varie, 1 ottobre 2016
APPUNTI SULL’UNGHERIA – IL POST 10/9 – Il primo ministro ungherese Viktor Orbán – oltre ad essere una figura controversa e accusata di governare in maniera autoritaria – è uno dei leader europei più critici verso l’Unione: in passato ha paragonato la burocrazia europea a quella dell’URSS e ha spiegato che l’Ungheria va «protetta» da Bruxelles
APPUNTI SULL’UNGHERIA – IL POST 10/9 – Il primo ministro ungherese Viktor Orbán – oltre ad essere una figura controversa e accusata di governare in maniera autoritaria – è uno dei leader europei più critici verso l’Unione: in passato ha paragonato la burocrazia europea a quella dell’URSS e ha spiegato che l’Ungheria va «protetta» da Bruxelles. L’Ungheria è stato forse il paese più duro nei confronti dei migranti: ha costruito un muro al confine con la Serbia e tuttora difende il proprio confine meridionale con l’esercito (l’Ungheria è da anni uno dei paesi più intolleranti in Europa). Il 2 ottobre si terrà un referendum sul sistema di quote dei richiedenti asilo approvato dalla Commissione Europea nel settembre 2015 (che l’Ungheria non ha mai applicato): quasi sicuramente vincerà il No. Alle ultime elezioni politiche, il partito di Orbán ha ottenuto il 44,8 per cento mentre Jobbik – il partito neonazista di estrema destra – ha superato il 20 per cento. *** MONICA PEROSINO, LA STAMPA 1/10 – La piazza di fronte al parlamento è piena. In Kossuth tér a Budapest ci sono migliaia di persone. Sono arrivati in silenzio, alla spicciolata. Srotolando timidamente bandiere ungheresi ed europee hanno tirato fuori dalle borse – ma solo una volta superato il presidio della polizia – modesti striscioni fatti di cartone e fazzoletti. Le frasi sono scritte con pezzi di scotch rosso: «Siamo tutti persone», «Restiamo umani». «Restiamo umani», è anche lo slogan che sovrasta il piccolo palco montato in mezzo alla piazza, proprio sotto l’ufficio del primo ministro. È il messaggio della manifestazione organizzata dalle dieci principali ong ungheresi a meno di 48 ore dal referendum di domani sulla redistribuzione dei profughi in Ungheria voluta dall’Europa, che assegnerebbe al Paese 1.200 rifugiati in tutto. È la prima volta che, in mesi di martellante campagna governativa per il «no», l’«altra» Ungheria scende in piazza. Il loro è un «no» che cerca di opporsi ai muri, alle centinaia di comizi governativi, ai 4 milioni di opuscoli e agli investimenti milionari per «l’immagine del Paese» che da quando il referendum è stato indetto hanno cercato di persuadere gli ungheresi che l’immigrazione mette in pericolo la cultura cristiana, porta terrorismo e malattie, rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza e al benessere. Quello di ieri è stato il primo, ma non è l’ultimo, tentativo di evitare che domani si celebri la vittoria di Fidesz, il partito di governo nazional-populista. Oggi la Coalizione democratica (all’opposizione) organizzerà una grande catena umana perchè «vogliamo rimanere in Europa» e domenica un gruppo di intellettuali, docenti universitari e artisti ha in programma una manifestazione contro la violenza e la paura. In prima fila sotto il palco, schiacciata contro le transenne, c’è Rotzsa, 87 anni, che ondeggia con grazia al ritmo di Exodus, Bob Marley. Ride, tira fuori tutto il fiato che ha per urlare «Magyarország nem Orbàn!», l’Ungheria non è Orban. Accanto a lei Edit Vlahovis, 56 anni, attrice, e Agnes Komanomi, 47 anni, manager per le risorse umane. «Siamo qui oggi per dire agli ungheresi e all’Europa che non ci arrendiamo, che non tutti in questo Paese sono rimasti accecati dalla campagna di un governo che vuole distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi di cui soffriamo: un’economia stagnante, sanità ed educazione allo sfascio». Edit ha incontrato alcuni profughi alla stazione, qualche mese fa: «Gli ungheresi viaggiano poco, e conoscono meno ancora. Così la dittatura soft di Orban ha buon gioco. Nessuno, soprattutto nelle zone più rurali, lo