è concentrato sul gruppo da 7,3 miliardi di ricavi. Tuttavia, dato il livore che scorre tra i due rami della famiglia, non si può escludere una nuova ondata di cause e di impugnazioni testamentarie, che potrebbero bloccare ogni decisione straordinaria sul futuro del gruppo, e che di sicuro farebbero scappare ogni possibile compratore. La legge testamentaria, anche considerando la quota di legittima, prevede infatti che insieme Giuseppe e Violetta Caprotti debbano comunque ereditare quote di Esselugna tali da costituire una minoranza di blocco capace di opporsi a qualunque decisione di straordinaria amministrazione, come potrebbe essere la vendita del gruppo dei supermercati. I rapporti tra i figli del primo matrimonio Giuseppe e Violetta con la seconda moglie del padre Giuliana Albera e sua figlia Marina sono logorati da anni, anche se nelle ultime ore Violetta si sarebbe riunita al capezzale del padre. Resta da sperare che dopo che Bernardo Caprotti ha dedicato tutta la vita a costruire un’eccellenza italiana della grande distribuzione, i suoi eredi non permettano per motivi personali che quello che è anche un patrimonio collettivo e che dà lavoro a 22 mila persone venga distrutto dai risentimenti privati.
MATTIOLI
L’invito arrivò dopo che avevo scritto un pezzo sull’aspra battaglia burocratica per aprire una grande Esselunga a Modena, nell’Emilia rossissima dove di regola i supermercati o sono Coop o non ci sono. Il reportage, apparentemente, gli era piaciuto. «Perché non viene a trovarmi con il suo direttore?». Detto fatto. Così il direttore, che all’epoca era Mario Calabresi, e il soprascritto partirono alla volta di Limito di Pioltello, sede principale dell’Esselunga, convinti di portare al giornale un’intervista a Bernardo Caprotti che non ne dava mai.
Il posto è la tipica imitazione milanese dell’America produttiva: capannoni e rotonde, rotonde e capannoni, e in mezzo gente in macchina intenta ad andare al lavoro o a tornare dal lavoro. Arrivammo e fummo parcheggiati in una sala d’attesa tipo dentista dove spiccavano due quadri con il loro bravo cordoncino davanti, come in un museo. Non mi sembravano meritarlo e nel tentativo di studiarli meglio mi avvicinai troppo facendo scattare una sirena terrificante. Come dire: meglio non fidarsi troppo. Però è anche vero che non arrivò nessun vigilante. Evidentemente erano abituati agli allarmi a vuoto.
In compenso comparve Caprotti, che all’epoca era già anziano ma sempre gagliardo, ed esauriti i convenevoli (pochi e sbrigativi) ci informò, primo, che i quadri erano dei Canaletto (e qui forse era troppo ottimista), secondo, che non c’era nessuna intervista ma solo una conversazione «off the record», insomma che non avremmo potuto scrivere una sola parola e, terzo, che ci invitava a colazione. Il tutto esibendo una copia del mio articolo tutta sottolineata con l’evidenziatore e spiegando che «i comunisti» gli volevano impedire di fare il suo mestiere, cosa peraltro verissima.
Seguì la famosa colazione. E qui capimmo che quello che avevamo davanti era un capitalista della vecchia scuola, un padrone delle ferriere senza indulgenze per nessuno, nemmeno sé stesso. Macché ristorante stellato, macché insalatina veloce e fighetta così-non-mi-appesantisco-che-devo-lavorare: andammo a pranzo in mensa, insieme con i dipendenti, con l’unico modesto lusso di una tavola a parte e del cameriere e mangiando solo prodotti Esselunga perché, come mise subito in chiaro, «io assaggio tutto quello che vendo». Scherzando, pure. «Le piace questo paté?». Sì, non male, grazie. «L’ha fatto mia moglie», ah ah ah.
La conversazione si aggirò intorno alle vicissitudini di «Falce e carrello», il suo libro denuncia sull’intreccio fra grande distribuzione e amministrazioni locali di sinistra, allora al centro di una complicata battaglia giudiziaria. Poi si passò ai suoi ricordi, lui di buona famiglia imprenditoriale lombarda spedito dal padre negli Stati Uniti più o meno all’epoca della presidenza Truman: doveva occuparsi di industria tessile, il business di famiglia, e invece scoprì che là esistevano degli strani grandi negozi chiamati «supermercati».
A sprazzi, emergeva qualcosa di più personale. Il giudizio su Berlusconi, per esempio, che lui conosceva bene e di cui disse «quello l’hanno rovinato le donne», sentenza magari sbrigativa ma non sbagliata. E, curiosamente, una gran simpatia per i greci e la Grecia, in teoria quanto di più lontano dalla sua etica del «laurà» e dalla sua estetica dell’understatement: ci raccontò che passava lì tutte le estati, in barca, e gli piaceva moltissimo.
