Massimo Cecchini, La Gazzetta dello Sport 30/9/2016, 30 settembre 2016
PRANDELLI: «IL CALCIO È TEATRO SENZA MEMORIA» – Alla fine, il numero delle telefonate mancate equivarrà a quello di un adolescente innamorato: un’enormità
PRANDELLI: «IL CALCIO È TEATRO SENZA MEMORIA» – Alla fine, il numero delle telefonate mancate equivarrà a quello di un adolescente innamorato: un’enormità. L’unica volta che Cesare Prandelli risponde al cellulare è per parlare con un vivaista. «Sa, ora mi diverto a fare anche il contadino e ulivi e platani hanno problemi seri». Mentre ne parla, la faccia dell’ex c.t. della Nazionale assume l’espressione di quando la sua squadra ha subito un gol: dispiacere vivo. Ma è un attimo, il resto sono ore di parole intime, che hanno come pretesto un libro - «Buchi nella sabbia» di Marco Malvaldi - apparentemente fuori contesto rispetto a ciò di cui parleremo; invece sappiamo entrambi che questa storia di bel canto, amore, morte e anarchia ci guiderà dappertutto. Anche a Singapore, dove Prandelli è atteso dal presidente Lim per tirare fuori il Valencia dal caos. Come se la cava con la letteratura spagnola? «Conosco qualcosina. Ad esempio mi piace Alicia Gimenez Bartlett. Ho letto alcun dei suoi gialli: intriganti». Come la sua nuova avventura. «E’ stato sempre detto che il mio è un gioco alla spagnola, ora lo vedremo. I progetti mi paiono seri, però mi capisca: per ora non posso dire di più». E allora andiamo a Malvaldi: perché ha scelto questo libro? «Perché una compagnia operistica in fondo è come una squadra. L’impresario è il presidente, i cantanti sono i calciatori e il pubblico i tifosi. E poi c’è la politica, l’arte, il mondo reale. Cosa serve di più?» Malvaldi scrive che i cantanti sono «egoisti, prepotenti, vanesi e irrazionali»: è il ritratto dei calciatori? «Esattamente, ma lavorare con loro è bello perché è una sfida. Cerchi di far dialogare dei micromondi che fanno lo stesso lavoro, ma ognuno chiuso in se stesso. Difficile fare gruppo». Anche perché il direttore d’orchestra è «manesco con gli inermi, servile coi pettoruti». A chi lo associamo? «Come figura agli allenatori, ma quella definizione sarebbe perfetta per alcuni arbitri». Quale impresario, ovvero, presidente, è stato il più illuminato di quelli che ha avuto? «Direi i Bortolotti, a Bergamo. Achille, il papà, diceva: “Per il vivaio prendiamo i giovani bravi, ma ne bastano una decina. Occupiamoci soprattutto dei ragazzi delle nostre parti. Magari un giorno smetteranno ma avranno sempre l’Atalanta nel cuore”. Un grande, come suo figlio Cesare. Quando finii la carriera mi chiamò e mi disse: “La squadra per cominciare a lavorare te la do io. Non so se diventerai un bravo allenatore, ma so per certo che non mi farai mai fare brutta figura”. Due giorni dopo morì in un incidente d’auto, la sua stretta di mano, però, sapevano tutti che valeva come un contratto. Pensi se Achille avesse visto i nostri vivai: tutti pieni di stranieri. Gli italiani fino all’Under 19-20 sono fra i migliori al mondo, basterebbe che qualcuno avesse voglia di indagare su quali interessi ci sono dietro. Facile capirlo, no?». Con queste premesse etiche, è stata una fortuna che la Juve le abbia detto di no nel 2004? «Non ci ho mai pensato. Calciopoli è stata una brutta pagina. Certo, all’epoca si respirava un’aria strana, però Umberto Agnelli aveva pensato a me. Incontrai Moggi e chiesi un ingaggio molto alto per capire se mi volevano davvero. Lui mi strinse la mano e poi presero Capello». Una frase del libro colpisce: «Le cose riprovevoli si fanno sempre in gruppo». Nello spogliatoio ne succedono? «Dipende da quello che si intende. La fronda verso qualcuno certamente sì. Mi è capitato di sentire ragazzi che parlavano di cene di gruppo e magari c’era qualcuno che diceva: “Io veramente non sono stato invitato”. Sono segnali. Una volta Trapattoni alla Juve ci disse: “Se pensate che il problema sia io, ditemelo e me ne vado. Ora io esco, parlatene fra di voi”. Non fece in tempo a uscire che Zoff ci guardò e disse: “Il primo che dice una parola se la vede con me”. Tutti zitti: il gruppo era cementato. Allora Dino uscì dalla porta e lo chiamò: “Mister, tutto a posto. Ora saliamo subito in pullman”. Come nell’opera, esistono i fischi orchestrati ad arte? «Certo. A Firenze all’inizio fischiavano Jorgensen. Ogni tocco di palla, arrivava la contestazione. Io non mi arresi, lui neppure e alla fine diventò un idolo». Una squadra è l’antitesi