ha mai visto un arabo. Basterebbe parlare con qualcuno di loro per capire che, alla fine, siamo tutti esseri umani». Mentre la piazza si riempie è ancora il portavoce del governo, Zoltan Kovacs, a ribadire il pensiero di Orban: «Domani il messaggio a Bruxelles arriverà forte e chiaro: non si può fare politica contro la volontà della gente». I sondaggi prevedono che l’80% dirà «no» alle quote decise dall’Unione europea per i ricollocamenti, ma al tempo stesso mettono in forte dubbio che il quorum dei voti validi superi il 50%, rendendo illegittima la consultazione, come avvenne per passati referendum sull’Ue e la Nato. In più c’è l’appello di alcuni partiti di opposizione al voto nullo, barrando ad esempio entrambe le caselle e alzando così il quorum dei voti validi. Degli intervistati solo il 42% ha dichiarato che si recherà alle urne e di questi l’83% ha detto di essere dalla parte di Viktor Orban e di voler votare contro le quote. Solo il 13% intende votare «sì» alla domanda sulla scheda, con posizioni più filo-Ue, e il 3% pensa di annullare la scheda. Sul fronte del no la maggior parte degli elettori di Fidesz (86%), partito di Orban, e dell’estrema destra di Jobbik (88%). Per l’astensione soprattutto gli elettori di sinistra: solo il 20% intende recarsi alle urne. «La nostra unica speranza – dice Noemi Fers, 23 anni, studentessa di architettura – è che non si raggiunga il quorum e che si abbandonino le posizioni emozionali che hanno guidato i miei concittadini nell’ultimo anno a favore di un dialogo più razionale e costruttivo». Gli elettori ungheresi sono chiamati a rispondere al quesito: «Volete che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento ungherese?». Orban ha detto di sperare che anche altri Paesi Ue facciano referendum sull’immigrazione riferendosi innanzitutto ai suoi alleati del gruppo Visegrad - Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia -, per resistere «all’invasione di massa e chiudere i confini». *** COSIMO CARIDI, IL FATTO QUOTIDIANO 1/10 – C’è chi lo chiama “piccola Brexit”. Ma per le strade della Capitale ungherese in pochi sono interessati al referendum che si terrà domani. Il primo ministro Viktor Orban porta i suoi concittadini alle urne e chiede se l’Ungheria debba accettare o meno la quota di migranti, circa 1300 nel caso di Budapest, che Bruxelles tenta di ridistribuire tra gli stati membri. Il problema non è la volontà dei magiari, 8 su 10 sono contro l’arrivo dei migranti, ma la possibilità di raggiungere il quorum. “Non crediamo in una società multiculturale, noi ne vogliamo una monoculturale”. Non ha dubbi Marton Gyongyosi, deputato di Jobbik (Movimento per un’Ungheria Migliore) e stella nascente del partito di estrema destra. All’opposizione dal 2003, anno della sua creazione, Jobbik sta abbandonando i toni urlati per indossare colletti inamidati e polsini per gemelli sono la nuova generazione di nazionalisti. Gyongyosi è figlio di un diplomatico “ho passato la mia infanzia in Afghanistan e Iraq”, per poi studiare tra Irlanda e Germania. Potrebbe essere uno dei tanti della generazione Erasmus, innamorato dell’Europa, ma invece odia quello che rappresenta. “Bruxelles è gestita da lunatici – spiega con tono deciso, ma senza l’enfasi tipica dei discorsi populisti – guarda Prodi, Tusk, Dragi: nominati in Europa perché bocciati a casa propria”. Jobbik non solo è contrario alla ripartizione dei migranti, ma anche al modo in cui Orban ha proposto ai cittadini di decidere contro l’Unione. “Il Parlamento ha il mandato degli elettori ungheresi, quindi basta una legge nazionale per bloccare le imposizioni europee”. Stessi anni, ma stile molto più casual per un altro dei volti più famosi di Jobbik: Laszlo Toroczkai. Il sindaco/sceriffo di Ashttalom, cittadina di confine con la Serbia, è diventato famoso per un video in cui sconsigliava ai migranti di passare per il Comune amministrato da lui. Quattro minuti di immagini in cui si alternano moto, fuoristrada, filo