Non una parola sulle risse giudiziarie con i figli, che pure avevano già cominciato a tracimare dai tribunali ai giornali. I suoi giudizi erano netti, espressi in un italiano impeccabile e per questo un po’ demodé. Analizzava le malefatte di governi, partiti e sindacati con la spassionata chiarezza di chi non se ne aspetta nulla di buono. Era duro ma lucido. E si capiva (ipotesi poi confermata parlando con chi lavorava con lui) che non chiedeva ai dipendenti niente che non avrebbe fatto lui.
Tornando, Calabresi mi raccomandò di scrivere un appunto sulla giornata, cosa che feci. Non ho più rivisto il cavalier Caprotti. Poco male: era di quelle persone che non si dimenticano. Magari era un uomo difficile. Ma certamente era un uomo.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
L’invito arrivò dopo che avevo scritto un pezzo sull’aspra battaglia burocratica per aprire una grande Esselunga a Modena, nell’Emilia rossissima dove di regola i supermercati o sono Coop o non ci sono. Il reportage, apparentemente, gli era piaciuto. «Perché non viene a trovarmi con il suo direttore?». Detto fatto. Così il direttore, che all’epoca era Mario Calabresi, e il soprascritto partirono alla volta di Limito di Pioltello, sede principale dell’Esselunga, convinti di portare al giornale un’intervista a Bernardo Caprotti che non ne dava mai.
Il posto è la tipica imitazione milanese dell’America produttiva: capannoni e rotonde, rotonde e capannoni, e in mezzo gente in macchina intenta ad andare al lavoro o a tornare dal lavoro. Arrivammo e fummo parcheggiati in una sala d’attesa tipo dentista dove spiccavano due quadri con il loro bravo cordoncino davanti, come in un museo. Non mi sembravano meritarlo e nel tentativo di studiarli meglio mi avvicinai troppo facendo scattare una sirena terrificante. Come dire: meglio non fidarsi troppo. Però è anche vero che non arrivò nessun vigilante. Evidentemente erano abituati agli allarmi a vuoto.
In compenso comparve Caprotti, che all’epoca era già anziano ma sempre gagliardo, ed esauriti i convenevoli (pochi e sbrigativi) ci informò, primo, che i quadri erano dei Canaletto (e qui forse era troppo ottimista), secondo, che non c’era nessuna intervista ma solo una conversazione «off the record», insomma che non avremmo potuto scrivere una sola parola e, terzo, che ci invitava a colazione. Il tutto esibendo una copia del mio articolo tutta sottolineata con l’evidenziatore e spiegando che «i comunisti» gli volevano impedire di fare il suo mestiere, cosa peraltro verissima.
Seguì la famosa colazione. E qui capimmo che quello che avevamo davanti era un capitalista della vecchia scuola, un padrone delle ferriere senza indulgenze per nessuno, nemmeno sé stesso. Macché ristorante stellato, macché insalatina veloce e fighetta così-non-mi-appesantisco-che-devo-lavorare: andammo a pranzo in mensa, insieme con i dipendenti, con l’unico modesto lusso di una tavola a parte e del cameriere e mangiando solo prodotti Esselunga perché, come mise subito in chiaro, «io assaggio tutto quello che vendo». Scherzando, pure. «Le piace questo paté?». Sì, non male, grazie. «L’ha fatto mia moglie», ah ah ah.
La conversazione si aggirò intorno alle vicissitudini di «Falce e carrello», il suo libro denuncia sull’intreccio fra grande distribuzione e amministrazioni locali di sinistra, allora al centro di una complicata battaglia giudiziaria. Poi si passò ai suoi ricordi, lui di buona famiglia imprenditoriale lombarda spedito dal padre negli Stati Uniti più o meno all’epoca della presidenza Truman: doveva occuparsi di industria tessile, il business di famiglia, e invece scoprì che là esistevano degli strani grandi negozi chiamati «supermercati».
A sprazzi, emergeva qualcosa di più personale. Il giudizio su Berlusconi, per esempio, che lui conosceva bene e di cui disse «quello l’hanno rovinato le donne», sentenza magari sbrigativa ma non sbagliata. E, curiosamente, una gran simpatia per i greci e la Grecia, in teoria quanto di più lontano dalla sua etica del «laurà» e dalla sua estetica dell’understatement: ci raccontò che passava lì tutte le estati, in barca, e gli piaceva moltissimo.