alla voglia di anarchia che attraversa il libro? «Non è detto. In certi momenti si può essere anche anarchici. Le faccio un esempio. Col Parma eravamo in trasferta a Piacenza e Mutu a un certo punto riceve palla a centrocampo, spalle alla porta. Io gli dico: “Giocala”. Invece la tiene, regge botta, si gira, supera l’avversario, vola verso la porta, ne dribbla due e segna. Che gli dici? Corri in campo e lo abbracci». Anarchici come teste matte del pallone? «Non proprio. Ci sono alcuni che preferiscono passare per teste matte per non mettersi davvero alla prova e correre il rischio di fallire». Sta pensando a Balotelli e Cassano, vero? «Anche. La loro carriera di alti e bassi lo dimostra. Non sono sorpreso che ora si ritrovino così». I perfetti capri espiatori del fallimento del Mondiale 2014, insieme a lei ovviamente. «Certo, perché il calcio è così. Tutto quanto di buono è stato fatto in 4 anni si è dimenticato per una sola partita, quella con la Costa Rica». Quanto le ha fatto male vedere tanti azzurri ripetere: «Ora con Conte è tutto diverso, sono tornate le regole» e così via? «Per niente. Il calcio è questo. Ci faccia caso, ad ogni esonero la squadra dice che col nuovo allenatore si lavora meglio. Un po’ è mancanza di coraggio, un po’ è un segnale per dire al nuovo tecnico: “Conta su di me”. Non mi scandalizzo». Sa anche lei che è stato persino accusato di aver fatto scegliere il ritiro azzurro dalla sua compagna Novella, vero? «Certo, pensi lei che stupidaggine. Quella - come il codice etico e come l’idea di portare mogli e fidanzate - è stata una scelta condivisa col gruppo. Poi a tutti ha fatto comodo dare la colpa a me, Cassano e Balotelli». Un’altra battaglia l’ha persa: quella dell’outing nel calcio. Persino durante il «suo» Europeo Cassano diede spettacolo con le sue dichiarazioni sugli omosessuali. «Antonio è senza filtri, ma siete stati peggio voi giornalisti che vi siete messi a ridere. Perché nessuno gli ha detto: “Come ti permetti di dire certe cose?”. Invece siete stati complici. Detto questo, il nostro calcio non è pronto per parlare di questo tema come di politica. Io con Renzi l’ho fatto e sono stato attaccato duramente». A proposito di politica, lei ha vissuto una fetta di Anni di Piombo a Torino. Come ai carabinieri nel libro, vi hanno mai accusato di essere «servi del potere»? «Mai. Erano giorni di scioperi, picchettaggi. Roba dura contro gli Agnelli. Ma quegli stessi operai, quando venivano a vedere gli allenamenti, facevano follie per toccare Platini. Il calcio fa ritornare tutti bambini». Anche lei, come il d.s Sabatini, ha la testa a sinistra ma il corpo a destra? «Tutti nasciamo di sinistra. Sono gli interessi che poi ci portano altrove». Vero che ha un rapporto di disagio coi soldi? «Sì, non ne porto mai. Una volta me li sono dovuti persino far prestare da un passante per fare benzina. Era così fin da bambino. I miei vendevano bibite e tutte le sere mio nonno ci faceva contare l’incasso. Io odiavo farlo, mi rendeva triste, mi sembrava di sprecare quella mezz’ora in cui magari avrei potuto uscire e giocare. Credo che dipenda da questo. Infatti poi i miei amici mi prendevano in giro: “Ci sono solo tre persone che escono senza soldi: il Papa, l’Avvocato e te”». Malvaldi parla anche di tradimenti: è più grave quello di un calciatore o di un presidente? «Se lo fa un calciatore, lo fa inconsciamente. Per un presidente è diverso, fa più male». La giravolta di Lotito per la Lazio l’ha ferita, vero? «Sì, c’erano le premesse per lavorare bene insieme. Ci eravamo stretti la mano, ma non sono più i tempi dei Bortolotti». Grazie alla fede, invece, lei non si è mai perso, neppure quando è morta sua moglie. Ricorda quel momento? «Manuela era un po’ San Tommaso, io più credente... Mah, ultimamente ci sono alti e bassi, ma non dipende dalla sua morte. Durante le ultime ore io e i miei figli l’abbracciavamo, le parlavamo di continuo. I medici della terapia del dolore ci hanno spiegato che i malati terminali perdono per ultimo il senso dell’udito, ma riconoscono solamente le voci dei familiari. Ecco, noi ci siamo stati fino alla fine». Ha mai pensato di farla finita? «No, mai. E poi avevo delle responsabilità verso i miei figli. Al suicidio professionale invece ho pensato diverse volte. Basta, smetto. E non solo dopo la Nazionale o l’esperienza col Galatasaray. Poi però torna la passione e ti rimetti in gioco». Per questo la valigia è già pronta. Valencia lo aspetta già.