spinato, cani e ronde armate. Invitava i migranti, che si trovano sulla rotta balcanica, a passare dalla Croazia, piuttosto che farsi trovare dai “suoi ragazzi. Perché ora l’immigrazione clandestina è reato in Ungheria e se vi fermiamo finirete in galera, per molto tempo”. Sul cancello di casa del sindaco, a meno di cento metri dal muro di filo spinato fatto costruire lo scorso anno da Orban, c’è un cartello che avvisa: quest’area è protetta da videosorveglianza, cani e armi. Stop. “Mia moglie e i nostri tre figli vivevano nella paura – continua Toroczkai – ogni notte decine di migranti restavano davanti alla nostra casa. Non c’è posto per nessuno di loro in Ungheria e ancor meno ad Ashttalom”. Gyongyosi e Toroczkai, come tutto Jobbik, non sono contrari al referendum, ma tenteranno di trarne il massimo vantaggio politico, erodendo parte del consenso, ampissimo, di Orban. Il primo ministro invece, politico navigato, tenta di alzare il tiro e punta direttamente a minare la credibilità di Bruxelles. Se domenica vincerà il No, per l’ennesima volta i cittadini europei si saranno espressi contro la volontà delle istituzioni europee. Questo potrebbe aprire la strada a una nuova serie di consultazioni referendarie. Nel gruppo di Viségrad (Cèchia-Polonia-Slovacchia-Ungheria) sono tutti uniti nel “no” alle quote. Dopo il paventato Grexit e la certa Brexit il dibattito sull’adesione all’Ue investe ora l’est Europa e i migranti sono solo una scusa per soffiare sul fuoco del nazionalismo. *** ANDREA TARQUINI, LA REPUBBLICA 1/10 – L’ordine parte via radio e sms, «allarme rosso, cercano di passare la barriera». Il rombo delle jeep Hummer e dei camion MAN made in Germany delle forze di sicurezza ungheresi rompe ogni notte il silenzio nell’ordinata cittadina di Asotthalom a un passo dalla frontiera con la Serbia. Elmetti e stivali in kevlar, visori notturni e armi in pugno, agenti e guardie confinarie accorrono. «Abbiamo mezzi moderni, sensori ed elicotteri che vedono ogni movimento a terra, ma i passatori di clandestini cercano con droni punti deboli del confine», dice Zsolt Gulyas, comandante della polizia locale. Stanotte i soldati sono arrivati prima, «però ieri 110 clandestini sono entrati così», aggiunge il colonnello Balazs della polizia di frontiera. In questo clima da assedio e difesa della fortezza Europa, l’Ungheria del popolarissimo premier nazionalconservatore Viktor Orbàn va a votare domenica 2 ottobre. Domanda dura: «Volete o no che la Ue imponga quote di ripartizione di migranti senza parlare con le autorità sovrane nazionali?». Vittoria scontata, incertezze solo sul quorum. Mentre elogia Donald Trump, Orbàn scommette tutto. Cerca più popolarità, sfida Bruxelles, si propone come leader dei nuovi nazionalconservatori europei. «Tutto sotto controllo, non passeranno», grida un soldato al walkie-talkie. «Restate pronti, elicotteri, caccia dell’aviazione e sensori sono in allerta», risponde la centrale. La barriera-muro esiste da un anno, «dai 391mila ingressi illegali siamo scesi a 17mila circa, ma sono sempre più rispetto al 2011», ammonisce il colonnello Balazs. Pausa sigaretta, poi nuovo allarme rosso, gli Hummer sgommano verso altrove. Secondo Orbàn, e nei sondaggi 8 ungheresi su 10 sono con lui, l’Europa si difende così o sparirà. «È una nuova cortina di ferro, uno schiaffo ai diritti umani», sostiene Marta Parvadi del “Comitato Helsinki”. Ma la maggior parte delle persone non la pensa così. «Sono camionista da anni, prima di Orbàn me li trovavo a bordo, minacciavano con pugnali », narra l’ipertatuato Làci. Il governo ostenta certezze. «Non siamo xenofobi, difendiamo le frontiere Schengen ed europee secondo i trattati», mi dice il portavoce e “spin doctor” di Orbàn, Zoltán Kovács, nel suo ufficio a Via Garibaldi civico 2, nel maestoso centro della Budapest che non dorme mai. «Vogliamo un segnale chiaro per governo, Parlamento e Ue. Da europeisti temiamo per il futuro dell’Europa, ne difendiamo i confini. Chi in Europa ci