Non una parola sulle risse giudiziarie con i figli, che pure avevano già cominciato a tracimare dai tribunali ai giornali. I suoi giudizi erano netti, espressi in un italiano impeccabile e per questo un po’ demodé. Analizzava le malefatte di governi, partiti e sindacati con la spassionata chiarezza di chi non se ne aspetta nulla di buono. Era duro ma lucido. E si capiva (ipotesi poi confermata parlando con chi lavorava con lui) che non chiedeva ai dipendenti niente che non avrebbe fatto lui.
Tornando, Calabresi mi raccomandò di scrivere un appunto sulla giornata, cosa che feci. Non ho più rivisto il cavalier Caprotti. Poco male: era di quelle persone che non si dimenticano. Magari era un uomo difficile. Ma certamente era un uomo.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Gli esordi a Milano Al primo negozio se ne sono aggiunti 151 in Lombardia, Toscana, Emilia, Piemonte, Veneto, Liguria e Lazio
L’invito arrivò dopo che avevo scritto un pezzo sull’aspra battaglia burocratica per aprire una grande Esselunga a Modena, nell’Emilia rossissima dove di regola i supermercati o sono Coop o non ci sono. Il reportage, apparentemente, gli era piaciuto. «Perché non viene a trovarmi con il suo direttore?». Detto fatto. Così il direttore, che all’epoca era Mario Calabresi, e il soprascritto partirono alla volta di Limito di Pioltello, sede principale dell’Esselunga, convinti di portare al giornale un’intervista a Bernardo Caprotti che non ne dava mai.
Il posto è la tipica imitazione milanese dell’America produttiva: capannoni e rotonde, rotonde e capannoni, e in mezzo gente in macchina intenta ad andare al lavoro o a tornare dal lavoro. Arrivammo e fummo parcheggiati in una sala d’attesa tipo dentista dove spiccavano due quadri con il loro bravo cordoncino davanti, come in un museo. Non mi sembravano meritarlo e nel tentativo di studiarli meglio mi avvicinai troppo facendo scattare una sirena terrificante. Come dire: meglio non fidarsi troppo. Però è anche vero che non arrivò nessun vigilante. Evidentemente erano abituati agli allarmi a vuoto.
In compenso comparve Caprotti, che all’epoca era già anziano ma sempre gagliardo, ed esauriti i convenevoli (pochi e sbrigativi) ci informò, primo, che i quadri erano dei Canaletto (e qui forse era troppo ottimista), secondo, che non c’era nessuna intervista ma solo una conversazione «off the record», insomma che non avremmo potuto scrivere una sola parola e, terzo, che ci invitava a colazione. Il tutto esibendo una copia del mio articolo tutta sottolineata con l’evidenziatore e spiegando che «i comunisti» gli volevano impedire di fare il suo mestiere, cosa peraltro verissima.
Seguì la famosa colazione. E qui capimmo che quello che avevamo davanti era un capitalista della vecchia scuola, un padrone delle ferriere senza indulgenze per nessuno, nemmeno sé stesso. Macché ristorante stellato, macché insalatina veloce e fighetta così-non-mi-appesantisco-che-devo-lavorare: andammo a pranzo in mensa, insieme con i dipendenti, con l’unico modesto lusso di una tavola a parte e del cameriere e mangiando solo prodotti Esselunga perché, come mise subito in chiaro, «io assaggio tutto quello che vendo». Scherzando, pure. «Le piace questo paté?». Sì, non male, grazie. «L’ha fatto mia moglie», ah ah ah.
La conversazione si aggirò intorno alle vicissitudini di «Falce e carrello», il suo libro denuncia sull’intreccio fra grande distribuzione e amministrazioni locali di sinistra, allora al centro di una complicata battaglia giudiziaria. Poi si passò ai suoi ricordi, lui di buona famiglia imprenditoriale lombarda spedito dal padre negli Stati Uniti più o meno all’epoca della presidenza Truman: doveva occuparsi di industria tessile, il business di famiglia, e invece scoprì che là esistevano degli strani grandi negozi chiamati «supermercati».
A sprazzi, emergeva qualcosa di più personale. Il giudizio su Berlusconi, per esempio, che lui conosceva bene e di cui disse «quello l’hanno rovinato le donne», sentenza magari sbrigativa ma non sbagliata. E, curiosamente, una gran simpatia per i greci e la Grecia, in teoria quanto di più lontano dalla sua etica del «laurà» e dalla sua estetica dell’understatement: ci raccontò che passava lì tutte le estati, in barca, e gli piaceva moltissimo.
Non una parola sulle risse giudiziarie con i figli, che pure avevano già cominciato a tracimare dai tribunali ai giornali. I suoi giudizi erano netti, espressi in un italiano impeccabile e per questo un po’ demodé. Analizzava le malefatte di governi, partiti e sindacati con la spassionata chiarezza di chi non se ne aspetta nulla di buono. Era duro ma lucido. E si capiva (ipotesi poi confermata parlando con chi lavorava con lui) che non chiedeva ai dipendenti niente che non avrebbe fatto lui.
