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 2016  ottobre 01 Sabato calendario

FIORENTINA, NOVANT’ANNI DI SOGNI VIOLA

In riva all’Arno il calcio moderno vide la luce alla fine di agosto del 1926 grazie all’intraprendenza del marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano, che fu anche il fondatore del Maggio Musicale e passava tra i futuristi con Soffici e Papini. Il 3 ottobre dello stesso anno, la Fiorentina - che indossava maglia rossa coi bordi bianchi (leggenda vuole che il viola apparve dopo uno scambio di un bucato) - giocò la sua prima partita ufficiale nel campionato di prima divisione del Nord. Allo stadio di via Bellini la squadra allenata dall’ungherese Csapkay superò per 3-1 i cugini del Pisa, con una rete di Baldini e una doppietta di Rodolfo Volk.
Cominciò così l’avventura nel calcio che conta della squadra gigliata la quale, sebbene ad oggi la bacheca dei suoi trofei non sia particolarmente ricca (solo due scudetti, sei Coppe Italia, una Coppa delle Coppe), ha rappresentato un caso a parte nella storia nostrana del pallone come testimoniano i giornalisti Mario Lancisi e Marcello Mancini nel libro La Fiorentina è molto più che una bistecca (Giunti Edizioni, pp.124, euro 10). Il calcio nella culla del Rinascimento ha assunto spesso tratti sociologici, culturali. E persino politici. Si prendano gli anni del primo scudetto, quello vinto nella stagione 1955-56 con il grandissimo dottor “Fuffo” Fulvio Bernardini sulla panchina, l’imprenditore pratese Mario Fabiani alla presidenza e i vari Sarti, Montuori, Chiappella, Julinho, Virgili ad imperlare di spettacolo il gioco. La Fiorentina di quegli anni Cinquanta mandò in frantumi il dominio, fino allora incontrastato, delle grandi sorelle del nord: Juve, Milan, Inter e Torino. Uno scudetto e quattro volte il secondo posto in campionato, la Coppe delle Coppe, una Coppa Italia e la finale di Coppa dei Campioni (poi persa col Real Madrid), la Viola venne a costituire nel calcio nazionale un’eresia come lo fu in politica Giorgio La Pira, “il sindaco santo” che lottò contro gli sfratti e la chiusura delle fabbriche e fece della sua città «la capitale italiana del pensiero diverso». Secondo Mario Lancisi e Marcello Mancini altro momento cardine fu la conquista del secondo scudetto nel torneo 1968-69. Alla ribalta salì la Fiorentina ye-yè degli Hamrin, degli Amarildo, dei De Sisti, dei Merlo, dei Ferrante, dei Rizzo, dei Chiarugi. Un’allegra brigata guidata dall’argentino Bruno Pesaola, ma costruita pezzo per pezzo dal buon Beppe Chiappella. Divenne l’emblema della migliore gioventù fiorentina e italiana, si sintonizzò ai ragazzi di Barbiana di don Lorenzo Milani, alle rimostranze degli obiettori di coscienza e ai venti di protesta di cui fu portatore, con «i suoi lati generosi e le inevitabili ombre», il Sessantotto. Gli anni Settanta e Ottanta videro la luce della stella di Giancarlo Antognoni, il fuoriclasse fedele alla curva Fiesole, nonostante le allettanti richieste di Juve e Roma. Il bell’“Antonio” in campo incarnava la bellezza e il dolce stil novo dell’arte della pedata, giocava guardando le stelle ma «si è portato addosso il triste privilegio della sfortuna, perché non ha vinto niente (con la Nazionale è stato campione del mondo, a Spagna ’82) e perché ha rischiato di morire in campo» in uno scontro fortuito con il portiere del Genoa Silvano Martina. Dopo Antognoni, i vari fuoriclasse Roberto Baggio, Batistuta, Rui Costa (ma anche la classe operaia capitanata dal bomber Riganò) Luca Toni ad accendere il fervore dei tifosi nel balletto dei passaggi di proprietà, dalla famiglia Pontello ai Cecchi Gori fino all’attuale casato dei fratelli Della Valle.