attacca non vede che le paure degli ungheresi sono condivise da molti elettori europei, invece di attaccarci discutano con noi e altre forze democratiche, un monopolio di liberal e sinistre è inaccettabile». Governo certo di vincere. Campagna elettorale efficace, onnipresente. «Salviamo il futuro dell’Ungheria, votiamo no», dicono poster a ogni incrocio e autostrada. Londra e Parigi, Nizza e Bruxelles, Stoccolma e altri centri pulsanti d’Europa, 900 città in tutto, sono “no-go zones” (aree da evitare ndr) nei volantini della maggioranza. Deboli e divise, a fronte dell’umore popolare le opposizioni parlano poco. «Non trovano argomenti», mi dice un diplomatico Nato. Crescita economica al 3%, conti sovrani gestibili, rating migliorato di Standard&Poor parlano chiaro. «La Orbanomics ci dà più chances e lavoro», esulta Attila Behovits, ieri povero disoccupato oggi facoltoso venditore di street food di qualità, inventa salsicce speciali, fatturato 365mila dollari l’anno. Salari bassi e povertà per un terzo, ma tra investimenti Mercedes e Audi e fondi di coesione Ue funziona. «Non odio i migranti ma temo che mi tolgano lavoro», confessa Viktoria, giovane commessa. «Ma è uno Stato-mafia», denuncia il sociologo di grido Bàlint Magyar, dissidente sotto la dittatura comunista come oggi, lo ascolto all’elegante Central Café. «Orbàn controlla l’economia con un sistema di “famiglia di amici degli amici”, chiede al popolo una prova di lealtà, vuole un test per le prossime politiche. Col no ai migranti cerca di avvicinare al suo partito, la Fidesz (membro del Ppe, ndr) più elettori. Minacciano: città che voteranno pro-migranti riceveranno meno aiuti, più stranieri allocati». Passeggio ancora nel centro, incontro lo storico László Tökéczki. «Sono in campagna elettorale ogni giorno, prendiamoci la pausa d’un buon vino italiano. Militanza stressante, ma incoraggia », racconta. «Anche gli zingari e i molti altri cittadini poveri ci capiscono: paese impoverito da quaranta anni di comunismo, i migranti toglierebbero risorse per aiutare loro». La Ue spara a zero su Orbàn, dice la Cnn alla tv nel ristorante dove chiaccheriamo. «Orbàn parla con coraggio da patriota europeo, la cancelliera Merkel dovrebbe ascoltare gli elettori che la abbandonano. Crimine, culture ostili, troppe minacce. E basta, settanta anni dopo la fine della guerra, di chiedere a ungheresi e tedeschi di sentirsi sempre fascisti colpevoli». Tre stazioni di metro più a sud, pensa e dice altro Agnès Heller, decana della cultura europea. «Orbàn vuole recuperare consensi evocando odio e paure, non ha ideologie, le usa. Abilissimo stratega con sete di potere, vero leader del gruppo di Viségrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria, tutti Paesi antimigrazione ndr), vuole farsi leader d’una nuova Europa nazionalconservatrice, illiberale ». Corsa verso il referendum-sfida magiara alla Ue col fiato sospeso, eppure a Budapest la movida non si ferma. Lo vedi ovunque, dalla mostra di Modigliani al Castello (accanto a cui stanno costruendo il nuovo ufficio di Orbàn) a Kiraly utca dai mille locali, tra “sfilate” di ragazze, rock e pop e birra a fiumi. «Decideremo all’ultimo come votare, decideremo presto o tardi se emigrare dopo la laurea per guadagnare meglio a Stoccolma o Berlino, o restare in Patria», affermano Erzsi e Gàbor, coppietta abbracciata, prima di abbandonarsi alla notte brava. *** LUCA VERONESE, IL SOLE 24 ORE 1/10 – Nell’Ungheria di Viktor Orban non vengono rispettati i diritti elementari dei migranti e c’è «il rischio fondato che lo straniero richiedente asilo venga sottoposto a trattamenti inumani e degradanti». Con queste motivazioni il Consiglio di Stato italiano ha accolto il ricorso di un richiedente asilo, bloccandone il trasferimento in Ungheria: nella sentenza numero 4004/2016, il più alto giudice amministrativo italiano scrive che in Ungheria il migrante avrebbe «potuto subire trattamenti in contrasto con i principi umanitari e