Tornando, Calabresi mi raccomandò di scrivere un appunto sulla giornata, cosa che feci. Non ho più rivisto il cavalier Caprotti. Poco male: era di quelle persone che non si dimenticano. Magari era un uomo difficile. Ma certamente era un uomo.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
L’invito arrivò dopo che avevo scritto un pezzo sull’aspra battaglia burocratica per aprire una grande Esselunga a Modena, nell’Emilia rossissima dove di regola i supermercati o sono Coop o non ci sono. Il reportage, apparentemente, gli era piaciuto. «Perché non viene a trovarmi con il suo direttore?». Detto fatto. Così il direttore, che all’epoca era Mario Calabresi, e il soprascritto partirono alla volta di Limito di Pioltello, sede principale dell’Esselunga, convinti di portare al giornale un’intervista a Bernardo Caprotti che non ne dava mai.
Il posto è la tipica imitazione milanese dell’America produttiva: capannoni e rotonde, rotonde e capannoni, e in mezzo gente in macchina intenta ad andare al lavoro o a tornare dal lavoro. Arrivammo e fummo parcheggiati in una sala d’attesa tipo dentista dove spiccavano due quadri con il loro bravo cordoncino davanti, come in un museo. Non mi sembravano meritarlo e nel tentativo di studiarli meglio mi avvicinai troppo facendo scattare una sirena terrificante. Come dire: meglio non fidarsi troppo. Però è anche vero che non arrivò nessun vigilante. Evidentemente erano abituati agli allarmi a vuoto.
In compenso comparve Caprotti, che all’epoca era già anziano ma sempre gagliardo, ed esauriti i convenevoli (pochi e sbrigativi) ci informò, primo, che i quadri erano dei Canaletto (e qui forse era troppo ottimista), secondo, che non c’era nessuna intervista ma solo una conversazione «off the record», insomma che non avremmo potuto scrivere una sola parola e, terzo, che ci invitava a colazione. Il tutto esibendo una copia del mio articolo tutta sottolineata con l’evidenziatore e spiegando che «i comunisti» gli volevano impedire di fare il suo mestiere, cosa peraltro verissima.
Seguì la famosa colazione. E qui capimmo che quello che avevamo davanti era un capitalista della vecchia scuola, un padrone delle ferriere senza indulgenze per nessuno, nemmeno sé stesso. Macché ristorante stellato, macché insalatina veloce e fighetta così-non-mi-appesantisco-che-devo-lavorare: andammo a pranzo in mensa, insieme con i dipendenti, con l’unico modesto lusso di una tavola a parte e del cameriere e mangiando solo prodotti Esselunga perché, come mise subito in chiaro, «io assaggio tutto quello che vendo». Scherzando, pure. «Le piace questo paté?». Sì, non male, grazie. «L’ha fatto mia moglie», ah ah ah.
La conversazione si aggirò intorno alle vicissitudini di «Falce e carrello», il suo libro denuncia sull’intreccio fra grande distribuzione e amministrazioni locali di sinistra, allora al centro di una complicata battaglia giudiziaria. Poi si passò ai suoi ricordi, lui di buona famiglia imprenditoriale lombarda spedito dal padre negli Stati Uniti più o meno all’epoca della presidenza Truman: doveva occuparsi di industria tessile, il business di famiglia, e invece scoprì che là esistevano degli strani grandi negozi chiamati «supermercati».
A sprazzi, emergeva qualcosa di più personale. Il giudizio su Berlusconi, per esempio, che lui conosceva bene e di cui disse «quello l’hanno rovinato le donne», sentenza magari sbrigativa ma non sbagliata. E, curiosamente, una gran simpatia per i greci e la Grecia, in teoria quanto di più lontano dalla sua etica del «laurà» e dalla sua estetica dell’understatement: ci raccontò che passava lì tutte le estati, in barca, e gli piaceva moltissimo.
Non una parola sulle risse giudiziarie con i figli, che pure avevano già cominciato a tracimare dai tribunali ai giornali. I suoi giudizi erano netti, espressi in un italiano impeccabile e per questo un po’ demodé. Analizzava le malefatte di governi, partiti e sindacati con la spassionata chiarezza di chi non se ne aspetta nulla di buono. Era duro ma lucido. E si capiva (ipotesi poi confermata parlando con chi lavorava con lui) che non chiedeva ai dipendenti niente che non avrebbe fatto lui.
Tornando, Calabresi mi raccomandò di scrivere un appunto sulla giornata, cosa che feci. Non ho più rivisto il cavalier Caprotti. Poco male: era di quelle persone che non si dimenticano. Magari era un uomo difficile. Ma certamente era un uomo.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
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