con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». È la prima volta che un tribunale italiano, allineandosi a altre sentenze emesse in Austria e Olanda, afferma che l’Ungheria non è un Paese sicuro per i rifugiati. In modo altrettanto allarmato si era espresso già l’Unhcr affermando che le leggi ungheresi sui migranti sono in contrasto con «i principi morali e i minimi standard»; mentre Amnesty International ha documentato «l’orribile trattamento e le violenze» subite dai profughi in Ungheria. Il ricorso al Consiglio di Stato era stato presentato contro il provvedimento con il quale la Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo aveva stabilito, in base agli accordi europei, il trasferimento di un migrante che aveva avanzato istanza di asilo prima in Ungheria e poi in Italia. La totale chiusura ai migranti ha provocato una profonda spaccatura tra l’Ungheria di Orban (affiancata dalla Polonia) e l’Unione europea. Budapest ha sempre rifiutato ogni decisione di Bruxelles sulle quote per redistribuire i migranti tra gli Stati europei. Per bloccare il flusso dei migranti che risalivano i Balcani per entrare nella Ue, l’Ungheria un anno fa ha costruito una barriera di filo spinato alta quasi quattro metri e lunga 180 chilometri lungo il confine con la Serbia. E il referendum sulle quote europee che si terrà domani è stato voluto da Orban per sfidare Bruxelles e rafforzare la sua leadership di fronte all’Europa e dentro al Paese. Il Consiglio di Stato ha considerato le norme sui migranti e l’asilo che il Parlamento magiaro ha approvato nel luglio del 2015 e che già hanno costretto la Commissione europea a inviare al Governo di Budapest una lettera di costituzione in mora, avviando un procedimento di infrazione. In Ungheria - si legge nella sentenza - «è prevista l’espulsione degli immigrati con una procedura accelerata e le nuove norme, duramente criticate dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, limitano la concessione del diritto d’asilo, permettendo alle autorità di cancellare le richieste d’asilo se i richiedenti lasceranno la loro residenza designata in Ungheria per più di 48 ore senza autorizzazione». In Ungheria è, inoltre, stato prolungato il periodo di detenzione dei richiedenti asilo, «che già rappresenta una prassi regolare in quel Paese, nonché la possibilità di obbligarli a lavori di pubblica utilità per coprire le spese di mantenimento». La detenzione - sottolinea il Consiglio di Stato - «riguarda i richiedenti asilo senza distinzione per sesso, età e condizioni fisiche, anche donne in gravidanza e minori non accompagnati, come conferma la visita dei delegati di Human Rights Watch in cinque strutture dedicate alla detenzione, riportata nelle notizie dei media». Due giorni fa Nils Muiznieks, commissario dei Diritti umani del Consiglio d’Europa, ha ricordato le espulsioni sommarie dei profughi e l’intervento delle forze di polizia contro i migranti arrivando a definire quella ungherese come una «xenofobia istituzionalizzata». Luca Veronese *** MARINA CASTELLANETA, IL SOLE 24 ORE 1/10 – Prolungamento della detenzione dei richiedenti asilo. Trattamenti inumani e degradanti. “Muro anti-immigrati” in costruzione. Un mix di pratiche in aperto contrasto con i diritti dell’uomo che hanno spinto il Consiglio di Stato, con sentenza del 27 settembre (n. 4004/2016), a bloccare il trasferimento verso l’Ungheria di un cittadino extra Ue, richiedente asilo. I giudici amministrativi hanno bollato l’Ungheria, Paese membro dell’Unione europea, come Stato non sicuro e hanno così fermato l’allontanamento verso Budapest. È la prima volta che accade nei confronti dell’Ungheria. Così, i giudici hanno riempito un vuoto perché l’Unione europea assiste inerte a pratiche in aperto contrasto con i valori fondanti dell’Unione stessa e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La discesa verso il basso di alcuni Paesi membri in materia di immigrazione e di asilo è sotto gli occhi di tutti e si estende a macchia d’olio. Con alcuni Paesi, come l’Ungheria, che certo sono in testa nella classifica degli Stati che adottano politiche di stampo xenofobo. Ma nulla è stato fatto. Qualche sintetica dichiarazione e basta. Proprio mentre è alle porte il referendum voluto da Orban sulle quote di cittadini extra Ue. La questione dinanzi al Consiglio di Stato verteva sul provvedimento della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo – Unità di Dublino che aveva deciso il trasferimento in Ungheria del ricorrente perché lì era stata presentata la domanda di asilo. Arrivato in Italia, l’uomo aveva avanzato una nuova istanza ma le autorità italiane avevano chiesto a quelle ungheresi di riprendere in carico l’interessato secondo l’articolo 18 del regolamento n. 604/2013 (Dublino). Il Tribunale amministrativo del Lazio aveva ritenuto legittima la decisione e dato, in pratica, il via libera al rientro in Ungheria. Diversa la posizione del Consiglio di Stato che ha annullato la sentenza del Tar. Per arrivare a questa conclusione il Consiglio di Stato ha fatto un’attenta valutazione dello stato dei diritti dell’uomo in Ungheria con riferimento ai richiedenti asilo. Sono proprio le carenze sistemiche nella procedura di protezione internazionale e le condizioni di accoglienza a far decidere i giudici amministrativi nel senso di impedire il trasferimento, in linea con quanto previsto dall’articolo 3 del regolamento Dublino. È fondato – osserva il Consiglio di Stato – il rischio che lo straniero richiedente sia sottoposto a trattamenti inumani e degradanti in Ungheria. A sostegno di questa conclusione i giudici citano le dichiarazioni dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati, di Human Rights Watch e di Amnesty International. Ma a ben guardare parlano da sole le scelte del Governo e del Parlamento ungherese. Quest’ultimo ha approvato a luglio 2015 una legge sull’immigrazione che calpesta i diritti dei migranti, ha previsto una procedura accelerata per le espulsioni e una stretta sulla concessione dell’asilo, inclusa la cancellazione delle istanze se i richiedenti lasciano la residenza in Ungheria per più di 48 ore. Fino ad arrivare alla vergogna d’Europa ossia il “muro anti-immigrati”.«Una barriera – scrive il Consiglio di Stato – che «ben rappresenta il clima culturale e politico di avversione al fenomeno dell’immigrazione e della richiesta di protezione dei rifugiati». D’altra parte, l’Ungheria è anche nel mirino di Bruxelles: la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione proprio a causa di alcune regole interne che portano, di fatto, all’allontanamento dei richiedenti prima che si concluda l’iter. Tutti elementi che fanno «ritenere fondato il rischio che il provvedimento impugnato esponga il ricorrente alla possibilità di subire trattamenti in contrasto con i principi umanitari e con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue». Così la decisione spetta all’Italia. Marina Castellaneta *** MARIA SERENA NATALE, CORRIERE DELLA SERA 1/10– È passato solo un anno da quando il premier ungherese Viktor Orbán si ergeva a bastione dell’Occidente cristiano contro il pericolo dell’invasione islamica e l’Europa condannava indignata la sindrome dell’assedio risorta nei Paesi del Centro-Est. Domani l’Ungheria vota nel referendum che Orbán, non più ostracizzato, vuole trasformare nella legittimazione plebiscitaria della sua leadership autoritaria e nazionalista: otto milioni di elettori chiamati ad approvare o respingere la politica Ue di redistribuzione dei richiedenti asilo. Nei sondaggi la maggioranza è contro le quote, unica incognita resta l’affluenza. Budapest ha sdoganato la linea della chiusura sull’immigrazione che oggi trova consensi tra gli stessi capi di governo che la criticavano. Al contrario la portabandiera dell’accoglienza, la cancelliera tedesca Angela Merkel, attraversa la più grave crisi della sua storia. E Orbán tenta di accreditarsi come alternativa al merkelismo. Destini incrociati, un anno dopo.